“Ci sono giorni in cui un raggio di sole sembra non riuscire a farsi breccia tra le nuvole. Ma ci sono anche giorni in cui i mali diventano pesci che schizzano fuori dall’acqua al tramonto. È una certezza quella secondo cui la bellezza in tutte le sue forme, malinconia inclusa, deve guidarci sempre… come lei che se n’è accorta ed è venuta a parlarti, poi ti ha soffiato sul cuore e ti ha fatto capire dov’era la tua parte migliore.”
Due anni dopo l’album Rive, volume 1, Fabio Curto ritorna con La tua parte migliore, brano con cui prosegue il sodalizio con l’etichetta Fonoprint.
Il “dark blues” con cui l’artista si è fatto conoscere al grande pubblico lo porta ora a mescolare influenze cantautorali con un approccio intimo, ma carico di pathos. Attraverso un flusso di immagini essenziali, il brano manifesta una potente celebrazione della vita, alla ricerca della parte migliore di ognuno, nascosta ma pronta a germogliare con tutta la propria energia.
Chi si è già imbattuto tra le pagine web di BitsRebel sa che questo è un blog dedicato soprattutto alla musica, ma che ogni tanto lascia spazio anche ad altro, soprattutto se questo “altro” ha in sé un’indole ribelle, in uno dei mille modi in cui una cosa può essere ribelle. Era da un po’ di tempo che mi frullava in testa l’idea di scrivere un pezzo su The Fashionable Lampoon, e volevo farlo adesso, a febbraio, perché febbraio è – insieme a settembre – il mese delle sfilate femminili, ovvero uno dei due mesi cruciali per l’editoria del fashion, e qui proprio di fashion si sta parlando. E poi perché a febbraio 2017 cade il secondo anniversario di Lampoon.
Ma cos’è The Fashionable Lampoon? Se ve lo state domandando significa che in questi due anni non lo avete mai letto e guardato, il che è un vero peccato, perché si tratta di una delle realtà editoriali più interessanti che siano emerse nell’ultimo periodo. Una realtà, per giunta, totalmente italiana, pensata e nata in Italia, ma con un occhio che sa guardare non solo oltre le Alpi, ma anche oltre l’Oceano. Sarà forse per questo, o forse per il titolo, che spesso nelle edicole trovate Lampoon sistemato tra i magazine stranieri. Fatto sta che finalmente possiamo essere orgogliosi di avere una rivista di moda concepita in Italia e che non ha nulla da invidiare ai fighissimi magazine d’importazione.
L’avventura di The Fashionable Lampoon è iniziata nel febbraio 2015, quando – dopo una martellante campagna di manifesti disseminati per le strade – è stato pubblicato il primo numero. Dietro all’idea del progetto, come era spiegato molto bene nel primo edtoriale, vi erano le menti di Carlo Mazzoni, scrittore e direttore di L’Officiel Italia tra il 2012 e il 2014, e Roberta Ruiu, forse nota ai più come ex componente delle Lollipop, quelle di Down Down Down e Batte forte. Lui ha portato l’esperienza editoriale, lei l’occhio sveglio del pop. Tutto partiva da un’estate che stava volgendo al termine: in riva al mare, chiacchierando di amori naufragati, Carlo e Roberta hanno lanciato il seme di quello che pochi mesi dopo si sarebbe concretizzato in Lampoon.
La parola è stata presa in prestito da The Harvard Lampoon, giornalino a carattere satirico curato dagli studenti della celebre Università americana. È proprio con questo spirito è nato The Fashionable Lampoon, un magazine che avrebbe dovuto trattare la moda con leggerezza, quasi satiricamente, quasi sdrammatizzandola – attenzione, sdrammatizzandola, non ridicolizzandola -, togliendole quell’aura di serietà con cui spesso viene descritta e disegnata da giornalisti, esperti e stilisti stessi. E così è stato. Come titolo del primo numero è stato scelto Snob & Pop, che poi è diventato il mantra delle uscite successive: quello cioè di affiancare e mescolare eleganza e raffinatezza con l’anima pop e glitterata dello stile. Chi avrebbe comprato il primo numero, ci avrebbe trovato in copertina l’incarnazione di questo messaggio, vale a dire la nobiltà di lunga tradizione della principessa Elisabeth con Thurn und Taxis e il pop modaiolo di Chiara Ferragni, la superblogger italiana che senza blasoni si è guadagnata la notorietà internazionale tra il popolo del fashion. Sulle uscite successive sarebbero comparsi John Kortajarena insieme a Luca Argentero, Amanda Lear con Eva Riccobono, Baptiste Giabiconi con Emma Marrone, Isabella Ferrari con Valeria Mazza.
Questo è Lampoon, un giornale che gioca sulle tendenze, mescola le carte, azzarda proposte. Un magazine a mosaico, frammentato nei contenuti ma anche concretamente, dal momento che le sue pagine sono stampate su differenti tipi di carta. Molto interessanti a questo proposito i dettagli delle stampe proposte di volta in volta da alcuni nomi della moda. Testi brevi, in italiano e inglese, in cui i protagonisti vengono raccontati nell’essenziale e in modo vivo. Un ruolo essenziale è naturalmente giocato anche dalle immagini, (bellissimi) servizi fotografici che vedono protagonisti personaggi della moda (ovviamente), ma anche dello spettacolo e dell’arte, e capita così di trovare in uno stesso numero – o in uno stesso servizio – leggende della danza, del teatro, del cinema, della televisione e della musica, in un caos solo apparente che dà vita a uno spettacolo di idee. Tanto per fare un esempio, cito il servizio firmato da Michael Avedon per la issue di settembre 2016, in cui comparivano Benedetta Barzini, Gillo Dorfles, Arrigo Cipriani, Franca Valeri, Franco Nero, Carla Fracci, Gianni Canova, Lina Solis Italo Rita, Nero, Bruna Vespa, alcuni sporcati di glitter. Questa è la leggerezza di Lampoon, il suo essere giocosamente ribelle per parlare di un mondo inarrivabile ai più, scomodando geni e tronisti, dive e veline. Cultura impegnata e cultura pop sottobraccio una dell’altra, bellezza e fashion presentati non con occhio staccato da maestri, ma complice.
Per la pubblicazione del secondo numero, a settembre 2015, sotto l’egida di Lampoon è anche stato messo sul mercato un brano musicale, Keep On Shining, realizzato dai Lampooners – ovvero le anime del magazine, tra cui Fiammetta Cicogna e Paolo Stella – insieme a Esther Oluloro, conosciuta in TV per la partecipazione a The Voice. Si parlava di splendere, dentro più che fuori, ognuno a modo a suo. Ecco, sfogliando le pagine di Lampoon, tra una ricercata e costosissima selezione di outifit, accessori, cosmetici e profumi, il messaggio che si coglie sembra proprio quello. Perché se la moda non è democratica la bellezza fortunatamente sì.
La parola d’ordine scelta per l’uscita di febbraio 2017 è Aristofunk, allo scopo di celebrare l’unica aristocrazia ancora ammissibile nel nostro tempo, quella del talento. E se non è democratico il talento……
In meno di un anno è passato dalla finale di Amici al palcoscenico di Sanremo, dove concorre tra le Nuove Proposte (con i suoi 20 anni è il più giovane in gara quest’anno) con Ora mai. In mezzo, Lele ha aperto alcun date di Emma ed Elisa e ha pubblicato il suo primo disco, Costruire, in cui ha messo la sua firma in molti brani e che il 10 febbraio sarà ripubblicato in una versione 2.0 con alcuni pezzi inediti.
C’è un motivo particolare per cui hai scelto di proporre alla commissione del Festival proprio Ora mai? Un motivo in particolare no: è un brano che fin da subito è sembrato adatto ad essere proposto a un’orchestra, per cui la scelta è stata quasi naturale. Inoltre, è una canzone sulla fine di una storia d’amore, ma se ne parla con consapevolezza, nonostante io abbia solo 20 anni. Cosa significa sentire per la prima volta un’orchestra che suona un tuo brano? È come immaginarsi di vedere un figlio crescere nella pancia della mamma e poi ritrovarselo tra le braccia. La sensazione che ho avuto durante la prima prova con l’orchestra è stata quella di sentire la realizzazione fisica di quello che avevo scritto insieme a Fabrizio Ferraguzzo, è stato come poter osservare a occhio nudo qualcosa che non si può vedere, qualcosa di immateriale. Rispetto a quando sei arrivato ad Amici come ti senti cambiato? Mi sento molto più consapevole. Grazie ad Amici sono cresciuto umanamente e professionalmente, anche con l’aiuto di Elisa ed Emma, e fortunatamente ho potuto vivere quel percorso fino alla fine. Quindi ho voluto trasportare tutto quello che ho imparato negli cinque nuovi brani che fanno parte della riedizione dell’album: ho proprio notato un passo in avanti sia nell’approccio tecnico sia in quello interpersonale. Per la mia età mi considero ancora in costruzione. Questa partecipazione a Sanremo per te cosa rappresenta, un nuovo inizio, un arrivo, una continuazione? È un’altra tappa del mio percorso. Un punto di partenza no, perché non lo è stato nemmeno Amici, e ancora prima nemmeno The Voice, ma è stato quando ho iniziato a studiare musica da piccolino. Tutto quello che è successo da lì in avanti lo considero parte di un cammino che ha come filo conduttore la mia passione per la musica. Come ti trovi nell’ambiente discografico? Dal primo giorno in cui sono entrato in Sony ho trovato intorno a me un ambiente coeso, determinato e affettuoso, cosa che non mi aspettavo nel mondo della discografia. Ho sempre avuto la percezione di un team di persone che lavoravano per me e con me: mi piace molto il lavoro di squadra, credo che faccia la differenza per la creazione di un progetto univoco. Spero che si possa andare avanti lavorando in questo modo. Per i nuovi brani che su quali sonorità ti sei mosso? Poco tempo fa mi è capitato di leggere una recensione in cui si parlava di Ora mai come di un classico brano sanremese, ma non penso sia così, mi risulta sia che di solito a Sanremo si usino le tastiere in quel modo. Negli altri brani mi sono spinto ancora di più attraverso le influenze dell’hip-hop straniero e del nu soul, e mi sono divertito molto. Anche alla luce dei talent, oggi partecipare al Festival tra le Nuove Proposte è diverso rispetto a dieci anni fa? Sì, è sicuramente diverso, ma arrivare a Sanremo dopo la notorietà del talent è un’arma a doppio taglio: ti porti dietro il pregiudizio di uno che vuole solo apparire e arrivare alle ragazzine, senza essere mosso da un reale interesse per la musica. Questa purtroppo è una deriva che la televisione ha preso da un po’ di anni, ma è un metro di giudizio qualunquista. Io spero di essere giudicato solo per la canzone, anche perché poi alle persone è quello che resta in testa, non se arrivi da un talent o da un’accademia. È tutta gavetta. Cosa ti aspetti e come ti aspetti Sanremo? Voglio restare concentrato sulla canzone, spero di eseguirla al meglio e che possa arrivare al pubblico. Il festival invece me lo aspetto come il grande evento che ogni anno ferma l’Italia per una settimana, un evento totale.
Se avete buona memoria, vi ricorderete di averla già vista (e sentita) nel corso della terza edizione di The Voice: si chiama Francesca, è bolognese, e per presentarsi al pubblico ha scelto di farsi chiamare Tekla – in greco “luce benedetta”, ma scritto con la k, perché “fa più techno”.
Dopo l’esperienza televisiva e alcuni singoli pubblicati, è entrata nella grande famiglia Fonoprint, i famosi studi di registrazione della sua città che hanno recentemente festeggiato il quarantesimo anniversario di gloriosa attività, trasformandosi anche in etichetta discografica. Tekla è uno dei primi nomi su cui Fonoprint ha scelto di puntare, e da poco ha dato alle stampe Via, il suo nuovo singolo.
In bilico tra pop, elettronica e r’n’b, il brano è accompagnato da un bel video che vede protagonisti Kira, il ballerino e acrobata reduce dalla finale di Italia’s Got Talent, e un cerchio….
Come dobbiamo interpretare il titolo del tuo nuovo singolo, Via? Via indica la propria strada, la propria scelta, la propria consapevolezza. È un titolo in intimo e personale. Ti definisci una “fanatica della comunicazione”: cosa intendi esattamente? Quali aspetti e quali forme della comunicazione ti affascinano in particolare? Sono una fanatica della comunicazione poiché resto incantata da qualsiasi cosa permetta di esprimerci in modo diretto mettendo a nudo le nostre sensazioni, belle o brutte che siano. Contemporaneamente adoro anche la tecnologia, che credo sia l’emblema della comunicazione attuale. L’arte penso sia il canale espressivo che più mi affascina, in ogni sua forma, ma il colpo di fulmine sono state le arti circensi. Ecco perché il cerchio è il grande protagonista del mio videoclip Via.
Perché la scelta del nome Tekla? Ho visto inoltre che nell’indirizzo del tuo sito web e della tua pagina a Facebook compare anche il termine “bless”: c’è una ragione in particolare? Tekla è un nome d’arte che, inizialmente, credevo fosse veramente il mio secondo nome. Con il tempo la mia famiglia mi ha fatto cadere ogni tipo di ipotesi, ma ho scelto di mantenerlo perché mi piaceva particolarmente. Tekla & Bless possiamo dire che siano sinonimi, entrambi significano benedizione. Bless infatti è nato dalla mia passione per la Black Music: nel reggae e soprattutto nella dancehall, Bless è un intercalare dal significato per nulla banale.
Le sonorità della tua musica sembrano molto influenzate dal panorama internazionale: quali sono gli artisti che senti più vicini a te? Ascolto molta musica internazionale ma anche italiana. I miei artisti di riferimento sono sempre in cambiamento, Rino Gaetano, Gaber, Billy Holiday, Nina Simone, Chaldish Gambino, Abra, Tommy Genesis, Major Lazer, Salmo, Mezzosangue, Murubutu, Dargen D’amico. Non hai mai pensato di scrivere in inglese? Utilizzo l’inglese in alcune frasi che inserisco nel testo delle mie canzoni ma scrivo in italiano perché è la mia lingua ed il mio canale espressivo. I tatuaggi sul tuo petto dicono “qui” e “ora”: significa che non sei una abituata a non guardare al passato? “Qui” e “ora” sintetizzano la filosofia di vita che ho scelto di seguire per non perdere l’animo spensierato, senza preoccuparmi inutilmente di cosa c’è prima e di cosa c’è dopo, concentrandomi nel dare il meglio di me nel momento presente.
Sai già che forma e che colori avrà il tuo primo album? Come lo vorresti? L’album è ancora in fase di lavorazione e, scaramanticamente, preferisco non essere troppo dettagliata anche perché lo considero come il risultato di un processo di maturazione artistica che ogni giorno subisce delle modifiche. Posso dire, tuttavia, che sono entusiasta per il lavoro che sto svolgendo con lo staff di Fonoprint ed onorata per le produzioni davvero importanti in corso. Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione? La ribellione rompe i canoni comuni, grida a voce alta anche dove non è concesso, è la culla della creatività. La ribellione segue i propri principi, non ne conosce altri, per me la ribellione rappresenta la coerenza con sé stessi.
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
È bello vedere che almeno gli tanto anche il mondo del tanto vituperato mainstream riesce a offrire qualcosa che, nell’ambito del pop al femminile, non abbia proprio lo stesso livello glicemico della media. Prendere per esempio il caso di Melanie Martinez. Classe 1995, originaria di Porto Rico, nel 2012 ha partecipato all’edizione americana di The Voice, ritrovandosi sotto la protezione di Adam Levine. Una volta fuori, andando contro ciò che la più lineare logica di mercato avrebbe previsto, si è presa un bel po’ di tempo per lavorare al suo primo progetto discografico, l’EP Dollhouse, che infatti è stato pubblicato solo nel 2014. Già in quelle prime quattro tracce, la ragazza mostrava gli elementi che avrebbero poi caratterizzato il suo primo vero album, vale a dire un concept incentrato sullo stridente contrasto tra la smagliante apparenza e le crepe della realtà nella vita di una qualsiasi famiglia benpensante, il tutto immerso in un’atmosfera quasi favolistica pullulata di bambole e ninnoli.
Un tema nuovamente è più ampiamente affrontato in Cry Baby, l’album di debutto. La storia che Melanie vuole raccontare è quella di una bambina – chiamata proprio come l’album – che non riesce a trovare il suo posto nella realtà che le sta intorno, gli amichetti di scuola non la comprendono e non la accettano, lei è la diversa, l’esclusa. Lei è un freak. Un racconto portato avanti con un pop in cui non si fanno mancare influenze hip hop e di un certo cantautorato, ma che soprattutto procede sotto luci dai colori non sempre rassicuranti. Il rosa confetto si muta in viola, l’azzurro diventa petrolio. E i sorrisi si incupiscono. La storia della protagonista passa anche attraverso problemi famigliari e delusioni di cuore. Una favole a tinte noir, priva della candida innocenza che caratterizza di solite le piccole eroine. Cry Baby viene esclusa e soffre, ma si costruisce il lieto fine nel suo colorato mondo di bambole, ritrovando la sicurezza solo in se stessa. Incarnando perfettamente anche nell’aspetto il personaggio da lei creato, Melanie Martinez ci si presenta come la ragazzina triste del pop, quella che dallo stile musicale più zuccheroso che ci sia sa trarre ombre. È non è certo un caso che scorrendo le tracce dell’album vi siano momenti in cui torna spaventosamente alla mente Lana Del Rey, la più triste delle popstar, quella che usava il pop per ricordarci che siamo tutti destinati a morire. Melanie Martinez non arriva a tanto, ma ci vedere che anche il pop sa piangere, e quando lo fa potrebbe persino essere bellissimo da ascoltare.
Non fatevi ingannare dalla copertina. Quello sfondo rosa dietro a lui vestito da pugile non serve a dare contrasto tra – mettiamo – la durezza dei testi e l’easy listening della musica. Anche perché in questo album di easy listening ce n’è ben poco.
No, quel color pastello, così come il super liquidator di una delle foto interne al booklet doveva essere un richiamo a un certo immaginario, quello a cui si rifà Cult, il singolo di quest’estate: doveva essere questo il tema attorno cui far ruotare l’intero disco, che infatti proprio così doveva intitolarsi, con i richiami agli anni ’90, la nostalgia per un decennio “in cui si è inventato tutto, mentre adesso il ritmo è rallentato e si continua a lavorare per migliorare le stesse cose. Oggi si tende ad addormentare l’intelligenza, si agevola la scimmia, non c’è lungimiranza, non si fa più scouting: penso che siamo nel periodo peggiore della natura umana”.
Poi il progetto è diventato Terza stagione. Quasi come una saga televisiva, il terzo capitolo discografico del rapper milanese arriva dritto come un pugno in faccia, sicuramente inaspettato.
In questi ultimi anni di grande fregola generale per l’hip hop, siamo infatti stati spesso abituati a vedere il rap sui palchi nazional popolari e in ogni radio e ci siamo convinti che in fondo non fosse altro che la nuova forma del cantautorato. Che in parte è vero, soprattutto per ciò che riguarda i messaggi contenuti nei testi, ma abbiamo forse perso per strada il dettaglio che l’hip hop parte dal buio, dal grigio delle periferie delle città, dalle situazioni più dure, ed è quindi per sua natura uno dei generi meno pettinati. Accanto a rapper che scalano le classifiche con hit da ombrellone, strizzando l’occhio ai ragazzini, c’è – vivissima – una parte del mondo hip hop che porta ancora addosso vestiti scomodi.
Ora, senza voler innescare inutili lotte intestine, ci eravamo un po’ convinti – compreso il sottoscritto – che uno come Emis Killa potesse stare tranquillamente accanto a uno come Fedez: lo avevamo creduto quando sono esplosi entrambi nel 2013, lo avevamo creduto ancora di più quando li abbiamo visti uno a X Factor e l’altro a The Voice, ci eravamo cascati quando uno duettava con la Michielin e l’altro ci proponeva il para-inno mondiale Maracanà. Pop travestito da hip hop, insomma. Lo credevamo. Ci abbiamo creduto fino a quest’estate, quando Emis Killa è tornato con Cult, che aveva tutta l’aria di essere un altro tormentone in rime.
Ma il il rap è fatto di zone di colore e di coni d’ombra, e in Terza stagione lo si capisce al volo.
A fronte di una copertina color confetto e fatti salvi un paio di brani, per il resto Emis Killa ci ha portato un album durissimo, dai suoni freddi e con i testi abrasivi. Già Non era vero lo faceva intuire, poi è arrivato Dal Basso, ed è stato chiarissimo. Qui la voglia di sorridere ai lustrini proprio non c’e, e se c’è è ben mascherata dietro a testi in cui il filtro dell’autocensura è stato completamente eliminato. I riferimenti alla periferia, al “blocco”, alla “vita di prima” non si contano, e hanno tutto l’aspetto di essere sinceri.
E quindi come si concilia il rapper di questo album con il giudice di The Voice? Beh, a quanto pare sono due facce dello stesso prisma, che hanno convissuto da sempre, ma che forse è stato il pubblico a voler separare. Tra i brani che più fanno strabuzzare gli occhi, Su di lei, praticamente un rapporto sessuale descritto in presa diretta: “All’inizio si era quasi pensato di non metterlo nel disco, mi avevano anche detto che era brutto. Sono perfettamente consapevole che una canzone così mi porterà delle critiche, soprattutto dai genitori dei ragazzi che mi ascoltano, ma io non voglio apparire migliore di quello che sono. Un pezzo come questo l’avevo già fatto anni fa, si intitolava Sexy line, ma lo conoscono in pochi e quando lo proponevo nei live vedevo l’imbarazzo sui volti delle mamme e de papà. Credo però che sia giusto che tutto il pubblico sappia chi sono e cosa faccio, non sono un teen idol, non sono Benji & Fede, se vuoi ascoltarmi devi conoscermi”.
Al di là di questo, Terza stagione è comunque un album generosissimo, che nelle sue 17 tracce (per la versione standard) affronta momenti e atmosfere molto diversi, trattando temi come il cambio di prospettive (Non è facile, una botta sonora da pelle d’oca, forse il pezzo più bello del disco), l’alcolismo (Jack) e il femminicidio (3 messaggi in segreteria).
Di tutto rispetto e numerosi gli ospiti: Neffa, Jake La Furia, Coex, Fabri Fibra, Maruego, Giso e Jami. “Non è facile collaborare con gli altri rapper, e in generale è difficile trovare le collaborazioni: per questo album ho dovuto escludere un pezzo proprio perché non ho trovato una cantante che volesse farlo. Ma questo è un problema che dura da anni: ai tempi di L’erba cattiva, avevo proposto a Nina Zilli, con cui ho bel rapporto di amicizia, il duetto per Parole di ghiaccio, ma il suo manager ha preferito non farlo”. Su tutti, due sono i fili rossi: da una parte, come si diceva, il rimpianto per gli anni ’90 e la delusione nel vedere le nuove generazioni spente e demotivate, perse tra i messaggi delle chat e ormai orfane delle ginocchia sbucciate in strada, di qualche sano schiaffone e del corteggiamento vero, dall’altra l’appartenenza al mondo delle periferie, nonostante l’arrivo della fama. Ma come è cambiata in questi tre anni la vita di Emis Killa? “I vantaggi ci sono stati, inutile negarlo, ma credo di non essermi pettinato, non mi sono raffinato rispetto a prima: mi vesto con lo stesso stile cafone, solo che adesso i vestiti sono più belli e costano di più. La popolarità ha però anche aspetti negativi: prima di tutto ci sono più pressioni, responsabilità e ritmi più serrati nel lavoro, che sono lontani dal concetto di arte, e poi oggi so di essere molto più esposto alle critiche, vengo attaccato più facilmente e il mio temperamento mi ha spesso portato a reagire. Ho dovuto imparare a moderarmi, mordermi la lingua e se necessario passare dalla parte del torto, perché quando sei così esposto ogni tuo comportamento viene amplificato. Continuo a frequentare i vecchi amici, esco con loro, magari non nei locali più noti, ma da quel punto di vista la mia vita non è cambiata. C’è chi dice che mi sono montato la testa e non saluto più quando passo per strada: la verità è che sono persone che non salutavo neanche prima, solo che adesso hanno il pretesto per parlare. Se c’è un aspetto in cui forse mi sento cambiato, è l’intolleranza, oggi ho un po’ di pazienza in meno”.