BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Quando un artista taglia il traguardo di una certa età e dà alle stampe la sua nuova opera, c’è una generale tendenza ad accogliere il lavoro con un po’ di leggerezza: è una tendenza non scritta, tacita, ma largamente diffusa.
Non è ben chiaro quale sia questo limite tra la giovinezza è la vecchiaia dell’arte, ma c’è, ammettiamolo. Si è un po’ generalmente convinti (troppo spesso a torto!) che i colpi migliori di una vita dedicata all’arte debbano arrivare entro una certa data, poi inevitabilmente, quasi per un fatto fisiologico, tutto quello che si fa è mediocre, scadente, comunque non degno di troppe attenzioni. È un fenomeno di cui si sta recentemente rendendo conto Madonna, che di primavere ne ha alle spalle 58: nonostante il suo ultimo Rebel Heart sia migliore di altri suoi dischi pubblicati anni addietro, è stata lei stessa ad accorgersi di essere vittima dell'”ageismo”, la discriminazione dell’età.
Giusto dare spazio ai giovani, sacrosanto, ma non si può nemmeno arrivare all’opposto di fare dei dati anagrafici un termometro della qualità di un prodotto artistico. La musica è stata, è e sarà piena di esempi di album meravigliosi pubblicati da artisti nel – diciamo così – autunno della loro esistenza.
E se di discriminazione anagrafica ha iniziato a soffrire Madonna, figuriamoci in che situazione potrebbe trovarsi Leonard Cohen, che ha pubblicato il quattordicesimo album nel suo ottantaduesimo compleanno. Parliamoci chiaramente, anche se Cohen è uno di quei nomi davanti a cui le gambe dovrebbero iniziare a tremare, non c’è dubbio che per il mondo lui resterà quasi esclusivamente “quello di Hallelujah“, sempre che non la si voglia attribuire forzatamente a Jeff Buckey. La realtà è che la carriera di Cohen è stata fonte di ispirazione per una quantità incommensurabile di musicisti, ha posto una pietra miliare nella storia della musica per i suoi testi, le sue poesie, ben al di là di quelle gemma che porta il nome di Hallelujah.
You Want It Darker, questo il titolo dell’ultimo album, continua gloriosamente il percorso, essendo solo l’ultimo grandissimo album di un gigante della musica dei giorni nostri.
C’è quasi un’atmosfera liturgica tra queste nuove tracce, un senso di misticismo artistico e di mistero nascosto dal lento incidere della voce cavernosa e a tratti oscura di Cohen, che più che abbandonarsi a un vero canto procede per passi poco più che recitati.
È come assistere a una solenne salmodia, durante la quale ci si deve alzare in piedi togliendosi il cappello in segno di riverenza. Perché in You Want To Darker la forza espressiva di Cohen si percepisce in tutta la sua integrità, a cominciare dal momento sacrale della titketrack, accompagnata dal Cantor Gideon Zelermyer & The Shaar Synagogue Choir di Montreal.
Un album di nove tracce che restano avvolte in loro stesse, in un denso e oscuro defluire che non si concede tappe e deviazioni di troppo, ma si ricopre solo di essenziale.
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit. Quando ci affezioniamo a un artista, esattamente come succede nella vita con gli amori e le amicizie, non lo facciamo per scelta, ma perché nasce tra noi e il nostro idolo un’invisibile alchimia data da una speciale affinità di intenti e di spirito. Vuoi che sia la sua musica, i messaggi delle sue canzoni, il timbro della sua voce, il suo aspetto o più probabilmente un miscuglio di tutto questo più un ingrediente misterioso, quando prendiamo in simpatia un artista e ne diventiamo “fan” sappiamo di poterci fidare anche ad occhi chiusi e giuriamo a noi stessi di seguirlo ovunque andrà. Come in amore. Capita poi a volte che, per ragioni che probabilmente solo il nostro idolo conosce, lui/lei decida di cambiare strada, imboccare sentieri nuovi, diversi, talvolta molto diversi, da quelli a cui ci aveva abituati: a quel punto che si fa? Gli si va dietro o ci si ferma a riflettere se ne valga la pena?
Un po’ come quando si rivede un carissimo amico dopo un certo tempo e lo si ritrova profondamente cambiato: siamo noi a non averlo mai conosciuto davvero o è lui a porsi ora in una maniera nuova? La sensazione non può che essere di straniante spaesamento.
Ecco, esattamente questo è ciò che provato ascoltando per la prima volta Joanne: quasi un senso di disagio, come se in quello che stavo sentendo mancasse qualcosa. Le canzoni mi “parlavano”, ma io non capivo, anche se a cantare era Lady Gaga, proprio quella di cui – musicalmente parlando – negli ultimi anni mi sono fidato di più. Perché sì, io di Lady Gaga posso tranquillamente dire di essere fan, pur non avendo mai messo in pratica certe follie che si sentono dire a volte di certi invasati. Sono un suo fan perché seguo tutto quello che fa, perché trovo in lei un punto sicuro, la sento un po’ mia, sento mie molte delle sue canzoni, perché sento che parlano la mia “lingua”. Adesso però, senza neanche avvisare con troppo anticipo, succede che Stefani toglie di mezzo tutti i ghirigori che aveva usato fino a qualche giorno fa e pubblica un album lontanissimo da ciò che è sempre stata. Così lontano, che se non ci fosse il suo profilo in copertina e la voce nei brani non avesse il suo timbro, si crederebbe tranquillamente che sia il disco di qualcun altro.
Non saprei dire di che genere sia Joanne: non pop, ovviamente non dance, forse a sprazzi rock, e tanto country. Ma voi capite che non è semplice dire che Lady Gaga ha fatto in disco country… Non un disco di pop addobbato di country, ma proprio un album di country e pochi altri accessori addosso! Niente elettropop, niente elettronica in generale, se non forse in Perfect Illusion, che è però il brano musicalmente più distante dal resto: c’è tanta roba acustica, tante chitarre grezze, percussioni nude, bassi secchi e vibranti, ed è davvero, ma davvero difficile capire che si tratta della stessa cantante che nel 2008 esordì con Just Dance e poi fece ballare l’intero globo con Poker Face e Bad Romance.
Dopo il rodaggio dei primi singoli, quando uscì The Fame Monster, Lady Gaga sembrava aver aperto una nuova epoca del pop femminile, un pop fatto di schiaffi diretti al pubblico, un pop immerso in un immaginario non per forza luminoso, sorridente e bello, un pop che assimilava elementi che non gli appartenevano e li riproponeva in una nuova, affascinante veste.
Con Joanne tutta questa impalcatura non c’è più: Lady Gaga recupera il country, per giunta nella sua dimensione più intima e nostalgica, e per farlo si è affidata alla produzione del tanto osannato Mark Ronson. Canzoni come la stessa Joanne, Million Reasons, Angel Down e Grigio Girls sembrano uscire dai bauli di qualche sperduta casa nella prateria, dove il vento soffia forte e il cielo è spesso coperto.
Ovviamente non so perché Lady Gaga abbia deciso di muoversi in quella direzione, ma quel che è certo è che – almeno per ora – si è staccata dalla masnada pop delle colleghe e si è rintanata in un cantuccio in disparte.
Probabilmente l’album venderà molto meno dei precedenti, e l’impressione è che sia lei che i suoi discografici ne siano perfettamente consci, eppure questa volta Lady Gaga ha deciso di prendere a schiaffi il pop stesso. Lei che se n’è nutrita in abbondanza, adesso lo mette da parte e si dedica ad altro, sapendolo fare, va detto, perché resta il fatto che questa ragazza ha dalla sua parte un talento che la fa arrivare dove molti altri possono solo immaginare.
Più che giusto domandarsi allora quale fosse la vera Gaga, se quella vestita di fettine di manzo o questa con il cappellone rosa da cowgirl, se quella del pop pestatissimo o questa a cui basta imbracciare una chitarra. Abbiamo sempre capito male noi o è stata lei a farci illudere?
E se da una parte parlo di illusione è perché dall’altra c’è delusione. Delusione per non aver ritrovato l’artista che da fan credevo di conoscere, delusione per non aver ritrovato la musica che volevo ascoltare. Perfect Illusion aveva fatto accendere il campanello d’allarme, adesso Joanne fa scattare la sirena.
Ma al di là di tutte queste belle chiacchiere, com’è questo benedetto disco? Più bello di come lo pensavo e più brutto di come avrebbe dovuto essere.
La prima metà dell’album la si può tranquillamente tralasciare, ad eccezione della già citata Joanne, una ballata dal testo toccante dedicato alla zia paterna morta di lupus in giovane età: la situazione cambia e si risolleva con sollievo a partire da Million Reasons. Da lì le acque si smuovono e arrivano un po’ di stimoli interessanti, come Sinner’s Prayer e il suo giro di chitarra nerboruto. E poi, dicevo, Angel Down e soprattutto Grigio Girls, a cui senza esitazione consegno la medaglia d’oro. Un pezzo in cui sventola più alta che mai la bandiera del blue mood e che rischia seriamente di spingere fuori qualche lacrima (e poi c’è quel riferimento non troppo velato alle Spice… Colpo basso!). Perché sia finito solo nella deluxe edition, quando merita assolutamente il più ampio ascolto possibile, resta un altro mistero di questo album…
Peccato un po’ per Hey Girl, in duetto con Florence Welch, che si perde senza mordere come avrebbe dovuto.
Prima di ascoltare Joanne dimenticate tutto quello che sapevate (o pensavate di sapere) su Lady Gaga e prendete questo disco come il grande salto di una cantante che non ci ha pensato troppo ad azzardare. Qui dentro Lady Gaga non c’è. C’è una brava artista americana che ha stoffa da vendere, e la vende a chi vuole e come vuole, anche se ci fa corrucciare un po’ troppo la fronte. Se amate il country, forse amerete Joanne, se non lo amate ci dovrete sbattere violentemente il naso contro, ma potreste anche trovarci qualcosa di buono.
Insomma, per farci un bel bagno colorato nel pop, pare che dovremo aspettare il prossimo album di Katy Perry. Sempre che anche lei non abbia intenzione di indossare un cappello rosa.
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Lo ha intitolato Kaleidos un po’ in omaggio a Poviglio, il paese in provincia di Reggio Emilia dove vive, e un po’ perché ha voluto metterci dentro un bell’impasto di colori. E in effetti il nuovo album di Niccolò Bossini ha le sembianze di una nuvola di polveri colorate, come quelle che ti si appiccicano addosso nelle color run, dove tutte le cromìe si mescolano tra loro in una grande festa dell’iride.
A brillare più di tutto in Kaleidos è una forte vitalità, una sferzata di positività e di carica pitturata di un rock che strizza l’occhio all’elemento elettronico e non si dimentica di prendere per mano il caro vecchio pop. Anzi, se non fosse un po’ troppo azzardato, si potrebbe dire che, avendo ben imparato e reinterpretato a suo modo la lezione dei Coldplay negli ultimi anni, di fatto Kaleidos è un album elettropop tendente al rock, perché le chitarre – ovviamente – ci sono e la loro figura la fanno alla grande. Probabilmente non a caso per far conoscere il progetto al pubblico è stato usato come biglietto da visita La vita è adesso, una sorta di scatola musicale imbottita di dinamite pronta a saltare per aria apiena viene sfiorata. E di momenti così nel disco ne arrivano altri, alternati a ballate rockettare (si veda Piloti e supereroi, forse la prima vera ballad di Bossini). Ma, come si diceva, oltre che per la musica il titolo Kaleidos rimanda anche all’omonimo centro polivalente di Poviglio, un punto di riferimento per il paese del reggiano, dove si concentra la vita dei suoi abitanti. È a quella realtà che Niccolò Bossini ha voluto rendere omaggio.
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Parte tutto da Hölderlin e dal suo Iperione. C’è lo stesso bivio tra idealizzazione del passato e disillusione per il presente, l’incanto dell’antico e dell’arcano, a fronte di un’attualità desolante.
The Hyperion Machine, ultimo lavoro del lussemburghese Rome, al secolo Jerome Reuter, oscilla tra ombre e punti di luce, tra mistero e realtà, tra il sogno di ciò che si è perso e il desiderio di cambiare l’oggi. Dark wave, elettronica, rock, persino folk, tutto è amalgamato qui dentro, in queste tracce che stillano inquietudine e malinconia, oscurità e sogno: un denso magma di sensazioni tese e viscerali che brilla con la luce del più rovente dei tramonti, e cola come il miele più dorato. Un viaggio che passa dalla Grecia classica e incontaminata dell’ispirazione letteraria per arrivare al caos delle macchine e della modernità portato dalla musica, guidato dalle dita e dalla voce imperiosa, liturgica e gotica di Rome, gran maestro della contaminazione sonora. Un viaggio oscuro e affascinante, a tratti claustrofobico e tempestoso, fatto di synth gravi, echi, cori sommessi.
Affascinante il sapore arcaico di Celine In Jerusalem, il brano che segue immediatamente la breve intro, così come il folk di The Alabanda Breviary, mentre con Adamas e poi con Die Mörder Mühsams si scende nelle profondità più fredde di un mondo lontano, che fa davvero paura.
Una marcia meravigliosa e solenne in mezzo ai fantasmi.
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit. Per questo album ha dichiarato di essersi “spostata” verso l’America Latina, anche se a dire la verità di richiami latineggianti non ce ne sono molti, eccezione fatta per l’ultimo brano, Don’t Shy Away, dove il tocco sudamericano viene bene fuori.
Per il resto, Familia, album che segna il ritorno in scena della star del pop inglese Sophie Ellis-Bextor dopo due anni dall’ultimo Wanderlust, è un lavoro dall’atmosfera molto particolare, diversa da quanto ci viene di solito proposto da radio e TV.
Un pop con qualche elemento folk e vagamente vintage, in cui non mancano però momenti di vero e proprio sballo in salsa disco come i due pezzi d’apertura, Wild Forever e Death Of Love, che si spalmano su un piacevolissimo e coinvolgente elettropop molto dinamico, e il singolo Come With Us. Guarda caso, sono proprio le tracce migliori.
Me l’ero persa un po’ per strada la signora Ellis-Bextor, ma sono felice di ritrovarla adesso in così luccicante forma.
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit. Se nel bel mezzo degli anni ’90 eravate già abbastanza grandi per ascoltare musica coscientemente, il nome dei Morcheeba difficilmente risuonerebbe a vuoto nella vostra testa. In quegli anni infatti il terzetto inglese è stato uno dei portabandiera del trip hop, ovvero quel magma musicale fatto di downtempo, un po’ di elettronica e una buona dose di chitarre rockeggianti. Massima espressione dell’arte dei Morcheeba fu quella gemma color del fuoco che porta il titolo di Big Calm.
Poi gli anni sono passati e la storia del gruppo e dei suoi componenti ha dubito un po’ di fisiologici cambiamenti.
Oggi non è che i Morcheeba siano proprio tornati con un nuovo lavoro, ma due dei suoi tre membri – per la precisione quell’angelo di cantante che si chiama Skye Edwards e Ross Godfrey – si sono ritrovati per dar vita a un progetto tutto loro, e lo hanno intitolato proprio Skye | Ross. Così, semplicemente. Quindi, i Morcheeba non sono davvero tornati, ma quasi. E in effetti dando anche solo uno sguardo alle tracce di questo album il paragone con la gloriosa formazione è inevitabile: un flusso che scorre tranquillo tranquillo tranquillo, in un misto di rock e atmosfere chill out.
La sensazione di serenità che se ne ricava è stupefacente e, per quelli che c’erano, la memoria non può non correre indietro agli anni ’90: si schiaccia play e l’album scorre via come una noce di burro messa al sole.
Ecco, magari dentro non ci sarà un pezzo come The Sea, e neppure qualcosa astutamente appiccicoso come Rome Wasn’t Built In A Day, ma Skye Ross è uno di quei dischi che si ascoltano con un benefico sorriso.
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Le prime parole mi sento di spenderle per la cover. Il volto di Usher come fosse un busto in marmo mangiucchiato dai vermi o corroso dal tempo.
Venendo invece al disco, si intitola Hard II Love ed è un piacere ritrovare questo pilastro dell’hip hop /r’n’b dopo alcuni anni di silenzio. Ancora di più è bello ritrovarlo in così splendida forma.
Il rapper sembra aver lasciato tutta la scena all’interprete black, e l’album si snocciola tra pezzi di r’n’b caldissimo e fondente.
Insomma, i tempi della super hit Yeah sembrano lontani…
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit. Il progetto Winter Severity Index è nato a Roma nel 2009 e dopo una serie di rivolgimenti e la pubblicazione di alcuni EP è oggi formato da Simona Ferrucci e Alessandra Romeo.
Il duo arriva oggi alla pubblicazione del secondo album, Human Taxonomy, dopo l’uscita di Slanting Ray nel 2014.
Il titolo di questo nuovo lavoro allude volontà classificatoria dell’essere umano, nei confronti della realtà a lui circostante, ma anche di se stesso. L’uomo ridotto a una categoria vede sostituire la sua personalità con un modello precostituito, e anche nel suo volersi dichiarare diverso, incappa a volte in un gioco di maschere ed etichette.
Per descrivere tutto ciò, le Winter Severity Index ci immergono in un labirinto oscurissimo di suoni, echi, distorsioni, un dedalo di tenebre claustrofobico e terrificante da cui davvero sembra di non trovare uscita.
Se amate le atmosfere gotiche e nere, Human Taxonomy vi farà sentire a casa e vi cullerà, diversamente non desidererete altro che rivedere la luce.
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
In copertina c’è un volto confuso, androgino, frutto di un mashup fotografico tra la faccia dell’artista e quella di Naomi Campbell. E le canzoni all’interno del disco sono esattamente così, confuse, ambigue, stridenti. Roba che se la musica tende a destra, i testi virano a sinistra e la voce parte dritta per il centro.
Elementi che presi singolarmente sarebbero anche molto apprezzabili, ma così combinati si strappano le vesti a vicenda.
C’era una volta Antony & The Johnsons, e mezzo mondo restò incantato dalla voce senza sesso di Antony Hegarty, di fatto unica anima del progetto. Con lui abbiamo imparato che anche gli angeli si commuovono, e che quando lo fanno esce una canzone come You Are My Sister. Poi lui è diventato lei – o meglio, lo era anche prima, solo che non aveva ancora fatto il passo di farsi riconoscere come donna anche in pubblico – ed ecco spuntare il nuovo progetto Anohni. Il disco di debutto si intitola Hopelessness, più o meno Mancanza di speranza. Al cambio di identità si accompagna un cambio radicale di musica: le poesie tristi e crepuscolari lasciano spazio a testi durissimi, arrabbiati, disillusi, politicamente interessati: Anohni se la prende con il sistema malato, che porterà tutti alla rovina, e ne ha per tutti, dai droni a Obama, a cui è dedicato un pezzo che non è esattamente un elogio. Un mondo davvero senza speranza, a livelli ansiogeni e sconfortanti. Messaggi che se sono profondamente diversi da quelli cantati un tempo, sono sempre pronunciati dalla stessa voce impastata di miele e melassa, in un contrasto fin fastidioso: se anni fa la voce di Antony era un balsamo, quella di Anohni avresti quasi voglia di zittirla. L’apice è la nenia di Obama, dove il nome del presidente è ripetuto in modo così ossessivo e biascicato che l’istinto è passare alla tracciare successiva, o peggio schiacciare direttamente stop.
L’effetto abrasivo dell’album però non si ferma qui, ma arriva a coprire l’intero elemento musicale: non mi ricordo dove (o forse sì, ma non importa) ho letto che Hopelessness sarebbe una sorta di album dance con testi impegnati. Cioè, in pratica, secondo questa teoria, tra David Guetta e Robyn nelle vostre serate al club potrebbe capitarvi di sentir passare una canzone di Anohni. Oddio, le vie della provvidenza sono infinite, ma non so quali discoteche sarebbero disposte a far passare un brano che di ballabile ha ben poco: che siano suoni elettronici posso riconoscerlo (la base di Drone Bomb Me è da pelle d’oca!), ma che si possano definire addirittura dance, beh, un po’ meno. Quindi no, Hopelessness non è un disco di tormentoni tunz tunz con i testi intelligenti.
I messaggi li ha, e sono anche piuttosto chiari e coraggiosi (per tornare a Obama, conoscete qualcun altro che abbia criticato il presidente in modo così netto?), per il resto è il regno della confusione.
Si salva Crisis, nel suo crescendo empatico.
Se poi volete fare tutti i discorsi sul cambio di identità, sesso e genere musicale e considerare Hopelessness come la farfalla uscita dal bruco, fate pure: io di Anohni facevo anche a meno, Antony & The Johnsons mi andava benissimo, maschio o femmina che fosse. Così come non me ne faccio niente della raffinatissima produzione firmata da Hudson Mohawke e Onehtrix Point Never, sistematicamente osannata, se poi il risultato è un disco che per farsi ascoltare (e apprezzare) ha bisogno di un ascolto quasi scientifico.
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Come aveva fatto lo scorso anno il Gran Maestro della dance Giorgio Moroder, per il suo ultimo progetto anche Jean-Michel Jarre, il sovrano dell’elettronica, si è avvalso di un vero e proprio esercito di ospiti che ha inserito in Electronica, un album spalmato in due volume pubblicati ad alcuni mesi di distanza uno dall’altro.
E se grande accoglienza era stata riservata a The Time Machine, con altrettante aspettative si attendeva la seconda parte del lavoro, The Heart Of Noise.
A far da guida all’album, la relazione tra l’uomo e la tecnologia. The Heart of Noise è un tributo a Luigi Russolo, il compositore che già nel 1913 predisse l’avvento del sintetizzatore e intuì che l’elettronica e le altre tecnologie avrebbero consentito ai musicisti di “sostituire alla limitata varietà dei timbri degl’istrumenti che l’orchestra possiede oggi, l’infinita varietà di timbri dei rumori, riprodotti con appositi meccanismi”.
Quello che Jarre ci offre, dopo la già ottima prova d Electronica 1, è un lungo viaggio sonoro zeppo di stimoli e sensazioni, magistralmente create dalle “macchine” elettriche, su cui appoggiano le loro voci ospiti più che illustri, tra cui i Pet Shop Boys, i Primal Scream, Gary Numan, Jeff Mills, Peaches, Hans Zimmer e Cyndi Lauper. Una parata di stelle che appaiono come comete nel cosmo lisergico e abbagliante modellato da Monsieur Jarre.
Tra gli episodi di più forte impatto, la melanconica Brick England, insieme ai Pet Shop Boys e Swipe To The Right con Cyndi Lauper.
Ma c’è poi un ospite che rende ancora più prezioso questo album e ancora più forte il suo messaggio:Edward Snowden, l’ex tecnico della CIA che con le sue rivelazioni ha dato il via al Datagate, lo scandalo sulla sorveglianza di massa messa in atto da alcuni governi all’insaputa dei cittadini, denunciando così l’abuso della tecnologia.
Jarre ha preso la sua voce l’ha piazzata sui veli elettronici di Exit.
Ecco il punto di snodo, la differenza tra un DJ qualunque e uno che dai synth sa tirare fuori musica che pulsa e che parla.
Electronica non è un album di musica elettronica.
Electronica è un progetto di Jean Michel Jarre. E c’è una bella differenza.