BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Un po’ più di un singolo, molto meno di un album, quasi un EP. Tre inediti. D’altronde, le mani le hanno già messe bonariamente avanti nel titolo: Per un album è ancora presto, che è anche una risposta a chi probabilmente in questi anni chiedeva come mai non avessero ancora pubblicato un disco dopo l’uscita dei primi singoli. Sfruttando i vantaggi della realtà digitale, che permette oggi a un artista – specie se emergente – di muoversi con molta più libertà che in passato, svincolandolo dall’obbligo dell’LP, lemandorle (per chi non lo sapesse, sì, si scrive proprio così, tuttoattaccato) hanno pensato di chiudere l’estate raccogliendo tre nuovi pezzi in un mini EP che prosegue sul percorso già tracciato a partire dal 2016, quando il brano d’esordio Le ragazze è apparso in rete e ha fatto conoscere questo interessante progetto elettropop.
La matrice è sempre quella, ben definita: ritmi danzereccio perfetto per il club e un’attitudine un po’ ironica e un po’ malinconica per raccontare storie ordinarie su melodie elettroniche eredi dei gloriosi anni ’80. Ecco allora Marta, Adesso e Se tu ti prendi, tre canzoni figlie della gioventù dei giorni nostri, quella a ridosso della consapevolezza adulta, in tutta la sua complessità, tra ricerca dell’identità, le contraddizioni, le relazioni sfuggenti, gli incastri difficili.
Per ora ci accontentiamo, ma la voglia di album cresce….
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Il nome di Troye Sivan circola già da alcuni anni sul web e nelle radio, ma è solo negli ultimi tempi che – almeno al di fuori della sua Australia – la sua musica sta raggiungendo un bacino di pubblico significativo. Gli elementi per candidarlo a prossima superstar globale ci sono effettivamente tutti: un’età (23 anni) già abbastanza matura per concedergli credibilità artistica, ma ancora appetibile per l’ambito pubblico “teen” (quello che fa gola a tutti gli uffici marketing), un’immagine efebica e intrigante quanto basta e un elettropop adatto tanto ai canali radiofonici quanto alle piste dei club. Soprattutto però, quello che non sfugge quando si ha a che fare con lui è la sua personalità, definita benissimo nel suo incontro di candore e audacia.
Proprio appena sotto la superficie patinata si capisce che Troye Sivan non è l’ennesima matricola di pop idol intercambiabile con chissà quanti altri esemplari, ma un artista che nella musica mette davvero se stesso: dopo l’esordio con Blue Neighbourhood, il ragazzo cala infatti ora un carico pesante con il secondo album, Bloom. Se dal punto di vista sonoro non siamo di fronte a una rivoluzione, il punto di forza di forza del disco è nei testi, in quei racconti (ma in certi casi sarebbe meglio dire rivelazioni) personali, sfacciati, sensuali che non è così facile ritrovare negli album dei suoi coetanei.
Con il suo synth-pop onirico, la sua elettronica, i suoi ritmi tra downtempo, dance e r’n’b, le sue atmosfere oscure e rarefatte, Bloom è a tutti gli effetti lo spazio di un confessionale privato, l’occasione per svelare segreti, condividere emozioni: Troye non ha mai fatto mistero della sua omosessualità, ma nella titletrack utilizza l’ardita metafora del giardino per arrivare a descrivere la perdita della verginità, oppure sceglie di aprire l’album raccontando in Seventeen una chat erotica con un uomo più adulto, mentre con Animal mostra gli istinti più passionali. E poi c’è la passione quasi carnale di Lucky Strike, ma anche momenti più leggeri, come Dance To This, in duetto con Ariana Grande.
Sotto le sue sembianze immacolate, la nuova voce del pop internazionale svela spregiudicatezza, audacia, erotismo, bisogno di libertà, e lo fa senza scandalo, quasi sottovoce.
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Puttana, prostituta, meretrice, o un’infinità di altri termini, più o meno volgari e gergali, per indicare la stessa figura. Una figura di donna, perché ovviamente in un mondo maschilista, un uomo che si vende ha sempre diritto a un trattamento di maggiore favore. Come ricorda la voce del popolo, il ruolo della grande seduttrice esiste dall’alba dei tempi, e nei secoli è stato etichettato in modo dispregiativo, o con impomatate definizioni politically correct ancora con nomi circondati da aura aulica. Ma se cambia il nome, non cambia certo la sostanza, e la figura della prostituta è sempre lì, pronta a ricordarci quanto fragile sia la natura umana, nonostante i moralismi e la più ferrea volontà. Se a tutti è ben evidente l’associazione della prostituzione con il sesso, il proibito e la passione, meno volentieri ci si ricorda che spesso dietro a quei tacchi vertiginosi e quegli abiti provocanti si nascondono storie di tragedia, sfruttamento, negazione della stessa dignità umana. Un aspetto che non è sfuggito ad Aldo Granese, cantautore irpino che proprio attorno al mondo della prostituzione ha fatto ruotare il suo ultimo lavoro, Sirene. Ecco, la sirena, creatura mitologica, incantatrice e inafferrabile, crudele e meravigliosa, al cui fascino neppure l’astuto Ulisse seppe resistere, ma anzi, scelse di abbandonarsi. Con un’immagine poetica, ma senza censure e buonismi, Granese racconta in 10 tracce un mondo illuminato dalle luci dei lampioni, passionale, osceno, immorale, desiderato, ma anche drammaticamente sfruttato e ignorato. Le sirene di Granese lasciano baci color porpora, danzano un tango fatale, lasciano volontariamente una vita ordinaria per farsi dispensatrici di amore facile, abbracciano il rischio oppure si allacciano a catene da cui non potranno più sfuggire. E in questo scenario, l’uomo non può che essere un disarmato marinaio pronto a cadere nell’incantesimo o uno spietato cacciatore desideroso di mattanza.
“C’è chi l’amore lo fa per noia / Chi se lo sceglie per professione / Bocca di rosa né l’uno né l’altro/ Lei lo faceva per passione”, cantava De Andrè. E poi c’è chi lo fa per disgrazia, per schiavitù, per un destino da cui non si può scappare. E queste sono altre storie, storie di sirene naufragate.
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit. Federica Carta è nata nel 1999, quindi ha 19 anni, quasi la metà di chi sta scrivendo questo pezzo. E dei suoi 19 anni ha la spontaneità e l’entusiasmo strabordante. L’anno scorso indossava ancora la divisa della scuola di Amici, da cui sarebbe uscita con la medaglia di bronzo, e quest’anno – dopo un primo disco e un programma in TV – è già tornata con un nuovo album di inediti, Molto più di un film. Un anno in cui ha potuto dedicare a questo disco l’attenzione e la cura che, stando dentro la scuola, non aveva potuto riservare al primo lavoro. Il risultato è un album che parla con scioltezza il linguaggio del pop, con generosi aiuti elettronici: c’è la potenza tropicaleggiante dei primi due singoli Molto più di un film e Sull’orlo di una crisi d’amore, tranquillamente trasportabili sul dancefloor, così come i beat di Il sole a mezzanotte, ma ci sono scelte anche non così immediate come Due in questa stanza.
Il tempo per crescere, evolversi, forse anche prendere strade diverse ci sarà. Per ora c’è il pop, fatto bene. E non è poco.
La vera grandezza di Mina non sta nella voce o nell’interpretazione, ma nel suo saper sempre volare in alto sopra a tutto, sopra ai giudizi, ai luoghi comuni, alle banalità. È questo a renderla costantemente senza tempo, leggera e geniale. In una parola, unica, nel senso più autentico del termine. Non si diventa Mina, Mina ci si può solo nascere. La sua ennesima incarnazione è Maeba, ennesimo album di una carriera che non ha eguali – almeno in Italia – per gloria e peculiarità: in 60 anni esatti, la signora Mazzini ha toccato praticamente ogni generale musicale conosciuto, ha viaggiato tra le mode e le generazioni, ha rivisitato brani impensabili, ma soprattutto ha saputo azzardare dove chiunque altro non avrebbe mai osato, uscendone sempre intatta. Mai, neanche di fronte sue interpretazioni più discutibili o hai gusti personali, qualcuno ha potuto pensare che la sua carriera fosse finita. E non solo per una voce che è un miracolo, tanto è ancora salda e granitica, quanto perché Mina ha “minato” tutto quello a cui ha messo mano, rendendoselo proprio, fagocitandolo e facendoselo personale, mostrando una personalità infinita e strabordante, troppo ingombrante per essere piazzata da qualche parte. L’immensità di Mina sta nella sua assoluta libertà di agire, sempre. Sì insomma, libertà di “fregarsene” e di fare quello che le va. Nella musica, come nelle immagini, caso forse unico al mondo di artista invisibile, ma allo stesso tempo così attento alla propria immagine: ogni copertina di album – moltissime disegnate dal visionario Mauro Balletti – è un piccolo capolavoro di stupore. Lo era la faccia barbuta di Salomè , la culturista di Rane supreme e ora lo è l’alieno vagamente malinconico di Maeba, forse lo stesso che campeggiava nel 2011 sulla copertina di Piccolino; lo stesso “atterrato” in forma di ologramma con l’astronave Opera durante l’ultimo Festival di Sanremo. Cosa sia poi questa (o questo) Maeba non è dato sapere: un anagramma, un nome, un pianeta? Chissà, forse è ciò che ognuno vuole vederci: sicuramente, è l’ultimo sassolino di un universo artistico fatto di dettagli enigmatici, curiosi, spesso spiritosissimi.
Con Mina la canzone d’autore diventa eterna, l’amore si fa totalizzante, il disincanto quasi inevitabile, perché Mina canta ogni cosa con lo stesso, passionale distacco. Ecco quindi Volevo scriverti da tanto, che forse non rimane nella memoria al primo ascolto, ma già al secondo suona disarmante; ecco la perfida eppure leggera Ti meriti l’inferno; ecco la linea melodica “incantabile” di Il tuo arredamento, che in bocca a Mina diventa un giochino qualsiasi; ecco Last Christmas, che Mina si prende la libertà di snaturare dall’atmosfera natalizia per farne un pezzo jazz (del resto, che c’azzecca un pezzo di Natale a marzo?); ecco il quadro delizioso di A’ minestrina, cantato con Paolo Conte in napoletano maccheronico, dolcissimo; ecco l’arrangiamento quasi elettro-funky di Troppe note; ecco Davide Dileo, ovvero Boosta dei Subsonica, che stende un velo elettronico e irregolare in Un soffio, su cui Mina volteggia come nulla fosse.
Libertà, di essere e di fare. Fin troppo facile richiamare la figura dell’alieno per descrivere la grandezza di un’artista che di certo ha ben poco a che fare con gli standard dei colleghi. Niente in Maeba è davvero rivoluzionario, come quasi mai niente in particolare è rivoluzionario in un lavoro di Mina. Rivoluzionario e stupefacente è quasi sempre il progetto nel suo insieme, le scelte degli autori, dei testi, anche solo dei titoli. Mina non è “avanti”, perché chi è avanti rischia di ritrovarsi solo: Mina è qui con noi, canta per noi, si vuole far capire da tutti, come la più pop delle star. Poi però, vola alta, e si fa eterna. Mina non è avanti, è semplicemente al punto giusto, lo è ogni suo disco, ogni parola, ogni vocalizzo storto che infila volutamente nella più dritta delle melodie quando meno te lo aspetteresti. Mina è al punto giusto quando si prende in giro e quando ti stordisce dall’emozione. Mina era al punto giusto ieri, come lo è oggi. È Mina. Sì, lo so, è banale.
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Gli Editors sono una garanzia.
Passano gli anni, ma la band inglese non sbaglia un colpo e di album in album si conferma una delle realtà più affascinanti del panorama post-punk. Prendete il nuovo disco, Violence, che arriva a tre anni dal precedente In Dream: come sempre nei lavori della band, dentro ci finisce un epico concentrato di atmosfere oscure, tra possenti impalcature di muri sonori, imperiose tessiture di sintetizzatori, con la voce “caliginosa” di Tom Smith a dare un marchio inconfondibile. Dark wave, synth pop, rock alternativo: le soluzioni sono molte, ma tutte efficaci per dar forma a un disco imbrattato di pece, nero come il catrame, a tratti disperato. Rispetto al passato, forse qui il gruppo si concede qualche scappatella in più verso il pop, smussando certi angoli un po’ troppo spigolosi o aprendosi di più alla melodia, ma la natura resta quella: nessuno snaturamento, nessun tradimento, nessuna mancata aspettativa. Anzi,
Frutto di una lavorazione che ha visto venire alla luce almeno tre diverse versioni per ogni brano prima di arrivare alla definitiva, Violence si riempie di slanci titanici di chitarre, compie persino claustrofobiche discese da club, e mette in atto sinistre fascinazione elettroniche: se l’apertura di Cold sembra un episodio particolarmente “in minore” dei Coldplay, Halleluja (So Low) prende spunto dalla visita in un villaggio di migranti per mescolare suoni acustici e chitarre arrabbiatissime, mentre la ballata No Sound But The Wind è l’unico momento di (malinconica) quiete. Tipicamente “alla Editors” è poi Counting Spooks.
Il vero spettacolo del disco è comunque concentrato nella title track, dove l’EDM si incontra con la dark wave: una meraviglia di disperazione e stordimento.
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Come si fa a restare per sempre al sicuro? Come si fa a fidarsi e poi fidarsi di nuovo?
Perdonate la banalità, ma se non fosse già abbastanza evidente dal titolo, è la fiducia il tema centrale dell’ultimo album dei Ministri. La fiducia, uno dei moti d’animo più altruisti e delicati di cui l’uomo sia capace, e il gruppo milanese – arrivato al sesto disco e dopo 12 anni di musica segnati da una costante ascesa – la canta e la suona a modo suo, con 12 tracce di rock piuttosto tirato e pestato (ma anche con qualche momento di pausa): la fiducia chiesta dai trentenni di oggi ai genitori (Fidatevi), così incapaci di inquadrare il nuovo mondo del lavoro e incapaci di comprendere certe scelte, la fiducia cieca da riporre nell’amore (Tienimi che ci perdiamo), la fiducia in un futuro che ci siamo abituati a pensare in grande, ma con prospettive troppo piccole (Due desideri su tre), la fiducia in se stessi, anche quando questo implica porsi in contrasto con ciò che “gli altri” vorrebbero per noi (Le vite degli altri), anche quando facciamo e rifacciamo gli stessi errori (Memoria breve).
Un bisogno di fiducia espresso però mai con una vera e propria, e forse troppo prevedibile, rabbia, quanto piuttosto con uno slancio di libertà e una lucida consapevolezza che in fondo la vita fa il proprio corso: i tempi sono quelli che sono, il futuro tanto luminoso non è, ma siamo qua e in qualche modo ne dobbiamo uscire. Siamo nell’epoca dell’ansia e della solitudine, l’età delle spiritualità fai-da-te, ridotte alle parole, spesso vuote, pur di sperare in qualcosa. La soluzione dei Ministri è in un sano, silenzioso, atto di ribellione: disertare quella battaglia quotidiana, forse non così necessaria, del tutti-contro-tutti. Almeno, aspettare: “guarda il tuo incubo, e digli ciao, ciao, ciao”.
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Concentrare in una manciata di pezzi un delirio sonoro come poche altre volte se ne sono ascoltati: sembra essere stato questo il comandamento seguito dal collettivo Superorganism per dare forma all’esordio discografico. Una missione ampiamente compiuta, a giudicare dal risultato. Il progetto del mega-gruppo è nato nel 2017 e vede coinvolti otto musicisti / amici / coinquilini con base a Londra in una sorta di studio-quartier generale, ma provenienti da Inghilterra, Giappone, Australia e Nuova Zelanda. Una sana incarnazione di multicultura. Otto menti affamate di tutto ciò che ruota attorno all’universo pop, ma soprattutto pronte a scoppiare in un tripudio di suoni.
Difficile capire da dove prendano ispirazione questi ragazzi, tanto il loro genere è personale, eterogeneo e inclassificabile: si parte da una spiccata attitudine pop, ma il punto di arrivo straborda ora nell’elettronica, ora nell’indie, ora chissà dove, e quando lo fa abbatte i confini senza chiedere troppo permesso. Nelle 10 tracce di questo primo, omonimo album, ci sono distorsioni, campionamenti di rumori e suonerie di cellulari, armonie vocali, sintetizzatori impazziti, tanto che per rendere un’idea esaustiva di cosa sono i Superorganism si potrebbe parlare tranquillamente di “caleido-pop“.
Se cercate un disco che vi shackeri allegramente la testa, questo è ciò che farebbe al caso vostro.
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Quando mi trovo davanti la schermata bianca del computer e inizio la recensione di un album, cerco sempre di mediare tra il più spudorato giudizio personale e una descrizione più distaccata e “professionale”. Poi però ci sono casi in cui tenere separati i due elementi è impossibile, ed è per questo che come sottotitolo delle mie recensioni ho scelto “radiografia emozionale”, dove quel'”emozionale” sta proprio a sottolineare che in ogni commento che scrivo c’è sempre – più o meno evidente – una componente soggettiva, emozionale appunto, che poi è quella che mi fa amare visceralmente la musica, portandomi anche a scriverne.
Tutta questa premessa per dire che quando ho ascoltato Si vuole scappare, secondo lavoro dei livornesi Siberia, mi sono sentito percorrere sulla schiena un brivido di emozione che non posso ignorare. Perché dentro a questo album ci ho sentito scalpitare il lato più crudo e realistico della vita. Il pop dei Siberia è tanto oscuro quanto viscerale, solenne, a volte liturgico e spietato, in un burrascoso equilibrio tra cantautorato e vigore indie-rock. Non a caso la band nomina tra i suoi riferimenti Tenco, i Baustelle e gli Editors: tutti riferimenti (gli ultimi due in particolare) che non si fatica a riconoscere scorrendo la tracce del disco. Se dalla band inglese arriva la potenza sonora, con le sue seduttive atmosfere tendenti agli onirismi dark e gli impeti di new wave, dai Baustelle arriva lo slancio poetico spietato, violento eppure così tremendamente affascinante.
Protagonista del disco è la vita dell’essere umano, spogliato di ogni velo da favola, l’uomo con l’anima nuda e la pelle esposta alle sferzate del destino. Una vita cantata nella sua miseria, nella sua tragedia quotidiana, ma anche in quell’accecante bisogno d’amore a cui nessuno sa resistere. Amore e dolore, spleen ed ebbrezza.
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Da quando abbiamo iniziato a conoscerla, ormai sette anni fa ad Amici, di Annalisa abbiamo visto lo spirito sbarazzino, l’abbiamo apprezzata come elegante e abbiamo ballato quando si buttata nell’elettropop. Mai però la ragazza era apparsa in gran forma e finalmente “a fuoco” come in questo suo ultimo lavoro, Bye Bye, pubblicato all’indomani della sua quarta partecipazione al Festival di Sanremo.
Se le sue doti, e in particolare l’intonazione curatissima, erano da sempre i suoi punti di forza, Annalisa non si era ancora presa la completa libertà di espressione che la porta invece a volare a briglie sciolte nel nuovo album. Bye Bye è infatti un vero manifesto di libertà e di leggerezza, come dichiara già il titolo, un congedo a tutti quei vincoli a cui fino ad oggi Annalisa si era sottomessa per imposizioni morali o autoconvincimenti. Un capitolo discografico che si stacca dai precedenti anche stilisticamente, puntando verso un pop freschissimo e sporcato di spunti urban, come aveva lasciato intuire Direzione la vita, il primo singolo pubblicato lo scorso anno. Se il brano sanremese, Il mondo prima di te, rappresenta forse l’episodio di stampo più tradizionale, che Annalisa sa però vestire perfettamente alleggerendolo dalle banalità, il resto dell’album si snoda scioltissimo tra decorazioni elettroniche, tuffi e capriole nell’R&B, fino ad arrivare al featuring con Mr. Rain in Un domani, che fa incontrare Annalisa e l’hip-hop. Bye Bye è un invito azzardare, il disco del prendersi “tutto e subito” non per avidità, ma perché la vita non aspetta, quel che oggi c’è domani potrebbe non esistere più (“come le storie di Instagram”), perché il presente non torna più. Annalisa mette da parte le noie e le paranoie, le ansie da prestazione del piacere per forza, e in cambio si guadagna una nuova (e forse definitiva?) credibilità di interprete.