BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Che Natale sia un momento per battere cassa è una delle più elementari ovvietà del mercato, anche quello discografico. Tra strenne, cofanetti, riedizioni e album in tema, ogni anno veniamo travolti da una vera e propria ondata, spesso di prodotti di discutibile interesse.
Poi per fortuna ogni tanto qualcosa che fa drizzare le antenne arriva.
Quest’anno uno di quei casi è Kaskade Christmas, il progetto natalizio di Kaskade, DJ e producer americano, uno dei maghetti della house degli ultimi anni.
Il suo è un Natale non convenzionale, fatto di classiconi rimaneggiati e inediti farciti di beat, ma senza l’effetto tamarraggine.
Circondato da uno squadrone di amici (Ilsey e Jane XØ tra gli altri), il buon Kaskade riprende evergreen Silent Night, Holy Night e Santa Baby e si diverte a giocare con i ritmi, li stira, li allunga, li accorcia, li veste di beat e si prende la responsabilità anche di qualche svisata melodica, senza rinunciare però a quell’aura speciale che ogni brano di Natale deve avere per statuto.
E anche con gli inediti la formula funziona benissimo.
In Cold December e Winter Wonderland ci mette pure la voce.
Se a Natale capitate sul dancefloor, potreste incontrarci Kaskade….
Unconventional Christmas.
BITS-RECE: Marilyn Manson, Heaven Upside Down. La musica salverà il Reverendo?
BITS-RECE: Marilyn Manson, “Heaven Upside Down”. La musica salverà il Reverendo?
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
C’è stato un tempo in cui il nome di Marilyn Manson metteva paura solo a pronunciarlo, perché dietro c’era un artista considerato l’incarnazione musicale del demonio, il più maledetto tra la star maledette, l’Anticristo da esorcizzare, la causa del male sociale che colpiva la gioventù d’America e non solo (praticamente in tutte le stragi avvenute in qualche campus universitario o college, si scopriva che tra gli ascolti abituali dei pazzi responsabili c’era Manson, soprattutto Manson).
Erano gli anni ’90, il periodo in cui la stella nera del personaggio creato da Brian Warner era appena sorta a imbrattare di pece la coscienza dell’America bigotta, puritana e anche un po’ ipocrita. Manson metteva paura – oltre che per un’immagine decisamente poco rassicurante – perché arrivava a scuotere i sogni dorati di un popolo, urlava in faccia ai benpensanti, e nel farlo usava l’arma sempre affilatissima della provocazione, giocando astutamente con la religione e il sesso, in una collisione perfetta tra i due volti complementari dell’America, Marilyn Monroe e Charles Manson. C’era chi capiva il senso del messaggio e della sua maschera, e c’era chi ci cascava in pieno.
Poi gli anni sono passati e dopo i fasti funesti della trilogia di Antichrist Superstar, Mechanical Animals e Holy Wood e The Golden Age Of Grotesque anche la macchina diabolica di Manson ha iniziato a mostrare le prime falle, avvitandosi su se stessa e riducendosi piano piano a un sempre più patetico baraccone di croci propinate in ogni salsa, mascheroni di cerone, litri di mascara nero e niente più. Sì, qualche episodio degno di memoria c’è stato, ma sembrava frutto di fortuna.
Manson era diventato l’ombra di se stesso, fagocitato da un personaggio da cui non riusciva e non poteva più uscire: quel che c’era da dire era stato detto, restava spazio solo per urlare qualche maledizione, sperando che qualcuno si spaventasse ancora.
Manson aveva perso l’elemento fondamentale per far funzionare qualsiasi progetto artistico, soprattutto se provocatorio come il suo: l’ispirazione.
Poi, dopo qualche disco un po’ così, nel 2015 è arrivato The Pale Emperor, che ha riacceso le speranze di ritrovare un artista che si pensava ormai destinato al tramonto.
A quell’album segue ora Heaven Upside Down, e un fatto pare certo: per come stanno le cose oggi, a salvare la carriera di Manson non saranno certo i contenuti delle sue canzoni. Quelli sono fermi a una decina di anni fa, come la sua immagine tenebrosa (e inevitabilmente modificata dal passare del tempo). Se qualcosa può ancora tenerlo artisticamente in piedi e renderlo minimamente appetibile è la musica, i ritorni al passato che Manson è riuscito a inserire nel nuovo lavoro. Sarà anche abbastanza terribile e desolante, ma è così.
Ascoltate l’ultimo album e provate a farvi turbare dalle parole che lo riempiono, provate a non sbuffare davanti all’ennesimo pseudo-inno diabolico, davanti all’ennesimo abuso dei vari Jesus, God, Devil e repertorio vario. Le provocazioni corrono a vuoto, le idee succulente paiono defunte. La Bibbia nera di Manson si è svuotata di salmodie profetiche.
Invece, ciò che potrebbe trattenervi dallo “skippare” le tracce sono le soluzioni musicali, tra hard rock, industrial, una certa dose di elettronica arroventata e distorta come in Say10, Kill4Me o la ballatona dark Blood Honey.
C’è stato un tempo in cui Marilyn Manson metteva paura. Oggi Marilyn Manson assomiglia un po’ di più al suo fantasma e fa ancora musica, abbastanza bene. Le provocazioni e i colpi di genio però erano un’altra cosa.
BITS-RECE: [lessness], The Night Has Gone To War EP. Dolce, tremenda notte
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Vi è mai capitato di trovarvi a camminare soli, di notte? No, non andate subito a pensare a lupi mannari, fantasmi o banditi: pensate piuttosto alla pace che potreste – o forse avete trovato – immersi nel silenzio e nella luce lunare. Solo voi e la luna, forse minacciosa, forse indifferente, forse confidente immobile dei vostri pensieri, che di notte di solito si spogliano di tutte le menzogne e diventano nudi e sinceri.
Ecco, il nuovo progetto di [lessness], The Night Has Gone To War, alla notte deve tutto, perché di notte è stato concepito. Dietro c’è Luigi Segnana, ex membro della Casa del mirto, che per il nuovo progetto ha preso in prestito uno pseudonimo dall’opera di Beckett, scegliendo un termine che tradotto in italiano suonerebbe qualcosa tipo “senza”, a indicare un senso di vuoto e di smarrimento.
Un disco vestito di notte, nato in sette notti dell’inverno trentino e musicalmente figlio di quel synthpop fluido e affascinante che tanta fortuna ha avuto negli anni ’80.
C’è tanta oscurità in queste sette tracce, tanto tormento, tanta tempesta emotiva, perché per [lessness] la notte è proprio questo, il luogo dell’inquieto, il fondo dell’abisso dell’animo, il punto in cui ogni istinto vitale si ferma. Ma nello stesso tempo, è anche l’unico passaggio obbligato per tornare a vedere l’alba.
Se scrivere è per l’artista un atto di catarsi, allora lo è anche affrontare il buio e il freddo di una notte tremenda.
Quella di [lessness] è una notte che parte per la guerra, ma per quanto la battaglia possa essere lunga e dura la luce tornerà, e anche la notte avrà un volto più amico.
La dichiarazione di speranza arriva subito all’inizio, con Cwtch, pezzo se non proprio rassicurante almeno più luminoso del resto dell’EP: il testo recita “There’s A Fire That Burns In The Deepest Night”.
E non sembra un caso che proprio questo brano sia stato piazzato in apertura, quasi a segnare un promemoria prima di ripiombare in ogni nuovo circolo di oscurità: notti tremende che si fanno annunciare, avvolgono ogni cosa con il loro manto nerissimo, ma devono poi arrendersi a una nuova, immancabile alba.
Mentre la luna resta lassù, ascoltatrice silenziosa, “la notte curerà il nostro dolore”.
BITS-RECE: Miley Cyrus, Younger Now. Polvere di stelle… e di country
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Dai martelli e dalle palle da demolizione ai completini in stile Elvis tempestati di brillocchi. Estremizzando, è stata più o meno questa la svolta compiuta da Miley Cyrus nell’arco di questi ultimi quattro anni: a dir la verità, in mezzo c’è stato anche un passaggio vagamente psichedelico, ma è stato poco più di una parentesi di cui in pochi si ricordano, perché l’ultima immagine che avevamo in testa dell’ex Hannah Montana era una ragazza in biancheria seduta su una wrecking ball intenta a leccare un martello piangendo sulla fine di una storia d’amore.
Era il 2013 e quel video ha fatto abbastanza parlare da consacrare finalmente Miley tra le schiere delle lolite del pop, strappandola definitivamente a ogni residuo Disney.
Adesso però succede che Miley spiazza tutti: tolte le provocazioni e indossato qualche vestito in più, la ragazza del Tennesse se ne esce con un album, Younger Now, che sembra nato dai sassi della terra di Nashville, tanto odora di folk e di country. Che la direzione fosse questa lo si era vagamente capito già dalla primavera, con l’arrivo di Malibu e poi soprattutto con Younger Now, il pezzo che dà il titolo all’album, e la conferma è arrivata dall’ascolto di tutto il resto dell’album. Stop al pop facilone e iper-elettro, dunque, e spazio a una nuova era fatta di suoni più scarni, che partono dal country, per sfiorare il rock’n’roll.
A dare la sua benedizione c’è pure Dolly Parton, madrina di Miley e leggendaria istituzione del country, in un duetto affiatato sulle note solari di Rainbowland. Ma in realtà è tutto il disco ad avere un profilo convincente, perché Miley il country lo sa fare, su questo non ci sono dubbi, e la scelta di compiere una sterzata del genere non è meno coraggiosa di farsi riprendere mezza nuda a leccare un martello.
In Younger Now sembra perfettamente a suo agio, anche senza il bisogno delle maschere degli ammiccamenti o del fondoschiena shackerato con fare birbantello. Basterebbe segnalare pezzi come Inspired, She’s Not Him, e soprattutto la titletrack, una piccola gemma di freschissima gioia sonora, un manifesto di giovinezza eterna, un inno al cambiamento come possibilità.
Il pop del nuovo album è figlio dell’America delle leggende dei decenni passati, delle strade arroventate e polverose, della malinconia sognante e amorosa che da sempre marchia l’anima del country, dei suoni ruvidini. Allontanatasi dai riflettori glitterati e peccaminosi, la ragazza si è presa uno spazio tutto suo e se lo è arredato su misura, probabilmente conscia dello stridore che questi nuovi suoni avrebbero prodotto con l’idea che di lei ci eravamo fatti un po’ tutti. E purtroppo gli esiti delle classifiche sembrano confermare una mancata sintonia con il pubblico, a rimarcare il fatto che anche quando fai un bel disco può sempre andarti così così.
Resta comunque il fatto che Younger Now si piazza tra le cose migliori e più genuine che Miley Cyrus ci abbia regalato da quando è diventata una super star. E va bene così.
BITS-RECE: Shania Twain,Now.
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
L’ultima volta che Shania Twain ha pubblicato un album di inediti era il 2002, cioè 15 anni fa, e il disco era Up! Shania Twain abitava sulle vette del mondo discografico, ben al di là dei confini del country, affiancata dal marito e super-produttore Robert “Mutt” Lange.
Da quel periodo, di tempo e di cose ne sono passati e cambiati molti: il divorzio, i problemi di disfonia che hanno rischiato di lasciarla senza voce, e poi l’evoluzione nel mondo discografico, con l’arrivo di una nuova generazione d country – genere aureo americano – guidata tra gli altri da Carrie Underwood, Lady Antebellum, e ovviamente Taylor Swift (che però il country sembra averlo messo da parte).
E in questi anni l’assenza di Shania Twain si è sentita: potevo anche immaginarmela felice nella sua casa sull’oceano a vivere di rendita con il successo mastodontico dei suoi dischi precedenti concedendosi solo i concerti a Las Vegas, ma speravo di vederla, e soprattutto sentirla, tornare con canzoni nuove.
E finalmente è successo, con Now.
15 anni non si nascondono facilmente sotto il tappeto, non si buttano via con una manciata di canzoni, e nei nuovi brani la differenza si sente, come d’altronde è giusto che sia.
Shania del country è stata una fuoriclasse, e oggi lo è ancora, perché ci si muove dentro con una dimestichezza da padrona e signora: oggi però la sua voce si è fatta più scura, quasi da soul (al punto che in certi momenti viene il dubbio che a cantare sia Anastacia), e il suo country ha perso un po’ della leggerezza del passato per farsi più mordace, muscolare e ricco di contaminazioni che arrivano dal pop (ovviamente), dal rock o dal reggae, come nella gaudente apertura affidata a Swingin’ With My Eyes Closed o nella nerboruta Roll Me On The River, o ancora negli inserti blues di We Got Something The Don’t.
Dappertutto comunque, traspira un calore rassicurante che il country ha in sé per sua natura e che Shania trasmette magnificamente.
E poi ci sono le ballatone emozionali, come Because Of You e Soldier, episodi immancabili quando si parla di country.
In definitiva, Now suona come il disco di un ritorno naturale, un nuovo capitolo del gloriosissimo percorso di un’artista che non ha perso la strada e oggi sa benissimo dove si trova.
E se guardando la copertina del disco l’occhio vi cadesse se quei guanti maculati che sembrano voler riportare agli anni ’90 (si legga alla voce That Don’t Impress Me Much), è facile capire che si tratta solo di un dettaglio, un filo sottile con il passato, perché la Shania di oggi è ben piantata con i piedi nel presente.
D’altronde, non è certo un caso che le prime parole dell’album siano proprio “Summer Is Here”.
Ecco, ci sono voluti 15 anni, ma Shania adesso c’è.
BITS-RECE: Carla Bruni, French Touch. Una prova di coraggio
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
La carriera di cantante di Carla Bruni è iniziata tra qualche stupore di popolo nel 2002 con Quelqu’un M’a Dit, album che in Italia sarebbe arrivato l’anno seguente e che all’epoca fece incetta di giudizi clamorosi da parte di critica e pubblico.
Sorprendentemente, si scoprì che l’ex supermodel aveva fatto un disco che non aveva l’aria di un pretesto per battere cassa, ma offriva spunti interessanti nel suo allure cantautorale sfacciatamente naïf e francese.
Al primo album ne sono seguiti negli anni altri tre, tutti accolti con sempre meno entusiasmo, al punto che si dava ormai per certo che la signora Bruni, ora in Sarkozy, avesse appeso chitarra e microfono al chiodo.
E invece non solo torna adesso con il quinto disco in studio, ma per far capire che per lei la musica è una faccenda seria ha deciso di coinvolgere nel progetto un gigante come David Foster (se non sapete chi è, googlatelo e capirete).
Il titolo dell’album è alquanto emblematico, French Touch: in discografia, l’espressione si usa convenzionalmente per indicare una branca della house molto amata dagli artisti d’oltralpe, che ne hanno fatto un vero e proprio sottogenere.
Qui invece, il tocco francese in questione rimanda a un’atmosfera minimalista, intimista e molto ben pettinata, che è stata un po’ la chiave di lettura di tutti i lavori dell’ex première dame. Bene, sotto lo sguardo di Foster, la Bruni il suo french touch l’ha messo addosso a 11 cover (a dispetto del titolo del disco, tutte in inglese) che spaziano tra pop, jazz, country, synthpop e – udite udite – rock. Ora, non siamo davanti a un album rivoluzionario, però questo disco ha il grande potere di stupire, proprio nei suoi toni sommessi, composti e curatissimi.
L’anticipazione di Enjoy The Silence, capovolta e riletta splendidamente, ne aveva dato un ottimo assaggiato, così come la reinterpretazione di Miss You dei Rolling Stones, e adesso ascoltando l’intero album si resta di stucco di fronte a The Winner Takes It All degli ABBA, Perfect Day di Lou Reed, e soprattutto Highway To Hell, magicamente trasformata in una sorta di standard ai confini del blues.
Nella tracklist fa poi capolino Crazy, eseguita addirittura insieme al suo interprete originale, Willie Nelson, autentico monumento del country statunitense.
A lungo andare, l’umore dell’album tende a girare su se stesso, e dal punto di vista vocale la Bruni non si allontana mai troppo dai suoi sussurri increspati, però non le si può non riconoscere un certo coraggio nell’essersi messa a confronto di pietre miliari così distanti fra loro e così distanti dall’immagine che siamo abituati ad avere di lei.
Se mai qualcuno ne dubitasse ancora, questo album è una prova di un amore sincero verso la musica, soprattutto per quella di alcuni decenni fa, un disco fatto per essere realmente ascoltato, cosa che non sempre capita con chi arriva alla musica solo in un secondo tempo della carriera.
Se siete amanti della chanson apprezzerete probabilmente anche questo lavoro, così come potrete avere l’occasione di scoprire qualche sfumatura inedita della sua interprete e dei suoi gusti. Se invece amate gli AC/DC, potreste davvero non credere alle vostre orecchie.
In ogni caso, un album a cui va concesso il privilegio di almeno un intero ascolto.
BITS-RECE: Chrysta Bell, We Dissolve. Anche gli alieni fanno pop?
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
La prima volta che l’ha vista esibirsi, a David Lynch è apparsa come la più bella aliena che avesse potuto immaginare, tanto che nel 2011 ci ha fatto un album insieme, This Train, in cui affrontavano gli orizzonti dell’electro-blues.
Adesso però Chrysta Bell ha fatto da sola e ha pubblicato il suo primo vero album da solista, We Dissolve.
Ora, io non so esattamente che musica facciano e ascoltino gli alieni lassù tra le galassie, ma posso dire che quella di Chrysta Bell è elegantissima, raffinata, senza essere mai superba. Un pop sognante e affusolato, foderato di velluto dai colori notturni.
Ci sono elementi elettronici, classici, blues, jazz, anche rock, tutti però lasciati scorrere sotto la superficie di melodie sornione e degne di una diva quale la signora pare essere. Non c’è ovviamente il pop facile facile, non ci sono pezzi “radiofonici” (che brutta parola!), ma non siamo neanche nell’universo dell’indie (altra brutta parola…) più prepotente.
A tratti il disco scintilla di chitarre, a tratti si fa rarefatto e più ipnotico, a tratti si scioglie in arrangiamenti orchestrali, mentre la voce della Bell non perde per un attimo la classe austera che probabilmente ha folgorato Lynch.
A dispetto del titolo, il singolo Gravity – piazzato in chiusura – è probabilmente il momento di maggiore slancio e forse il più ricco di echi del passato.
Il pop di lusso non è destinato solo alle élite. Ci voleva un’aliena per un’aliena per farcelo capire?
BITS-RECE: Roberto Cacciapaglia, Atlas. Un oceano di stelle
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Non conosco Roberto Cacciapaglia – personalmente intendo -, ma sono pronto a scommettere che abbia l’animo di un sognatore. Non si spiegherebbe altrimenti come possa un musicista, per quanto ispirato e talentuoso, portare avanti una carriera di oltre un ventennio mantenendo viva quella spinta verso l’alto, quella tensione a rompere i confini tra i generi, a far sconfinare il pianoforte nell’elettronica e nella sperimentazione.
Uno lo può fare una volta, due, ma già al terzo disco l’esperimento ti viene male se non ci credi davvero, e per crederci devi essere sul serio convinto nella forza suggestiva della musica, nella sua capacità do portarti lontano, oltre il tempo e lo spazio.
Ecco, in 22 anni la musica di Cacciapaglia questa forza non l’ha mai persa: ha continuato a volare altissima, libera e soprattutto non ha mai temuto di contaminarsi.
Lo si capisce bene se si fanno scorrere le 28 tracce di Atlas – La riscoperta del mondo, la raccolta che il maestro, dopo aver musicato gli spettacoli dell’Albero della Vita a EXPO 2015, ha da poco pubblicato e nella quale ha riassunto il meglio della sua attività. In aggiunta, due brani inediti (Reverse e Mirabilis) e un omaggio a Bowie con una rivisitazione di Starman.
Un doppio album che è quasi inevitabile ascoltare pensando a un viaggio. Anzi, a una traversata sull’oceano a bordo di un vascello emerso dall’alba dei tempi. Un viaggio notturno tra flutti altissimi, talvolta minacciosi, mentre sopra di noi splende la più bella volta stellata che si sia mai vista.
La musica si fa tempesta, si fa tuono, si fa onda, il pianoforte è la spuma del mare, le percussioni il temporale, e poi ecco gli archi, le costellazioni. Si sovrappongono, si rincorrono, si condono, crescono e descrescono, il cuore si spaventa, si emoziona, si commuove, ma ecco che arriva la quiete e il viaggio riprende.
Sopraggiungono anche alcune sirene, con il loro canto immortale ed etereo, purissimo.
Atlas è un’unione perfetta di sinfonia, sperimentazione e suggestione imaginifica, slegata da ogni dimensione. Brani come Wild Side, Lucid Dream, Mirabilis, Celestia e The Future sono veri e propri sussulti alle corde dell’anima, momenti di bellezza abbagliante e commovente.
Ci vuole coraggio a continuare a sognare, ma chi riesce a farlo stringe tra le mani uno dei doni più preziosi.
#BITS-RECE: Franky Maze,Nght/Flood. Tra il blues e la Bibbia
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
In genere chi si muove nell’ambito gothic/dark tende a ripetere il medesimo standard fatto di testi tristi e decadenti, accompagnati da vestiti sonori oscuri, al punto che spesso la sensazione è quella di trovarsi immersi in un mare di cliché, uno schema portato avanti per inerzia, dove l’unica desolazione che si percepisce è quella creativa.
Poi capita che qualcuno trovi la via per proporre soluzioni nuove, combinazioni di stili inedite o almeno desuete, come questo Night/Flood, primo EP di Franky Maze, al secolo Francesco Mazzi, musicista bolognese che ha trovato un’interessante chiave per combinare il folk di matrice americana e il dark.
Due mondi apparentemente inconciliabili, che trovano nei suoi brani nuove, stimolanti suggestioni notturne.
Per simboleggiare questa unione, Maze ha preso l’ultima parola del primo e dell’ultimo brano – ciascuno rappresentativo di questi due mondi musicali – per formare il titolo, Night/Flood appunto. Un EP di cinque canzoni dense di citazioni bibliche e rimandi al blues delle origini, che guardano ad artisti come Nick Cave.
L’apertura con Dark Was the Night, presenta per esempio le note luminose del mandolino, Great Sleeve rievoca un rituale sciamanico, Wayfaring Stranger è invece un brano tradizionale americano in versione rivisitata.
E per controbilanciare l’apertura luminosa del primo brano, il disco si chiude con Love Is the Flood, canzone dalle atmosfere decisamente dark.
BITS-RECE: The xx, I See You. Tra il metallo e il cristallo
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Si fa presto a parlare di indie rock, rock elettronico, indie electronic. Quando ti trovi davanti a un album come I See You dei The xx non che restare spiazzato è incantato, soprattutto perché questo terzo lavoro prende molta distanza – non solo temporale – dal precedente Coexist, uscito ben cinque anni fa.
Quando sono arrivati, della loro musica si diceva in giro che avesse suoni minimali, e lo si diceva così tanto che loro stessi, per diretta ammissione, hanno finito per crederci portando il concetto quasi all’esasperazione con il secondo album.
Con I See You però il passo cambia un po’, e le ambizioni si fanno sentire.
Dentro al nuovo album ci sono brani con percussioni è basso che fanno tremere la carne e le ossa, come Dangerous, messa in apertura, ci sono interventi brillanti come il singolo Say Something e A Violent Noise, momenti trasognanti come Lips, e poi il nocciolo dell’album, con la terna di Performance, Replica e Brave For You che ti lasciano lì imbambolato ad ascoltarle nel loro incanto su sfondi metallici e decori di cristallo.
Un incanto che dopo le nuove vibrazioni danzerecce di On Hold e I Dare You, si ritrova nella chiusura perfetta, epica e gelida di Test Me.
Non so se è più rock, più indie o più elettronico: di certo, I See You è gran bel disco.