BITS-RECE: Savoir Adore, The Love That Remains

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Li avevo scoperti un paio di anni fa con Dreamers, li ritrovo ora con The Love That Remains e la loro musica continua a farmi pensare a un arcobaleno.
I Savoir Adore arrivano da New York, Brooklyn per la precisione, e proprio come il loro distretto che in questi anni sta conoscendo una fase di grande fermento, anche nei loro brani si sente scalpitare una freschezza vitale.
Quella che propongono non è una ricetta esattamente inedita: se avete un minimo di naso per il panorama generale, vi accorgerete che ci sono molti altri gruppi e artisti che mischiano pop, elettronica, funky, atmosfere anni ’80 e ’90, ma i Savoir Adore hanno dalla loro la capacità di farlo mettendoci un tocco di lucentezza in più. Come un pizzico di zenzero nel vostro dolcissimo cocktail alla fragola o una manciata di brillantini sull’intonaco già brillante del vostro salotto.
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Per quanto possa sembrare strano, addentrarsi in The Love That Remains significa incontrare riflessioni sull’amore, ma anche sulla perdita e sulla nostalgia dei ricordi, e non è un caso che il lavoro dell’album sia partito dal concetto brasiliano di saudade.
Tutto però sempre spinto in alto da tanta, tantissima leggerezza.

BITS-RECE: Brian Eno, Reflection. Un generatore di pensieri

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Brian Eno è uno di quegli artisti che appaiono sempre troppo grandi per essere racchiusi dentro alle scatole delle parole. Personalità e genio mentale come il suo sfuggono alle catalogazioni, al tempo, alle mode, e rischiano di far apparire banale ogni tentativo di inquadrarli.

Accade proprio questo per Reflection, il nuovo album del musicista inglese: già il concetto di album per questo lavoro non funziona, perché non si tratta di una raccolta di canzoni, bensì di un’unica traccia di 54 minuti. Non una novità per lui, che già in passato aveva pubblicato lavori simili, come Thursday Afternoon dell’85 e Neroli del ’93.
Un lavoro “ambient”, dove il termine sta a indicare un preciso tipo di musica, pensato dal suo autore come infinito e fluido, un continuo e incessante divenire di suoni sempre uguale a se stesso eppure sempre diverso, proprio come quando si guarda un fiume.
Un concetto musicale quasi filosofico, se si aggiunge il fatto che per Eno la musica ambient dovrebbe avere il preciso compito di stimolare le parole e il pensiero (da qui il titolo) di coloro che la ascoltano, quasi come un sottofondo, diventandone a tutti gli effetti parte integrante.
Infine, Reflection è un album di musica che il suo stesso creatore definisce “generativa”, basata cioè su gruppi di suoni e frasi assemblati seguendo determinate regole probabilistiche, modificati e poi fissati solo quando l’autore ne è perfettamente soddisfatto.
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Tutto troppo astratto? Può darsi, ma il risultato è qualcosa di assolutamente magnifico e di una bellezza universale; verrebbe quasi da scomodare l’aggettivo mistico, se non fosse che di trascendentale qui dentro c’è davvero poco, nessuna verità rivelata, nessuna presunzione di avvicinare il divino, ma solo – si fa per dire – lo splendore di creare note utilizzando terrene strumentazioni elettroniche.
Ad accompagnare il progetto anche un’ omonima app molto avanguardia progettata per Apple TV e iOS, in grado di creare, anzi generare, una versione dell’album potenzialmente infinita con tanto di immagini, anch’esse generative, seguito ideale di The Ship, il progetto audio-sonoro rilasciato alcuni mesi fa.
Non si può, non si riesce a spiegare diversamente cosa sia Reflection: lo si può solo ascoltare, abbandonandocisi dentro e lasciando che a parlare siano i pensieri.
È proprio Brian Eno a chiedervelo.


 

BITS-RECE: Tiziano Ferro,Il mestiere della vita. Vivi, ama, balla

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Da qualche tempo la musica di Tiziano Ferro aveva preso una strada che mi lasciava non poche perplessità: dopo i primi album ridondanti di influenze r’n’b e soul, il ragazzone di Latina si era sempre più lasciato andare a ballatone melense, spesso tendenti a umori in minore. Grande sfoggio vocale, non c’è che dire, e grandissimo apprezzamento da parte del pubblico, ma a me mancavano i tempi Xverso e Stop! Dimentica, quando Tiziano sapeva mostrare cosa significa prendere dei generi stranieri e portarli nella musica italiana senza cadere in banalità e provincialismi.

E se devo essere sincero, anche quando è uscito Potremmo ritornare, il singolo che ha anticipato il nuovo album, mi ero già immaginato un nuovo capitolo discografico fatto lacrime, downtempo e struggimenti del cuore. Che per un po’ può anche andare bene, perché Ferro le ballate e i lenti li sa fare con tutti i crismi, ma dalla sua musica io voglio sentire più mordente. Cerco, insomma, un po’ meno zucchero filato e un po’ più di croccantezza.
Fortunatamente, Il mestiere della vita, questo il titolo del disco, è stata in questo – se mai fosse possibile – una rivelazione, fin dall’intro di Epic: un album che finalmente tira fuori i denti e ricomincia a mordere con i suoi ritmi decisi, molto diversi da brano a brano, a tratti taglienti; ecco ritornare in primo piano il sound d’Oltreoceano, recuperato senza l’inutile pretesa di adattarlo alla melodia e al bel canto italiano. In questo Tiziano Ferro è sempre stato coraggioso, o meglio un innovatore, non ha cercato di mettere a tutti i costi lo spirito italiano dove non poteva starci, e si è adattato lui (e i suoi produttori, Canova su tutti) all’anima di quei suoni creandosi un ambiente musicale personale.
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In Il mestiere della vita il ragazzo spazia con invidiabile disinvoltura tra r’n’b, soul, hip hop e pop, fino alle lande dell’elettronica e, come in passato ha dimostrato di saper fare, ci unisce l’immensa componente umana dei testi, che ti fa venire il brividino per quelle due o tre parole messe in fila nel punto giusto; Tiziano la vita la sa guardare in faccia e sa raccontarla con trasparenza e sensibilità pura, e quando non è lui a scrivere i testi, sa scegliersi con acume gli autori giusti (vedi, per esempio, alla voce Emanuele Dabbono, che non a caso Tiziano ha legato a sé con contratto in esclusiva).
Questo suo sesto capitolo discografico è quindi in un certo senso un ritorno alle origini, a quelle atmosfere internazionali che ce lo avevano fatto conoscere giovanissimo, ma è anche un disco che sa stupire, soprattutto se si ascolta il duetto con Carmen Consoli in Il conforto, forse il brano più atipico in cui la cantantessa si sia cimentata. O, ancora, è un disco che fa strabuzzare gli occhi quando si scopre che dentro ci è finito anche My Steelo, in duetto con Tormento: chi non è proprio teenager forse ricorderà che costui è stato una delle due colonne portanti dei Sottotono, uno dei primi progetti di area rap italiani tra anni ’90 e primi ’00, e forse si ricorderà anche che prima di esordire con la sua musica il buon Tiziano era stato ingaggiato come corista proprio in un tour dei Sottotono. Scambio di favori? Boh. A me piace più vederlo come un ritorno alle origini.

Melodia, tanta melodia quindi, e soprattutto piena libertà data ai ritmi, declinati sotto una gran varietà di luci, e una presenza nei giusti termini di momenti “sentimentaloni”.
Assurto ormai a tutti gli effetti al rango di “grandissimo” del nostro patrimonio musicale, con questo disco Tiziano fa vedere come si possa fare un album di electro-r’n’b che oltre a far muovere i piedi riesce anche a spiegare come si maneggia questo complicato arnese chiamato vita. O almeno ne offre un lucido punto di vista.

BITS-RECE: Melanie Martinez, Cry Baby. Zucchero filato amaro

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È bello vedere che almeno gli tanto anche il mondo del tanto vituperato mainstream riesce a offrire qualcosa che, nell’ambito del pop al femminile, non abbia proprio lo stesso livello glicemico della media.
Prendere per esempio il caso di Melanie Martinez. Classe 1995, originaria di Porto Rico, nel 2012 ha partecipato all’edizione americana di The Voice, ritrovandosi sotto la protezione di Adam Levine. Una volta fuori, andando contro ciò che la più lineare logica di mercato avrebbe previsto, si è presa un bel po’ di tempo per lavorare al suo primo progetto discografico, l’EP Dollhouse, che infatti è stato pubblicato solo nel 2014. Già in quelle prime quattro tracce, la ragazza mostrava gli elementi che avrebbero poi caratterizzato il suo primo vero album, vale a dire un concept incentrato sullo stridente contrasto tra la smagliante apparenza e le crepe della realtà nella vita di una qualsiasi famiglia benpensante, il tutto immerso in un’atmosfera quasi favolistica pullulata di bambole e ninnoli.
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Un tema nuovamente è più ampiamente affrontato in Cry Baby, l’album di debutto. La storia che Melanie vuole raccontare è quella di una bambina – chiamata proprio come l’album – che non riesce a trovare il suo posto nella realtà che le sta intorno, gli amichetti di scuola non la comprendono e non la accettano, lei è la diversa, l’esclusa. Lei è un freak. Un racconto portato avanti con un pop in cui non si fanno mancare influenze hip hop e di un certo cantautorato, ma che soprattutto procede sotto luci dai colori non sempre rassicuranti. Il rosa confetto si muta in viola, l’azzurro diventa petrolio. E i sorrisi si incupiscono.
La storia della protagonista passa anche attraverso problemi famigliari e delusioni di cuore. Una favole a tinte noir, priva della candida innocenza che caratterizza di solite le piccole eroine. Cry Baby viene esclusa e soffre, ma si costruisce il lieto fine nel suo colorato mondo di bambole, ritrovando la sicurezza solo in se stessa.
Incarnando perfettamente anche nell’aspetto il personaggio da lei creato, Melanie Martinez ci si presenta come la ragazzina triste del pop, quella che dallo stile musicale più zuccheroso che ci sia sa trarre ombre.
È non è certo un caso che scorrendo le tracce dell’album vi siano momenti in cui torna spaventosamente alla mente Lana Del Rey, la più triste delle popstar, quella che usava il pop per ricordarci che siamo tutti destinati a morire.
Melanie Martinez non arriva a tanto, ma ci vedere che anche il pop sa piangere, e quando lo fa potrebbe persino essere bellissimo da ascoltare.

BITS-RECE: Pentatonix, A Pentatonix Christmas. Un (altro) Natale a cinque voci

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Vi faccio una confidenza: non sono particolarmente fan degli album natalizi. Ne ho ascoltato un po’ nel corso del tempo e la sensazione è quasi sempre stata quella di trovarmi davanti alla stessa zuppa riscaldata ogni anno e “ricondita” con salsine diverse. Ma sempre di quella zuppa si trattava: pop, r’n’b, swing, jazz, rock, new age, mettetele come volete, ma di risentire le medesime 10/15 canzoni riproposte da chiunque, anche basta!
Salvo solo Mariah, l’unica, dopo Bing Crosby, capace di trasformare un inedito – All I Want For Christmas Is You – in un classico, che tra l’altro mezzo mondo ha già coverizzato.
E salvo anche la nuova proposta natalizia dei Pentatonix, A Pentatonix Christmas, il secondo album dedicato alle feste della più famosa band vocale in circolazione negli ultimi anni. Già il fatto di avere dei classici natalizi rivisitati a cappella è un buon motivo per dargli un ascolto, ma i motivi diventano due se i ragazzi vanno a ripescare brani non così scontati.
Oddio, nel loro primo “natalalbum” avevano già pagato il dazio alle varie Santa Claus Is Coming To Town e Silent Night, ma anche in quel caso avevano avuto l’accortezza di proporre qualcosa che non fosse proprio prevedibilissimo.
Con il secondo album di strenne, accanto a O Come, All Ye Faithful e White Christmas, è la volta di I’ll Be Home For Christmas, Coventry Carol e Coldest Winter (firmata Kanye Western). In più, ci hanno infilato due pezzi originali, The Christams Sing-Along e Good To Be Bad e per il lancio hanno pensato a una cover di Hallelujah di Cohen.
Scelta abusata quest’ultima, già, ma gli è venuta così bene……..

BITS-RECE: Thegiornalisti, Completamente Sold Out. Lacrime di pop

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Il disco dell’abbandono.
Si potrebbe, forse un po’ bruscamente, sintetizzare così Completamente Sold Out, ultimo lavoro dei Thegiornalisti.

Un disco sull’abbandono perché è un po’ questo il tema che lega le sue tracce. Un abbandono raccontato dalla penna di Tommaso Paradiso senza cercare troppe iperboli e fraseggi metafisici, ma descritto con parole dirette e limpidissime, e soprattutto senza cercare di nascondersi dietro a complesse strutture musicali simil-intellettuali, ma restando fedele all’anima della band, che fondamentalmente è pop. Sì pop, proprio questa parolina che sembra fare così paura a troppa gente, ma che i Thegiornalisti hanno sempre saputo declinare nel più leggero dei modi. Un pop 2.0 se vogliamo, figlio di una lunga tradizione tutta italiana, ricoperto di piccoli diamanti elettronici.
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È come se tutto il dolore, le delusioni, le frustrazioni e la rabbia per gli amori naufragati siano stati assimilati, inghiottiti e poi sputati fuori e trasformati in una nuvola di pulviscolo dorato e scintillante.
Per quanto duri e sofferti, i brani di Completamente Sold Out sono infatti leggerissimi, come lo può essere un vento di un mattino di maggio o un tramonto osservato sulla via del ritorno: tutto così “normale”, eppure così meravigliosamente stupendo.

Non ha usato mezze misure Paradiso nel mettere in musica i suoi travagli, ci ha messo tutto il suo essere stato innamorato, ha messo a nudo il suo cuore deluso e martoriato, ce lo mostra ancora sanguinante, ha versato dentro a queste canzoni tutte le lacrime di cui può essere capace un uomo, senza paura, senza domande, senza limiti, proprio come si dovrebbe fare quando si ama. I suoni hanno fatto il resto.
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I brani di Completamente Sold Out hanno il gusto di lenzuola appena abbandonate o di un mozzicone di sigaretta dimenticato, ricordo in una serata memorabile, e graffiano le pelle con il sale della delusione che, bene o male, tutti conosciamo.
Le chiama(va)no canzonette…

BITS-RECE: Ligabue, Made In Italy. C'era una volta Riko…

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Si fa presto a dire Ligabue. Dopo più di 25 anni di canzoni, uno pensa di conoscerlo, almeno per un po’, per il suo modo di usare la voce, la scrittura, la stesura degli accordi. E lui invece ti spiazza pubblicando un disco al di fuori degli schemi, quantomeno i suoi, e lo intitola semplicemente Made In Italy. Roba che prima di ascoltarlo, uno si immaginava un album che raccontava l’Italia nelle sue vette e i suoi abissi, ma pur sempre nello stile “del Liga”. Invece…
Invece Ligabue è arrabbiato, forse come non lo era mai stato prima, neanche con Mondovisione, dove pure una certa rabbia veniva fuori. La sua è però una rabbia mista alla delusione per un paese “che fa finta di cambiare e intanto resta a guardare”, come canta in La vita facile, il pezzo che apre il disco. E poi c’è comunque l’amore per questa terra.

Una foschia di sensazioni che Luciano ha riversato in quello che, per sua stessa dichiarazione, si può considerare un concept album, il primo della sua carriera.
Il collante è proprio quello del racconto delle piccolezze e dei drammi italiani, non però dal punto di vista del cantautore Ligabue, ma di Riko, una sorta di suo alter ego, un uomo pressato dalla vita, quello che lui sarebbe diventato se la sua sorte non gli avesse riservato la vita che ha avuto. Quello arrabbiato che racconta è quindi idealmente questo Riko, è lui a prendersela con la superficialità dilagante, i politici che promettono “più figa e meno tasse”, ed è ancora lui quello che al venerdì intima agli altri di non rompergli i coglioni.
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E proprio in questo gioco di specchi viene il bello. Perché in Made In Italy, del Ligabue che eravamo abituati a sentire c’è poco. Non proprio nulla, ma molto, molto meno rispetto al solito. Già G come giungla avrebbe dovuto darci qualche sentore, perché un pezzo con quei suoni il Liga non lo aveva mai fatto.

Ci sono un po’ di suoni muscolari, potenti, molto belli tra l’altro, che avevano riempito la scena con Mondovisione, e ci sono alcuni pezzi classici “alla Ligabue”, come appunto La vita facile, Vittime e carnefici e anche il pezzo che dà il titolo all’album, ma in mezzo ci sono riferimenti molteplici, come The Who e il loro Quadrophenia. Ma non ci sono pezzi d’amore e mancano le rapide pennellate di parole con cui Ligabue era solito descrivere scene di realtà.
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La storia di Riko passa attraverso un matrimonio comatoso, un linguaggio duro come mai prima, la frustrazione per la politica e il mondo del lavoro sempre più precario, e poi una brutta avventura con un poliziotto che gli procura qualche punto in testa e qualche minuto di celebrità mediatica, fino al lieto fine di Un’altra realtà, questo sì in perfetto stile Ligabue: “non ho dormito / ma ho visto l’alba / ecco che spunta / un’altra realtà”.
Non so dire se tutta questa impalcatura del concept e di Riko mi ha davvero convinto, forse lo spaesamento è troppo grande e forse Made In Italy non è il lavoro di presa più immediata di Luciano Ligabue, ma suona piuttosto come un disco di passaggio.
Certo è che quando Ligabue “fa Ligabue” la stoffa del fuoriclasse torna fuori.

BITS-RECE: Enzo Avitabile, Lotto infinito. Respiro mediterraneo

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Per un fatto di puro gusto personale, ho spesso evitato la musica napoletana. Anzi, ho spesso evitato la musica dialettale in generale, pur consapevole dell’immenso valore culturale che racchiude. Pura questione di gusto personale, mettiamola così.
Poi è accaduto che mi sono imbattuto in Lotto infinito, ultimo lavoro di Enzo Avitabile, e i miei pregiudizi hanno dovuto fare di corsa un salto indietro.
Perché Avitabile non fa semplicemente musica dialettale, fa qualcosa che va ben oltre, pur partendo da Napoli e dalle sue suggestioni, prima fra tutte quella della lingua.
E in effetti quello che c’è dentro a Lotto infinito è qualcosa che si immerge nel cuore di Napoli, ma poi prende il largo, fino a lambire le coste dell’Africa e delle porte dell’Oriente (basterebbe anche solo guardare le architettura disegnate in copertina o ascoltare i suoni dell’al ghaita, dello ngoni e del setar).
L’atmosfera che esce da questo disco è magica, come se tutto restasse sospeso, incantato, come se il tempo rallentasse per qualche minuto il suo corso, cristallizzato in una musica che apre il suo ampio mantello, e passando sopra il Mediterraneo si impregna con la sabbia e la salsedine dei suoi fondali, trascinando con sé suggestioni, odori e colori senza confini.
Avitabile racconta Napoli senza infilare nei testi nemmeno un filo di quella retorica che di solito si riversa a barili quando si parla della città: i suoi ritratti presentano Napoli con le sue ferite sanguinanti e le sue cicatrici, le periferie affidate alla protezione di San Ghetto, la Napoli deturpata e dolorosa, come certe statue di Madonne infilzate, delle discariche e dei fuochi. Ma è anche la Napoli carica di vita e di forza per stare in piedi, che si fa coraggio da sola.
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In Lotto infinito però non c’è solo la capitale partenopea, ma un po’ tutta Europa e un po’ di più, con le storie tragiche dei migranti nel Mediterraneo.
Un disco che profuma di umanità e solidarietà fraterna.
C’è poi il discorso degli ospiti, che sono tantissimi e di grande prestigio, da Giorgia, Francesco De Gregori, Mannarino, Renato Zero (alle prese con il napoletano in Bianca, un pezzo dedicato alla memoria di Bianca D’Aponte), Caparezza, Daby Touré, che porta la lingua africana in Comm’ ‘a ‘na, Hindi Zahra, Lello Arena a molti altri: un elemento che sicuramente regala lustro al progetto, ma che in questo caso è solo un accessorio di un progetto già da sé meraviglioso.

BITS-RECE: Maurizio Chi, Due. L’amore è un numero

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Lo ha intitolato Due, non però perché questo sia il suo secondo album.

Dopo alcuni singoli pubblicati negli ultimi due anni, per Maurizio Chi questo è infatti il vero debutto discografico.

Quel “due” ha un significato molto più profondo: due è infatti il numero della coppia, il numero minimo della condivisione di una vita.
Una vita di una coppia formata da un lui e un altro lui. Maurizio hai infatti costruito la sua prima opera discografica attorno alla sua diretta esperienza, arrivando a compiere un’operazione che pochissimi prima di lui avevano sperimentato. Non una singola canzone sull’amore omosessuale, ma un intero album.
Il punto è che questo giovane artista è stato in grado di andare anche oltre: fate una rapida panoramica di quanti, soprattutto negli ultimi anni, hanno voluto mettere in musica una storia omosessuali. Tanti, tantissimi. E, siamo sinceri, in quanti di questi inni alla libertà e alla “tolleranza” non si annida almeno un filo di retorica e compatimento?

Non però in queste dieci canzoni. In Due non si trova niente di retorico, nessun buonismo, nessuna pretesa di “accettazione” o rompere qualche tabù. Con uno sguardo di lucida sensibilità, Maurizio Chi racconta prima di tutto la vita di una coppia, mettendoci dentro un colorato bouquet di dettagli quotidiani che vanno dai dubbi e le insicurezze (Fuggiamo l’amore), ai momenti di intimità, fino a dichiarazioni d’amore di rara poesia.
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La traccia di apertura, che dà il titolo all’album, è una nuda e sincera ammissione di paura di annullarsi totalmente per l’altro (“Dimmi se esisto anche io o siamo sempre in due”), mentre Dopo mille favole è una caustica stoccata agli amanti del passato, quasi uno stornello di ironia salatissima (“Chi legge è coglione”).
Ma c’è spazio anche il dialetto siciliano di A comu je gghiè con le sue limpide note mediterranee.
I diamanti di Due arrivano comunque sul finale, prima con Malintenti, primo singolo del progetto, una delicatissima ode all’amato, tessuta con la sensibilità di un’anima che sa muoversi in punta di piedi. Una sorta di moderna romanza. E poi Occhi al mare, felice metafora sulle tempeste che ogni esperienza di vita insieme può incontrare durante il viaggio.

Due è un esempio perfetto di come il linguaggio dell’amore sia davvero universale e non conosca limiti o barriere di sesso, genere, distanza o altre impalcature culturali e mentali.
Maurizio non si nasconde dietro a un detto-non-detto: lui dice tutto, lasciando al solo pronome maschile presente nei testi il compito di lasciar capire, senza urlare.
Per il resto, questo è un disco che parla di due vite che si sono intrecciate e procedono accanto ogni singolo giorno, con tutte le loro imperfezioni.

Prima che essere gay, etero o bisex o qualsiasi altro cosa, noi siamo persone, ognuna con la propria identità. Anche se tropo spesso c’è ne dimentichiamo.

PS: Maurizio Chi ha vinto l’edizione 2016 del concorso Genova x Voi, una vittoria che gli dà la possibilità di entrare nella grande famiglia Universal in qualità di autore. Fossi in voi, lo terrei d’occhio… 

BITS-RECE: Rebecca Ferguson, Superwoman. Scintillio di soul

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Già arrivata al quarto album, Rebecca Ferguson si dimostra una gran dama del soul dei giorni nostri. La ragazza che solo cinque anni fa si è messa in luce a X Factor UK, è oggi un’artista in piena corsa e in piena autoaffermazione.La sua ultima fatica si intitola Superwoman ed è – come si può ben intuire – un inno alla forza e alla rinascita, prima di tutti sue, in secondo luogo di tutte le donne, infine di ognuno di noi.

Un album di grande carica e un concentrato di scintillio soul, che lo pervade dalla prima all’ultima traccia. La signora ci sa fare alla grande, e con la sua voce vagamente felpata dimostra di saper regalare meraviglie: d’altronde, non dimentichiamo che solo l’anno scorso la Ferguson si è cimentata in un coraggioso progetto di cover di Billie Holiday, uno dei suoi punti di riferimento artistico, indi per cui è facile capire quanto lo spirito del soul o del jazz trovino in lei salde radici nonostante la giovanissima età.

A cominciare dal singolo Bones, cover di Ginny Blackmore, per poi passare a Mistress, Superwoman, Stars, Don’t Want You Back, Withou A Woman si assiste a lucenti esplosioni di musica, tripudi di declinazioni tra pop e soul, inni di battaglia di un’anima che è caduta, si è rialzata e vuole gridare forte la sua vittoria.

Un album di altissimi voli.