Siamo la repubblica della trap. Il cantautorato di Riccardo Sinigallia torna in Ciao cuore

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Come il pennello per il pittore, anche la penna di ogni cantautore ha un suo tratto diverso e per questo riconoscibile.
Quello con cui Riccardo Sinigallia firma la sue canzoni è un tratto sottile, a volte solo accennato, tratteggiato, che sa diventare così lieve da quasi scomparire.
La poesia, perché alla fine di poesia si tratta, di Sinigallia procede per accenni, evoca, racconta ritratti di vita senza mai alzare troppo il tono, usa l’ironia quando può e malinconia dove serve. E non si preoccupa di essere “di moda”.

A quattro anni da Per tutti, il cantautore romano torna con un nuovo lavoro di inediti, Ciao cuore, titolo che riprende una verace espressione romanesca con cui “ci si saluta e con una punta di cinismo e di ironia si vuole comunicare l’idea che ciò che serviva dire lo si è detto”. Ciao core.  
Nove brani che sono in realtà ritratti di umanità, fatti di rabbia, leggerezza, denuncia, tenerezza, memoria, slegati da forme prestabilite, canonizzate o standardizzate, per sperimentare le “infinite potenzialità che una canzone può avere”.
L’apertura dell’album è affidata a So delle cose che so, che ha per testo una poesia di Franco Buffoni intercettata per caso su Facebook; c’è il ricordo di Dudù, la tata di Capo Verde, privo però di quella malinconia che ci si aspetterebbe; c’è la vena schietta che celebra la bellezza vuota in Le donne di destra; c’è il pensiero amaro per la morte di Federico Aldrovandi in Che male c’è, scritta a partire da una lettera di Valerio Mastandrea, attore e amico di lunga data del cantautore.
E’ in questa voglia a uscire dagli schemi che Sinigallia parla della “serendipità” che ama trovare nella musica: “Alla base di tutta la mia produzione riconosco l’involontarietà, perché, come diceva Carmelo Bene, la volontà è nefasta nell’arte. L’unica mia volontà sta nella disponibilità a cogliere l’attimo creativo, quel flash che possiamo chiamare ispirazione, e che guida anche le scoperte della scienza. E’ quello che Calvino ha riassunto bene: ‘Stavo attraversando la strada e ho capito tutto'”.
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Nonostante questa voglia a non farsi ingabbiare nei canoni dello schema-canzone, alla base della sua formazione non può esserci però che la lunga e solida tradizione del cantautorato italiano: “Il cantautorato ha smesso di offrire contenuti negli anni ’80, e il suo spazio è stato occupato dall’indie, che quando è nato, negli anni ’90, era semplicemente la musica che funzionava bene nei locali e non interessava alle case discografiche. Oggi la tendenza è quella di esasperare i piccoli dettagli, e anche il nostro cantautorato si è un po’ cristallizzato nei cliché. ‘Il dentificio è finito e lei mi manca’, è un po’ tutto così: una formula che all’inizio poteva essere interessante, ma che poi è stata portata all’esasperazione”.
Un’evoluzione (o involuzione?) che Sinigallia ritrova anche nella trap, l’altro genere che attualmente va tanto di moda insieme all’indie: “All’inizio la trap ha portato un linguaggio nuovo, perché il rap aveva stancato. I primi lavori della Dark Polo Gang erano interessanti ed erano onesti: forse è stato il fenomeno più onesto dopo i Sangue Misto. Poi però anche la trap ha iterato gli stessi contenuti e si è trasformata in un cliché. Oggi è un’epidemia, una moda da cui sono fuori, per fortuna”.
Trap e indie imperanti nella musica, ma non solo: “Se guardiamo la scena politica, li ritroviamo anche lì: Salvini non è forse la trasposizione della trap? Per i toni che usa potrebbe essere il Young Signorino. E Di Maio non è forse l’esponente indie della politica? Musica, calcio, politica, tutti sono collegati”.
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Da sempre attento a preservare l’equilibrio tra il testo e la musica, Sinigallia non può che guardare con un po’ di rammarico la situazione attuale del pop italiano, in cui il rapporto tra le due componenti si è sbilanciato a favore del suono, lasciando al testo un ruolo secondario: “La musica pop italiana ha generato un grande equivoco culturale, perché è diventata una sorta di franchising di un marchio statunitense o inglese: gli americani portavano da noi i loro prodotti, che per come erano stati costruiti stavano in piedi benissimo, funzionavano. L’errore è stato voler trasferire quelle stesse strutture e quei suoni nella nostra lingua, che però è molto diversa dall’inglese: le parole sono state incastrate a forza dentro a strutture che non erano adatte, arrivando a produrre contenuti che non vogliono dire assolutamente niente, ma che i discografici hanno appoggiato. Anzi, se qualcuno provava a proporre qualcosa che avesse un minimo di contenuto veniva guardato quasi con spavento. E’ un equivoco letterario portato avanti per 20 anni e tipicamente italiano, perché nel pop francese questo non succede. L’indie ha per fortuna interrotto questa tendenza, anche se poi si è chiuso nei cliché di cui parlavo prima”.
Pur avendo sempre rispettato il gioco tra testo e suono, Sinigallia riconosce che negli anni qualcosa è cambiato nella sua produzione: “Ho sempre avuto una consapevolezza istintiva per rispettare questo rapporto, ma negli anni ho maturato più consapevolezza. Da dopo il mio primo disco penso di aver affinato l’aspetto letterario, ho colto un elemento che prima invece mi sfuggiva, la poesia”.

Vivere o morire: il ritorno di Motta tra un bivio e due capelli bianchi

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“Vi è piaciuto il disco? E’ bello, vero?”, chiede tenendo la chitarra con una mano e con l’altra spostandosi una ciocca di capelli dalla faccia, che puntualmente gli ricade davanti agli occhi pochi minuti dopo. La prima domanda la fa lui, Motta, ai giornalisti intervenuti alla presentazione del suo nuovo album, Vivere o morire.
Una domanda che non sembra un semplice pourparler, ma la ricerca di una conferma, quella di essere riuscito a mantenere le aspettative.
Del resto, il suo album precedente, La fine dei vent’anni, aveva sconvolto non poco la scena indie italiana, portandolo sotto i riflettori del grande pubblico e diventando uno dei più grandi casi discografici degli ultimi anni.
Si sa, per un cantautore scrivere – e poi condividere – musica è molto di più che svolgere un lavoro: significa presentarsi, scoprirsi, denudarsi, e Motta con questo album lo ha fatto con non poco coraggio. Sapeva di avere una grande attenzione puntata addosso, anche perché per il pubblico non era più l’esordiente che doveva farsi conoscere, ma sapeva anche di non avere paura della maggiore popolarità.
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Il lavoro è partito il 1 aprile 2017, data dell’ultimo concerto all’Alcatraz di Milano, con cui Motta ha chiuso il ciclo promozionale del disco precedente: di quella serata però non ha un bel ricordo, “ero troppo nervoso, ho esagerato, non ero pronto a gestire un evento di quel tipo. Magari per chi era presente è stato bello, ma sul palco c’ero io, e se mi accorgo che qualcosa non va devo cambiarlo. Solo recentemente ho voluto rivedere i filmati. Dopo quel live mi sono chiuso in un silenzio di tre settimane a casa dei miei, in Toscana, e mi è servito molto per acquisire una certa sobrietà”.
Se per La fine dei vent’anni c’era stata la produzione di Riccardo Sinigallia, qui Motta si è ritrovato a fare da solo, suonando e producendo quasi tutto: “Quando ho detto a Riccardo che era arrivato il momento di mettersi a lavorare a un nuovo disco, lui mi ha risposto che ci avrei lavorato io. Ho voluto coinvolgere Taketo Gohara e con lui sono andato fino a New York, dove ho lavorato anche Mauro Refosco, forse il miglior percussionista al mondo, e sono entrato negli studi dove ha lavorato Jimi Hendrix, ho suonato strumenti che non conoscevo, restando quasi spaventato dalla musica. Ecco perché sapevo di dover in Italia con in mano qualcosa di davvero importante”. 

Rispetto a La fine dei vent’anni, è lui per primo a riconoscere in Vivere o morire una crescita: “Prima vivevo in una sorta di ordinata confusione, giustificata anche dall’età, ora sono riuscito ad arrivare a una sintesi, non vedo più davanti a me certi bivi, ho preso una direzione, anche musicale: può anche essere quella sbagliata, ma una scelta è stata fatta. Anche per questo nell’album ci sono solo 9 brani: era il numero giusto, non potevano starcene di più o di meno, aggiungere altro materiale che avevo scritto avrebbe spezzato il racconto. Crescere non vuol dire per forza cambiare, si può anche restare se stessi: sono sempre più convinto che con il tempo siano i versi delle canzoni a cambiare, perché li leggiamo in modo diverso. Io sono fiero di essere invecchiato, e vado fiero dei miei due capelli bianchi”.
Sarà forse anche questo orgoglio di maturità che lo ha spinto a non risparmiarsi nella scrittura dei nuovi brani: “Di solito quando scrivo parto da un gancio emotivo, stavolta il processo è stato molto più personale, non ho voluto usare compromessi, anche a costo di darmi delle coltellate. Quando si finisce di scrivere una canzone ci si deve sentire meglio: se ti senti come prima non serve a nulla. Va bene anche se ti senti peggio, ma non puoi restare indifferente”.
Parlando del lavoro di scrittura, dalle sue parole emerge anche un senso di fatica, che diventa subito evidente davanti a canzoni come Quello che siamo diventati, la title track Vivere o morire e soprattutto E mi parli di te, il brano che chiude l’album: “È stato in assoluto il più difficile da scrivere: avevo già parlato dei miei genitori, ma con il tempo ho imparato a vederli di più come un uomo e una donna. Ero a abituato a vedere mio padre più come un comunista che come il mio babbo“.
La sua paura più grande oggi è quella di dimenticare, e lo canta anche nel brano che dà il titolo al disco: “Ho paura di dimenticare tutto, anche gli errori o le scelte sbagliate, che invece sono indispensabili per crescere. Mi piace la concezione binaria della vita, fatta di scelte continue tra partire e restare, vivere o morire“.

E qual è il suo concetto di ribellione? “In tutte le mie canzoni sento una presa di posizione, anche quando parlo della fine di un rapporto, e per me questo è un po’ come fare politica. Non so bene cosa sia la ribellione, ma prendere una posizione e capire a che punto sei è un buon punto di partenza”.

Motta, febbraio 2018
A maggio partirà un nuovo tour, che si concluderà proprio sul palco dell’Alcatraz, ma da sotto i riccioli scuri sul viso di Motta spunta un sorriso di sfida: “Stavolta sono prontissimo”.
Queste le date:
26 maggio Roma, Atlantico
28 maggio Bologna, Estragon
29 maggio Firenze, Obihall
31 maggio Milano, Alcatraz