Spesso non ci pensiamo, ma quando guardiamo le stelle stiamo in realtà guardando qualcosa che non c’è più, o che comunque appartiene al passato, perché quella luce prima di essere visibile a noi ha percorso una strada lunga diversi anni, talvolta migliaia.
Per il suo ultimo singolo, Ylenia Lucisano ha utilizzato questa immagine e in forma di metafora l’ha applicata per descrivere quello splendore che vediamo negli altri, ma che spesso non è altro che il riflesso – o meglio il Riverbero – di qualcosa che c’era.
Perché l’uso dell’immagine del cielo stellato per descrivere questa situazione?
Parte tutto dalla mia passione per il cielo notturno. Non sono un’esperta di astri, ma le stelle mi fanno ripensare al cielo della mia terra, la Calabria, perché a Milano è difficile poterle vederle bene, l’ho detto anche in altri brani. È una luce che continuiamo a vedere anche dopo che queste stelle sono morte.
Quindi è qualcosa legato in generale ai ricordi o solo alle storie d’amore?
Nel brano il riferimento è a una storia d’amore che finisce, ma è una situazione che si può presentare nella vita di tutti i giorni, legato anche ai semplici ricordi delle persone che abbiamo intorno e di cui conserviamo memorie passate, che si sono spente con il tempo, ma a cui ci siamo legati.
Tu che rapporto hai con i ricordi?
Mi lascio molto condizionare, non riesco a restare indifferente e a slegarmi con facilità da quello che è stato. Il passato è un elemento presente in tante delle mie canzoni.
Mi piace l’uso dell’immagine che hai usato per il video del brano. Tra l’altro, alla regia c’è un nome speciale.
Hyst, cioè Taiyo Yamanouchi. L’ho conosciuto tramite alcuni amici rapper, perché anche lui è un rapper, oltre che regista. Mi erano piaciuti alcuni suoi lavori e l’ho contattato alcuni mesi fa, quando dovevo presentare il brano per Area Sanremo (Riverbero è stata poi selezionata tra gli otto finalisti, ndr). Avevamo solo sei giorni giorni di tempo, lui si è fatto in quattro e siamo riusciti a realizzare una prima versione, poi con più tempo abbiamo aggiunto delle scene fino ad arrivare al risultato definitivo. Dello styling si è invece occupata Corinne Piervitali, la compagna di Hyst. Non è la prima volta che lavoro con artisti orientali, e vedo certe affinità tra loro e noi calabresi, non so, forse per la mentalità.
Hai già collaborato, tra gli altri, con Zibba e Pacifico, e recentemente hai duettato con il rapper milanese Peligro: sogni qualche altra collaborazione in particolare?
Con Francesco De Gregori. Sogno un suo brano scritto apposta per me, anche se so che è un’utopia perché lui difficilmente scrive per altri. Ho avuto l’occasione di aprire alcuni suoi concerti in passato e lo considero già un bel regalo.
Per il nuovo album hai deciso qualcosa?
Sono già passati tre anni dal primo, per cui i cambiamenti sono tanti, ho fatto esperienza, ho un approccio mentale diverso. Sto lavorando con nuovi musicisti e un nuovo produttore. Voglio mantenermi sulla scia del folk, ma con suoni nuovi, internazionali.
L’idea di partecipare a un talent non ti ha mai sfiorata?
Ho fatto alcuni provini in passato, perché le strade vanno tentate tutte, ma mi sono resa conto che non era la mia strada. Stavo già iniziando a lavorare al disco e ho preferito crearmi una mia identità piuttosto che farmene appiccicare una da altri ed essere etichettata come una uscita da un talent.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Ribellione è libertà, senza ricorrere alla violenza e a mezzi eccessivi. Parte tutto dentro di noi, cambiando noi stessi cambiamo anche quello che abbiamo attorno. La ribellione è pacifica.
BITS-CHAT: Con il vento in faccia. Quattro chiacchiere con… Fabrizio Moro
BITS-CHAT: Con il vento in faccia. Quattro chiacchiere con… Fabrizio Moro
A vederlo non si direbbe, e a sentirlo cantare con quel suo timbro viscerale neppure, ma Fabrizio Moro è piuttosto timido e, per sua stessa ammissione, piuttosto chiuso. Andare in tintoria, al ristorante o fare un’intervista con un gruppo di giornalisti era per lui più difficile di quanto possa sembrare.
Poi, negli ultimi anni, qualcosa è cambiato: complice anche la nascita della seconda figlia, Fabrizio ha iniziato a guardare all’esterno in maniera diversa, più libera, più pacifica.
Non è un caso che proprio Pace sia il titolo del suo nuovo album, che arriva a circa un mese dalla partecipazione a Sanremo con Portami via. Un disco in cui per la prima volta ha affidato la produzione ad altri e che prima di tutto è il frutto di un lavoro e di una ricerca interiori, un vero e proprio percorso verso l’equilibrio e la serenità, fatto di tappe tormentate, ma anche di ritorni all’infanzia.
Fino a rendersi conto che essere in pace con il mondo può voler dire semplicemente avere la possibilità di prendersi il vento in faccia nel traffico di Roma.
Da quello che si sente nei nuovi brani, questo sembra essere l’album dei grandi cambiamenti: è così?
Questo è sicuramente il disco più egocentrico che ho fatto. Ho lavorato molto su me stesso durante la fase della pre-produzione. In questi due anni mi sono successe tante cose, tra cui la nuova paternità. Mi sono guardato indietro e per la prima volta dai tempi del primo album mi sono reso conto di aver costruito un’eredità forte. Tutto questo mi ha dato serenità. Ho iniziato a vivere in modo diverso la quotidianità, semplicemente andando in tintoria, accompagnando i figli a scuola, andando al ristorante, ho fatto cose che prima delegavo agli altri, perché sono sempre stato chiuso, avevo un rapporto difficile con l’esterno, e so che la pace che ho trovato adesso è una condizione passeggera, perché il mio carattere competitivo e battagliero mi porta ad avere sempre una meta da aggiungere.
È corretto vedere nell’album un percorso che dal tormento arriva alla quiete?
Quando ho ascoltato l’album dall’inizio alla fine mi sono reso conto che questo è un disco terapeutico, ma l’ho capito solo alla fine, dopo aver messo in ordine la scaletta dei brani già finiti, perché quando sei in fase di registrazione intorno c’è troppa frenesia e non senti nulla, ecco perché è stata importantissima la prima fase. Il disco si apre in minore e chiude in maggiore, e di certo non è stato un caso. Poi c’è una parola che torna spesso, e che all’inizio mi dava quasi fastidio, senza accorgermene, ed è paura. Scavando dentro di me, inizialmente avevo timore, non sapevo cosa avrei trovato, non sapevo quali prove mi attendevano, ma poi sono arrivate le conferme. Potrei quasi definire Pace un concept album.
La paternità ti ha fatto rivivere un po’ di infanzia?
Sì, soprattutto con mio figlio, il più grande. Mi somiglia molto caratterialmente e in lui ho ritrovato me bambino, anche solo accompagnandolo in un negozio di giocattoli. Jeeg Robot e Mazinga sono le prime persone con cui mi sono confrontato, ancora prima dei coetanei. Poi crescendo non ho mai trovato una stabilità sentimentale, e fin da quando avevo 15 anni sentivo di voler essere padre di una donna: per questo sento un legame particolare con mia figlia, ancora prima che nascesse, la idealizzo come la donna della mia vita. Portami via è infatti dedicata a lei.
A Sanremo com’è andata?
Direi al contrario di come pensavo: mi aspettavo una posizione più alta in classifica, ma un minore riscontro sul lungo termine, invece Portami via è arrivato al disco d’oro in due settimane. Tra l’altro, ho cantato piuttosto male: fin dalla prima serata avevo un groppo in gola che non sono riuscito a mandare via. Quest’anno ho sofferto il palco in maniera particolare, avevo una grande ansia da prestazione, che poi è sempre stato un mio limite che mi ha anche tenuto lontano dai riflettori. Aspettavo conferme da me stesso e sentivo che anche altri le aspettavano, e non mi sentivo completamente lucido, temevo di perdere quello che avevo costruito. Alla fine, è andata meglio così.
Amici ti ha aiutato nel rapporto con l’esterno?
Anche quella è stata un’esperienza terapeutica, mi ha aiutato ad aprirmi: solo qualche anno fa non sarei riuscito ad affrontare un’intervista con dieci giornalisti. Maria De Filippi mi chiamava da un paio d’anni, ma avevo sempre paura di confrontarmi con le critiche e con quel riflettore così grande, che fa risaltare ogni cosa che fai. Oggi ce la faccio. Sono fatto così, faccio quello che posso in un quel momento e il resto lo lascio al destino.
Pace fa rima con libertà?
Alcuni anni fa ho lavorato a una trasmissione della Rai, Sbarre, che era girata nel teatro del carcere di Rebibbia, proprio vicino a San Basilio, il quartiere in cui sono cresciuto. Sono andato lì ogni giorno, dalla mattina alla sera, per circa un mese, e ho parlato tanto con i detenuti della mia età, ma anche più piccoli, molti con condanne pesanti. Quando tornavo a casa, salivo in macchina o sul motorino, abbassavo il finestrino e prendevo tutta l’aria in faccia, perché mi rendevo conto della fortuna che avevo a poter vivere quella libertà, anche in mezzo al traffico di Roma. Un po’ come chi è in ospedale e apprezza la salute appena esce. La pace non è solo avere tranquillità economica, ma anche riuscire a percepire l’importanza dei gesti più piccoli, una sigaretta all’aria aperta, una bottiglia di vino con un amico, un giro alle giostre con tua figlia.
Il duetto con Bianca Guaccero come è nato?
Inizialmente il disco doveva avere dieci canzoni, questa è l’undicesima. Bianca mi ha chiamato tempo fa per chiedermi un pezzo per un suo film in uscita. Quando poi l’ho sentito cantato da lei, sono rimasto stupito, non sapevo che cantasse, e che cantasse così bene! Allora le ho proposto il duetto.
Come ti trovi in veste di autore per altri artisti?
Ho scritto sempre per me stesso, raccontando di me, anche in un pezzo come Sono solo parole, che ho regalato a Noemi. C’è stato un momento in cui non riuscivo a trovare un compromesso con le case discografiche e con con chi mi gravitava attorno, ma visto che mi arrivavano diverse richieste dai colleghi ho pensato di sfruttare l’occasione e usare i proventi SIAE dei miei brani per aprire un’etichetta, La Fattoria del Moro. L’unica volta che ho scritto pensando a un altro interprete è stato per Fiorella Mannoia, nei due pezzi che ho scritto per il suo ultimo album.
Negli anni i tuoi ascolti sono cambiati?
No, alla fine ascolto sempre le stesse cose: rock internazionale, U2, Oasis, Coldplay, e poi tanto metal, gli Slayer, gli Anthrax, impensabile se poi senti quello faccio nei miei album.
Sui social come ti trovi?
Ultimamente mi lascio andare un po’ di più e ho imparato a divertirmi. Twitter però non riesco a usarlo: ho bisogno di spazio per esprimere un pensiero.
Per i live hai già pensato a qualcosa?
Durante gli ultimi due tour ho avuto dei momenti di noia, perché sono stati molto simili, non abbiamo mai toccato gli arrangiamenti. Per il nuovo tour invece riparto completamente da zero e da qualche mese stiamo lavorando alla scaletta. L’anteprima sarà al Fabrique di Milano il 20 aprile, poi farò un po’ di promozione, e riprenderò da Roma con due date il 26 e il 27 maggio al Palalottomatica, per poi girare in una ventina di città.
BITS-CHAT: Un nodo tra passato e futuro. Quattro chiacchiere con… Paolo Vallesi
Era il 1992 quando Paolo Vallesi presentò a Sanremo quello che sarebbe diventato il brano più importante della sua carriera, La forza della vita. Da allora, di anni e di musica ne sono passati tanti, abbastanza per fare il punto sul passato annodandolo al futuro con un filo robusto, Un filo senza fine, come il titolo del nuovo lavoro del cantautore fiorentino.
Un album non di soli inediti, ma anche di alcuni importanti ricordi rivisitati in chiave sinfonica o elettronica, come La forza della vita e Le persone inutili.
In apertura del disco c’è inoltre Pace, il bellissimo duetto con Amara che era stato presentato per Sanremo ma che ne è rimasto escluso, salvo essere poi stato voluto da Conti sul palco del Festival durante la serata finale per il suo messaggio.
Partiamo dal titolo: che cos’è questo Filo senza fine?
Ha un doppio significato. È il titolo di una canzone dell’album, con un significato che tra un attimo ti spiego, e poi è il titolo che ho voluto dare al disco perché rappresenta il mio rapporto con la musica. Un filo che non si è mai spezzato: non importa che lo faccia per tante o poche persone, il rapporto che ho da sempre e resterà per sempre, e in questo disco ho voluto legare il passato, il presente e nuovi suoni elettronici che potrebbero rappresentare il mio futuro.
A proposito del brano invece?
Ho voluto metterlo subito dopo Pace perché sono un po’ le due facce della stessa medaglia. Nella canzone parlo della non violenza. Mi sono immaginato una persona che abbia iniziato a srotolare una matassa per arrivare a trovare l’origine, scoprire che ha dato inizio alla violenza che vediamo oggi intorno a noi. L’uso delle armi autorizza l’uso di altre armi, in un circolo che sempre a crescere. È una critica verso le armi e la violenza usate come soluzione ai problemi. L’accoglienza e il dialogo sono le uniche vere soluzioni.
Un album di inediti e canzoni del passato rivisitate: un nodo tra passato e futuro quindi?
Ho voluto fissare qualche punto. Quest’anno La forza della vita festeggia 25 anni, e la SIAE l’ha riconosciuta come un evergreen della musica italiana. È stata l’occasione per riprendere alcuni brani su cui non avevo mai lavorato, dal momento che erano dei successi e come tali non avevo mai pensato di toccarli e non avrei nemmeno saputo come rifarli: ho approfittato del fatto di avere a disposizione un’orchestra sinfonica per rivestirli completamente.
Oggi, dopo 25 anni dalla pubblicazione, La forza della vita ha un significato diverso per te?
Oggi di sicuro non la riscriverei così, perché ogni canzone è figlia del suo tempo, e se qualche volta ho commesso un errore è stato proprio perché ho cercato di rifare qualcosa. Quando mi arrivano proposte di nuovi brani, spesso noto che sono dei cloni di cose che ho già fatto, invece ogni canzone dovrebbe avere una storia a sé. La forza della vita è attuale ancora oggi, il suo vero valore forse sta anche in quello: ricevo ancora tanti apprezzamenti, molta gente mi ringrazia dicendomi che questo brano è stato utile durante momenti difficili, e questa è la cosa di cui vado più orgoglioso. Per un cantautore non ci può essere soddisfazione più grande.
E per te c’è un cantautore di riferimento?
Fossati. Proprio per questo ho voluto omaggiarlo con Una notte in Italia, che è il suo brano che più di tutti gli altri mi ha fatto sognare.
Tra i momenti più intimi dell’album c’è I miei silenzi, che è anche un altro degli inediti.
Forse è il brano che più sento mio. L’ho scritto in solitudine. Oggi mi trovo a vivere la condizione di padre e figlio, e vedo come l’amore possa essere facilmente esternabile da una parte e difficilmente dall’altra, anche se ha la stessa forza in entrambe le direzioni. I silenzi hanno a volte un valore molto grande, perché nascondono tutto quello che non sappiamo manifestare.
Prendo spunto da Il mio amore, liberamente ispirato al Cantico delle creature, per chiederti che rapporto hai con la spiritualità.
Sono molto legato alla dimensione spirituale, pur non essendo in cattolico molto praticante. Chi fa questo lavoro è costretto a indagare molto dentro di sé, alla ricerca di risposte che spesso non esistono. Cerco di trarre insegnamento da tutto quello che vedo. Questo brano non l’ho scritto io, mi è arrivato con una musica completamente diversa, ma con un testo meraviglioso, e ho voluto lavorarci sopra. L’autore, Enrico Rialti, non è un musicista, ma un biologo che lavora all’Università di Bologna: ha scritto il testo quasi per gioco, senza pensare che sarebbe davvero finito in un disco. Io l’ho solo un po’ adattato e l’ho preso in prestito da lui, che a sua volta si è fatto ispirare da qualcuno di più grande.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Ribellione è libertà, e la libertà è il modo più bello di esternare la propria vita, senza alcuna costrizione. Non intendo la ribellione come un elemento sovversivo, ma come qualcosa che, andando contro, ti fa arrivare a una maggiore consapevolezza di te e di ciò che sta attorno.
Stile Ferreri: un Girotondo di autori nel nuovo album di Giusy
Stile Ferreri.
Un po’ pop, un po’ rock, un po’ elettronico, tutto nella giusta misura. Ecco come si presenta Girotondo, l’album che segna il ritorno in pista di Giusy Ferreri, a quattro anni da L’attesa, se non si considera il successo colossale di Roma-Bangkok e la raccolta Hits.
Un album formato da un “cocktail autorale“, come simpaticamente lo definisce la diretta interessata: espressione che rende benissimo l’idea dei nuovi brani, perché se da una parte abbiamo firme come quelle di Roberto Casalino, Dario Faini, Diego Mancino, ma anche Federico Zampaglione (presente anche come ospite in L’amore mi perseguita), Tommaso Paradiso (Occhi lucidi) e Marco Masini (Immaginami), dall’altra ci sono i tappeti sonori di Takagi e Ketra (quelli di Roma-Bangkok), Diego Calvetti, Gianluca Chiaravalli, dello stesso Faini, elementi mischiati tra loro in cerca di soluzioni nuove, atmosfere fresche, danzerecce, magari vagamente latine, a sostenere parole che talvolta volano alte, testi che tratteggiano momenti di poesia, intimi o aspri, anche inattesi.
Come nel caso di Il mondo non lo sa più fare – penso il migliore di tutto l’album: Che quest’epoca inizi / perché comincia la musica/ e sulle schiene ci crescano le ali.
O nel caso del pezzo che dà il titolo al disco, una riflessione sulla vita, o ancora della conclusiva La gigantessa, ispirata al componimento di Baudelaire, dove si parla di un infinito novecento / delle nostre meraviglie / nei risvegli tra la gente / mentre mastichi il mio cuore. Un elettropoprock – mi piace definirlo così – fatto di momenti intimi, tanto amore, e qualche graffio sanguigno.
Un cocktail di autori e di atmosfere preparato con attenzione in un costante lavoro di gruppo, e che oggi più che mai definisce quello che in futuro potrebbe davvero essere lo “stile Ferreri“, una cifra stilistica personale e inconfondibile, anche per la presenza di quel timbro “ingombrante” (lo definisce così proprio lei) che ha fatto di Giusy una delle più riconoscibili interpreti arrivate dall’universo-talent.
Se mai ci fosse qualcuno che ancora oggi, nove anni dopo la sua partecipazione a X Factor, si ostinasse a definirla la “Amy Winehouse italiana”, nei nuovi brani avrebbe ampio materiale per cui ricredersi. Qui c’è solo Giusy.
Legato all’uscita del nuovo disco c’è poi il capitolo di Sanremo, ancora fresco di chiusura: un’edizione non troppo fortunata per la Ferreri, subito eliminata con Fa talmente male. Ma lei non sembra farne un grande dramma, semmai si rivela più stupita: “Sanremo per me è stata ogni volta l’occasione per propormi in una veste nuova. Nel 2011 ho presentato la svolta rock, nel 2013 con Ti porto scena con me avevo invece un pezzo poetico e più emozionale. Stavolta pensavo di andare sul sicuro con un brano che considero un po’ il fratello gemello di Novembre e Volevo te per i suoi elementi di elettronica. Forse su quel palco l’anima della canzone non è uscita fino in fondo: riascoltando le registrazioni ho sentito che veniva fuori soprattuto la parte orchestrale, e poi mancavano le voci dei controcanti, mentre io nell’interpretarlo mantenevo l’intenzione che la canzone aveva in studio”. E in effetti, riascoltandola oggi, senza la frenesia festivaliera, Fatalmente male svela un’anima molto più decisa di quanto non sia emerso durante il Festival. Ma poco importa davvero: “Ho passato così tanto tempo a non essere compresa in quello che facevo che l’eliminazione non mi ha toccato più di tanto”.
Sul palco, confessa, si sentiva un po’ il fiato corto, ogni tanto aveva delle vampate strane di calore, e sapeva bene il perché: proprio poco prima del Festival ha scoperto di essere incinta.
BITS-CHAT: "Sono i dettagli a fare la differenza". Quattro chiacchiere con… Elodie
BITS-CHAT: “Sono i dettagli a fare la differenza”. Quattro chiacchiere con… Elodie
La prima cosa che si nota in Elodie dopo alcuni minuti di chiacchierata è la sua determinazione. Nonostante abbia mosso ancora pochi passi nel mondo della musica, sembra avere già le idee molto chiare su quello che vuole, e anche di fronte ad alcune domande non proprio accomodanti non si lascia scomporre e risponde tranquillamente senza mai perdere di vista il tuo sguardo.
D’altronde, è reduce da Sanremo, lei che ancora meno di due anni fa si esibiva nei piccoli locali e un batter d’occhio si è ritrovata catapultata sul palco più insidioso e osservato d’Italia. Un battesimo del fuoco che non poteva che rafforzarla. La sua Tutta colpa mia si è piazzata ottava e il suo bilancio di questa esperienza è più che positivo.
Ora è uscito il suo primo album, che ha lo steso titolo: un disco di 13 brani firmati da alcuni degli autori più rilevanti della nuova scena italiana, come Zibba, presente nel duetto di Amarsi basterà, Federica Abbate e Amara.
Tante influenze tra pop e soul, da sempre il suo mondo di riferimento (ma ricorda che andava a scuola con i Kool & The Gang nelle cuffie), con l’utilizzo di strumenti registrati in presa diretta e qualche sorpresa dal sapore atipico, come La cosa che rimane. Un disco femminile nell’anima, che in qualche modo prosegue il percorso già iniziato con il primo EP uscito la scorsa primavera.
E il 26 aprile sarà la volta dell’Alcatraz di Milano.
Domanda iniziale quasi d’obbligo: Sanremo, com’è andata?
Benissimo, mi sono proprio divertita: la definirei un’esperienza liberatoria, la rifarei cento volte.
Pensi che il Festival ti abbia aiutata in qualcosa?
Ho acquisito più sicurezza, perché dai locali sono passata in breve tempo allo studio di Amici e poi all’Ariston. Poi ho imparato a non prendermela troppo per i giudizi che leggo in giro: all’inizio fanno male, poi ci ridi su, ma bisogna imparare. Dopo tutto, questo lavoro l’ho scelto io.
Tra le critiche, alcuni dicono che ci sono troppe somiglianze tra te ed Emma.
Indubbiamente entrambe abbiamo un approccio viscerale e raccontiamo le cose in maniera forte, ma io era già così prima di arrivare ad Amici e conoscere Emma. I nostri progetti però sono costruiti in modo completamente diverso, perché io arrivo dal pop-soul, lei dal pop-rock.
Adesso è il momento dell’album. Un disco con le firme di tanti autori!
Fortunatamente sì, autori importanti: è arrivato tanto materiale tra cui scegliere, ma non è stato molto difficile fare la scrematura dei pezzi.
Gli autori sono quasi tutti uomini, ma l’album ha una forte visione femminile: come lo spieghi?
Chi più di un uomo può apprezzare la donna? E poi penso che sia soprattutto una questione di sensibilità, non di una visione maschile o femminile. Voglio farmi portavoce per le ragazze che non trovano un senso, un obiettivo e hanno bisogno di sentirsi utili: la dignità e il rispetto sono valori in cui credo molto, perché noi donne dobbiamo guadagnarci le cose con un po’ più di fatica. Un elemento che voglio che arrivi alla gente è che sono una donna forte, pur avendo molte fragilità, alcune evidenti anche fisicamente. Mi sento una guerriera e voglio affrontare i miei limiti.
Sembra abbastanza evidente che al centro di tutto il disco ci sia l’amore: perché?
Perché l’amore è l’unica cosa che mi fa alzare dal letto la mattina. Di cosa avrei potuto parlare se non di sentimenti? Non sono ancora abbastanza adulta per parlare di vita, ma mi sento aperta verso le persone. Però l’amore non è da intendere solo come quello tra due compagni, quello semmai arriva alla fine: prima bisogna saper amare se stessi. L’amore è impegnativo, vedere le cose negative è facile, mentre è faticoso essere felici, perché richiede lavoro, va costruito.
Tra i brani che portano una firma femminile c’è La verità, scritto da Amara. Si sente un’atmosfera diversa: è messo apposta alla fine dell’album?
Sì, è come una riflessione detta tra i denti, e mi è sembrato giusto per la chiusura. Amara è una fuoriclasse, è spirituale, ha un bel cervello, e quando ti arriva un brano così non puoi che restare senza parole.
Tu non hai mai provato a scrivere una canzone?
No, non penso di esserne capace. Ho un quaderno su cui ogni tanto scrivo delle cose, quello che penso, ma per ora nessuna canzone. Magari in futuro, ma adesso mi limito a scrivere le mie frustrazioni.
E tra i grandi autori della canzone italiana, chi vorresti scrivesse per te?
Fossati, mi piacerebbe tanto, perché non è mai banale. Parla dell’amore con parole che non sapevo nemmeno esistessero.
Considerando il tuo amore per il mondo del soul, l’assenza di brani in inglese è un po’ strana. E’ una scelta o semplicemente non c’era il pezzo giusto?
Non ho voluto cantare in inglese, è troppo semplice. Senza passare per tradizionalista, voglio cantare nella mia lingua. Sono italiana, parlo italiano, perché dovrei cantare in inglese? L’italiano è molto più difficile, più ampio, ha un peso diverso, e lo conosco meglio dell’inglese.
In Giorni bellissimi canti “uno sbaglio ti illuminerà”. Credi nel valore degli errori?
Come no, sono fondamentali! Da incosciente, ne ho fatti tantissimi e sono convinta che, senza arrivare a commettere colpe gravi, nella vita ci si debba sempre buttare. I fallimenti ci sono, ma ci sia rialza e si va avanti, possibilmente circondati dalle persone giuste. Il vero fallito è quello che non fa niente.
E’ vero che “l’universo è nei dettagli”, come dici in Sono pazza di te?
Facciamo tutti la stessa vita, la differenza sta proprio nei dettagli. Sono una grande osservatrice, mi piace il genere umano e guardo molto le persone, il modo in cui muovono gli occhi, mi parlano, e facendo questo lavoro sto conoscendo tante persone diverse.
Nel video di Tutta Colpa Mia c’è quella scena in cui metti in bocca un pesciolino d’oro: cosa c’entra con la canzone?
Ha un significato particolare, ma non si può dire. In realtà il pesce era attaccato a una collanina che non si poteva togliere, per cui è stato un po’ complicato… Tutto il video è molto particolare, mi sono affidata a loro e io ho soltanto dovuto fare il playback. Questa volta è andata così infatti è pieno di significati.
Il 26 aprile ti aspetta il live all’Alcatraz di Milano: cosa vedremo?
Prima di tutto vedrete me! (ride, ndr) Parlando seriamente, ci stiamo lavorando: potrebbe esserci Loredana Bertè e altri ospiti, ma non c’è ancora niente di sicuro. Potrei anche fare delle cover in inglese, chissà…
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Semplicemente, penso che la ribellione sia seguire il proprio istinto senza ascoltare quello che gli altri vorrebbero da te. Mi sembra positivo, io ho sempre fatto così. Penso di essere una brava persona, no?
BITS-SANREMO: la finale
E alla fine Sanremo spiazzò tutti.
Sì, tutti quelli che non volevano vedere e sentire.
Se facessimo un rewind di tre o quattro giorni, vedremmo Fiorella Mannoia elevata sugli altari ancora prima di aver fatto sentire il suo brano, semplicemente per il nome che porta. L’effetto Vecchioni – quello cioè del grande artista impegnato che si concede al Festival e vince a mani basse – non si è ripetuto, e la Mannoia, precocemente eletta papessa, esce dal conclave con la porpora. Certo, si è pur presa il secondo posto, ma meno di una settimana fa tutti avrebbero appoggiato le mani sui carboni ardenti per scommettere che la vittoria non sarebbe potuta andare che a lei.
Poi però abbiamo iniziato a sentire le canzoni e quando Gabbani ha capovolto il palco con la micidiale formula leggerezza/elettronica/balletto/gorilla si è capito che il risultato non era poi così scontato. Ma nessuno lo ha ammesso, e alla domanda su chi avrebbe vinto, la maggior parte dei critici e degli espertoni della domenica continuava a portare avanti il nome della rossa, senza accorgersi (o senza volersi accorgere) che il suo pezzo era interpretato magistralmente, ma non aveva il mordente giusto per abbattere la corazzata Gabbani. Ma vuoi mettere una canzone impegnata ed ecumenica di un’artista che da oltre trent’anni calca le scene con un pezzo balneare di uno che fino all’anno scorso gareggiava tra le Nuove Proposte? Diamine, non sia mai!
Per fortuna però i tempi sono cambiati, e il Festival ha rinnovato la propria pelle grazie anche al lavoro di Conti, che pur cercando di accontentare tutti ha messo in gara alcuni pezzi da nvanta, che poi sono quelli che sono emersi.
In un mondo in cui la musica si divide tra bella e brutta, la canzone di Fiorella sta sicuramente nel primo gruppo, ma per un palco come quello di Sanremo la rima facile benedetta/perfetta non basta, anche se con te hai un’interpretazione da fuoriclasse. Il piazzamento sul podio le sarebbe stato comunque garantito.
Gabbani ha vinto perché è giusto così, perché Sanremo è l’anima nazional-popolare che si sfoga, e tra i 22 brani in gara Occidentali’s Karma è quello con il più alto tasso di coinvolgimento. E attenzione, se dico nazional-popolare lo intendo nella più neutra delle accezioni. Lui poi è una vera bestia da palco, capace di prendere tutto con la giusta leggerezza e di ingegnarsi balletti e mossettine da mascalzone, oltre a essere un lucidissimo osservatore della società. Dietro alla coreografia e allo scimmione, non vi sarà difficile capire che qui Francesco prende allegramente per i fondelli noi e le nostre inutili manie radical-chic, fatte di misticismo di plastica e agognato equilibrio interiore. Se sarà lui il nostro rappresentante all’EuroFestival possiamo star sicuri che se anche non vincerà farà un gran figurone.
Sul terzo gradino del podio Ermal Meta, che torna a casa con un bel pacchetto di soddisfazioni, tra quella di essersi finalmente guadagnato lo status di cantautore agli occhi del pubblico italiano.
Ottimo piazzamento per Michele Bravi, che serata dopo serata si è fatto largo con Il diario degli errori, un brano delicatissimo e di una bellezza lunare.
Quinta la Turci, che con questo Festival ha segnato una specie di riscatto personale: molti la davano vincente o comunque sul podio, e sicuramente in altre edizioni sarebbe stato così, quest’anno però l’impresa era davvero troppo ardua.
Da segnalare infine la grande rimonta di Bianca Atzei: inizialmente finita a rischio eliminazione anche in questo caso forse più per il suo nome che non per la qualità della canzone, è poi riuscita a convincere, chiudendo tra i primi dieci. Sarà anche una raccomandata speciale, ma a questo giro portava un brano giusto che ha buonissime possibilità di girare bene in radio – voglio dire in tutte le radio, non solo sulle frequenze di RTL. Sta a vedere che dopo questo Sanremo ci diventa pure simpatica…
Ecco, questo è stato l’epilogo del Festival 2017, con i suoi pronostici in larga parte ribaltati, le sue sorprese e le sue conferme. I ragazzi dei talent, ancora tanto vituperati, non hanno regalato particolari scintille, ma si sono difesi: giusta o sbagliata che si voglia considerare la loro presenza, dall’anno prossimo penso non ci sia davvero più motivo di attaccargli ancora inutili etichette, senza dimenticare che Sanremo deve essere lo specchio di ciò che si ascolta davvero, e non di ciò che si vorrebbe ascoltare. Dovrebbe essere ovvio, ma spesso ce lo dimentichiamo.
Buona musica allora, e con l’Ariston ci si rivede l’anno prossimo.
BITS-SANREMO: "Scusa, ma… Ermal chi??"
di Francesca Binfarè (allyoucanpop)
Non c’è spazio più adatto delle pagine virtuali di BitsRebel per scrivere di Ermal Meta, che con il brano Vietato morire ci ricorda la necessità di disobbedire e di ribellarci alla violenza.
La sua canzone è un inno alla vita e alla ricerca della felicità, e sta piacendo molto. Ermal ha vinto la serata dedicata alle cover del Festival di Sanremo, con un’emozionante interpretazione di Amara terra mia di Domenico Modugno. Sommerso di complimenti da ogni parte, immaginiamo cosa si è scatenato sui social.
Bene, ho pensato, adesso non mi chiederanno più “Ermal chi?”. Invece poi ho cambiato idea: visto che lo chiedono in tanti, vuol dire che molte persone l’hanno notato, che la sua musica è arrivata (Simona Ventura e la ‘pancia’ della gente insegnano). Non che fosse mai stato un problema spiegare chi fosse e cosa avesse fatto, anzi. L’ho considerato bravissimo fin dagli inizi e – per un certo periodo – sottovalutato, quindi ne ho parlato sempre volentieri. E poi, se c’è un senso profondo in questo lavoro io lo trovo nel proporre quello che sento di bello e nel cercare di farlo conoscere: io e gli amici di BitsRebel, che così gentilmente mi ospitano in questo spazio, abbiamo l’opportunità di vivere la musica quotidianamente, e possiamo assicurarvi che di cose belle e persone interessanti ce ne sono. Come Ermal Meta, che adesso sta su un palcoscenico importante, forse il più importante. Vi assicuro che questa platea il ragazzo con il fiore all’occhiello che ci ricorda di ribellarci, se l’è sudata.
Grazie a Sanremo, dicevo, in tanti mi chiedono “Bravo, ma chi è?”. Rispondo qui:
• La fame di Camilla era una band conosciuta, che ha calcato palchi importanti (Heineken Jammin’ Festival, per dire), ma non così famosa – eravamo dalla parte dell’indie pop. Potrei aggiungere purtroppo, ma comunque il succo è che quando nominavo Ermal Meta quasi nessuno sapeva che fosse il cantante del gruppo, e autore principale delle canzoni.
• La Fame di Camilla ha partecipato a un Festival: 2010, con Buio e luce. Per Ermal era il secondo Sanremo, dopo quello come chitarrista degli Ameba 4.
• “Ermal chi?” è continuato anche quando si è affermato come autore. Ha scritto canzoni per Marco Mengoni, Patty Pravo, Chiara Galiazzo, Elodie, Lorenzo Fragola, Francesco Renga – e qua mi fermo. Vi assicuro che queste canzoni le conoscete. Negli ultimi due anni le sue canzoni hanno guadagnato 6 dischi di platino e 4 d’oro… Visto che lo conoscete?
• Ermal ha scritto le canzoni che hanno vinto The Voice (per Alice Paba) e Amici (per Sergio Sylvestre).
• L’anno scorso ha partecipato al Festival di Sanremo, con Odio le favole. Arrivando terzo tra le Nuove Proposte, pubblicando l’album Umano, facendo un tour. Mettetevi in ginocchio sui ceci: è arrivato terzo tra le Nuove Proposte a Sanremo 2016, e oggi chiedete “Chi è?”. Si scherza, ma questo vuoto di memoria non sarà più concesso: si è ‘carneadi’ una volta sola nella vita, dai.
• Ermal Meta è al suo quarto Festival e finalmente è entrato di nome oltre che di fatto nella categoria dei Campioni.
• Il suo nuovo album si intitola Vietato morire, come la canzone che ha presentato al Festival. La perla è Piccola anima, che canta in duetto con Elisa.
• I suoi fan sono I lupi di Ermal.
Ah, visto che mi è stato chiesto: sì, il nome è suo, è quello vero (è nato in Albania). Ecco chi è Ermal Meta. Per il resto, andatelo ad ascoltare: potreste scoprire che quelle che scrivete in giro, su Facebook, sui diari, qualcuno anche nei tatuaggi, sono frasi sue che senza fatica sono diventate nostre.
Foto: Luis Condrò
a quarta serata
E via, anche la quarta serata è andata. Scorrono velocissimi come sempre i giorni di Sanremo e ormai, arrivati al secondo ascolto, tutta l’attenzione più che sulle canzoni è sul piazzamento che avranno nella classifica finale di stasera.
Intanto il primo verdetto è arrivato con la proclamazione di Lele a vincitore delle Nuove Proposte, e molti dicono che se lo aspettavano. Io sinceramente no, anche se è indiscutibile che il ragazzo partiva un passo avanti avendo dalla sua una dose di notorietà arrivata dalla partecipazione ad Amici.
Detto ciò, passiamo alla gara dei Campioni.
Questa volta la mannaia è caduta su Ron, Giusy Ferreri, Al Bano e Gigi D’Alessio: esito in buonissima parte prevedibile e direi anche condivisibile.
Tra i restanti 16, sembra ormai definirsi chiara una cinquina destinata a occupare i piani alti della classifica finale, vale a dire Gabbani, Mannoia, Meta, Turci e Bravi, non necessariamente in quest’ordine.
Perché se è vero che alla vigilia del Festival gli elogi erano solo per Fiorella Mannoia ed Ermal Meta, nel corso delle serate è piombato il ciclone Gabbani a scompigliare le carte, facendosi largo a suon di gomitate e balletti. La Mannoia ha sì un gran pezzo, ma – come già avevo avuto modo di osservare – troppo in linea con i suoi standard, e questo potrebbe rivelarsi un freno. Su Meta non si può francamente dire nulla, se non riconoscere il talento di un cantautore che finalmente si sta prendendo il giusto riconoscimento.
Ci sono poi alcune canzoni partite in sordina ma che di ascolto in ascolto si sono fatte forza, come Il diario degli errori di Michele Bravi, tenerissimo nell’affrontare con la sua giovane età le pesanti parole di quel testo (ah, se ascoltate la canzone chiudendo gli occhi potreste simpaticamente risentire Noemi…), e soprattutto Ora esisti solo tu di Bianca Atzei. E qui devo fare mea culpa, perché verso di lei ero pieno di pregiudizi, come molti altri del resto: sì, è vero, la Atzei non ha mai piazzato un successo in classifica, non vende, non viene passata in radio (eccezion fatta per RTL), forse è davvero raccomandata e probabilmente la sua collocazione tra i Campioni è frutto più di diplomazia altrui che non di un vero pedigree, ma la sua canzone ha un giro melodico assassino che ti si pianta in testa. Tutto il resto, a questo punto, non mi interessa, e le sue lacrime durante l’ultima esibizione mi sono sembrate sincere. Chiamatemi anche stupido, ma io la salvo.
Sensazionale poi Paola Turci, che sta facendo di questa partecipazione al Festival una vera e propria occasione di rilancio tra il grande pubblico.
Tra gli altri, pienamente promossi Samuel ed Elodie, che ieri sera si è riscattata dopo un esordio un po’ spento. Non vincerà, perché la canzone non è abbastanza forte, ma se saprà muovere bene i prossimi passi penso potrà fare belle cose e si scrollerà dalle spalle l’ombra di Emma.