Vivere o morire: il ritorno di Motta tra un bivio e due capelli bianchi

MOTTA_ph Claudia Pajewski-0698

“Vi è piaciuto il disco? E’ bello, vero?”, chiede tenendo la chitarra con una mano e con l’altra spostandosi una ciocca di capelli dalla faccia, che puntualmente gli ricade davanti agli occhi pochi minuti dopo. La prima domanda la fa lui, Motta, ai giornalisti intervenuti alla presentazione del suo nuovo album, Vivere o morire.
Una domanda che non sembra un semplice pourparler, ma la ricerca di una conferma, quella di essere riuscito a mantenere le aspettative.
Del resto, il suo album precedente, La fine dei vent’anni, aveva sconvolto non poco la scena indie italiana, portandolo sotto i riflettori del grande pubblico e diventando uno dei più grandi casi discografici degli ultimi anni.
Si sa, per un cantautore scrivere – e poi condividere – musica è molto di più che svolgere un lavoro: significa presentarsi, scoprirsi, denudarsi, e Motta con questo album lo ha fatto con non poco coraggio. Sapeva di avere una grande attenzione puntata addosso, anche perché per il pubblico non era più l’esordiente che doveva farsi conoscere, ma sapeva anche di non avere paura della maggiore popolarità.
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Il lavoro è partito il 1 aprile 2017, data dell’ultimo concerto all’Alcatraz di Milano, con cui Motta ha chiuso il ciclo promozionale del disco precedente: di quella serata però non ha un bel ricordo, “ero troppo nervoso, ho esagerato, non ero pronto a gestire un evento di quel tipo. Magari per chi era presente è stato bello, ma sul palco c’ero io, e se mi accorgo che qualcosa non va devo cambiarlo. Solo recentemente ho voluto rivedere i filmati. Dopo quel live mi sono chiuso in un silenzio di tre settimane a casa dei miei, in Toscana, e mi è servito molto per acquisire una certa sobrietà”.
Se per La fine dei vent’anni c’era stata la produzione di Riccardo Sinigallia, qui Motta si è ritrovato a fare da solo, suonando e producendo quasi tutto: “Quando ho detto a Riccardo che era arrivato il momento di mettersi a lavorare a un nuovo disco, lui mi ha risposto che ci avrei lavorato io. Ho voluto coinvolgere Taketo Gohara e con lui sono andato fino a New York, dove ho lavorato anche Mauro Refosco, forse il miglior percussionista al mondo, e sono entrato negli studi dove ha lavorato Jimi Hendrix, ho suonato strumenti che non conoscevo, restando quasi spaventato dalla musica. Ecco perché sapevo di dover in Italia con in mano qualcosa di davvero importante”. 

Rispetto a La fine dei vent’anni, è lui per primo a riconoscere in Vivere o morire una crescita: “Prima vivevo in una sorta di ordinata confusione, giustificata anche dall’età, ora sono riuscito ad arrivare a una sintesi, non vedo più davanti a me certi bivi, ho preso una direzione, anche musicale: può anche essere quella sbagliata, ma una scelta è stata fatta. Anche per questo nell’album ci sono solo 9 brani: era il numero giusto, non potevano starcene di più o di meno, aggiungere altro materiale che avevo scritto avrebbe spezzato il racconto. Crescere non vuol dire per forza cambiare, si può anche restare se stessi: sono sempre più convinto che con il tempo siano i versi delle canzoni a cambiare, perché li leggiamo in modo diverso. Io sono fiero di essere invecchiato, e vado fiero dei miei due capelli bianchi”.
Sarà forse anche questo orgoglio di maturità che lo ha spinto a non risparmiarsi nella scrittura dei nuovi brani: “Di solito quando scrivo parto da un gancio emotivo, stavolta il processo è stato molto più personale, non ho voluto usare compromessi, anche a costo di darmi delle coltellate. Quando si finisce di scrivere una canzone ci si deve sentire meglio: se ti senti come prima non serve a nulla. Va bene anche se ti senti peggio, ma non puoi restare indifferente”.
Parlando del lavoro di scrittura, dalle sue parole emerge anche un senso di fatica, che diventa subito evidente davanti a canzoni come Quello che siamo diventati, la title track Vivere o morire e soprattutto E mi parli di te, il brano che chiude l’album: “È stato in assoluto il più difficile da scrivere: avevo già parlato dei miei genitori, ma con il tempo ho imparato a vederli di più come un uomo e una donna. Ero a abituato a vedere mio padre più come un comunista che come il mio babbo“.
La sua paura più grande oggi è quella di dimenticare, e lo canta anche nel brano che dà il titolo al disco: “Ho paura di dimenticare tutto, anche gli errori o le scelte sbagliate, che invece sono indispensabili per crescere. Mi piace la concezione binaria della vita, fatta di scelte continue tra partire e restare, vivere o morire“.

E qual è il suo concetto di ribellione? “In tutte le mie canzoni sento una presa di posizione, anche quando parlo della fine di un rapporto, e per me questo è un po’ come fare politica. Non so bene cosa sia la ribellione, ma prendere una posizione e capire a che punto sei è un buon punto di partenza”.

Motta, febbraio 2018
A maggio partirà un nuovo tour, che si concluderà proprio sul palco dell’Alcatraz, ma da sotto i riccioli scuri sul viso di Motta spunta un sorriso di sfida: “Stavolta sono prontissimo”.
Queste le date:
26 maggio Roma, Atlantico
28 maggio Bologna, Estragon
29 maggio Firenze, Obihall
31 maggio Milano, Alcatraz