BITS-RECE: Daphne Guinness, Optimist In Black. Dal lutto alla vita

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Scelta spiazzante quella di Daphne Guinness.
Cosa succede infatti quando una delle più grandi fashion icon decide di buttarsi nella musica e incidere un disco? Nella maggior parte dei casi, succede poco o nulla, il più delle volte ne viene fuori una manciata di brani strambi zeppi di elettronica. Sì perché per fare le cose cool e trendy oggi ci si butta lì dentro, in quel magma indistinto di suoni prodotti dai synth.

Ma dimenticavo che questo succede se sei una qualunque fashion blogger, fashion trender, fashion quel-che-vuoi, non se sei una vera icona vivente dello stile, una delle più grandi, una a cui persino Karl Lagerfeld si sente in dovere di inchinarsi: una come Daphne Guinness. A quel punto, non potresti permetterti di buttare via tempo ed energia per pubblicare una dozzina di canzoni “tanto per”, ma puoi fare quello che davvero ti va, metterci anima e corpo e farlo al tuo meglio. Così ha fatto, più o meno, la Signora dai capelli bicolore. E anziché rifilarci un anonimo e scontato disco di elettropop/EDM, ha pensato di darsi al rock.

E’ nato così Optimist In Black.
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Certo, Daphne Guinness non è Patti Smith o Debbie Harry, non lo è e lo sa, così come è più che evidente che se nella vita avesse voluto fare la cantante probabilmente a quest’ora sarebbe a raccogliere spiccioli in qualche disgraziato locale di periferia.

Ma la fortuna ha voluto che nascesse in una delle più ricche famiglie irlandesi (proprio i Guinness della birra) e venisse assorbita dal fashion system, così che la musica è rimasta per lei solo una marginale passione, da coltivare quando e come le piace.

Quando si è trattato di dar vita al suo album – e non è affatto detto che rimanga l’unico – Daphne ha chiamato Pat Donne e Tony Visconti, lo stesso che per anni ha affiancato il caro Bowie alla produzione. Portare a termine il lavoro, ha dichiarato, non è stato facile, ci sono voluti tre anni, e sin dalla pubblicazione del singolo Evening In Space, nel 2014, si era capito che stava facendo sul serio: in quel brano infatti non si faticano a ritrovare le medesime atmosfere aliene di Life On Mars. Per il resto, i riferimenti sono da ricercare soprattutto negli ascolti degli anni ’60 e ’70

Con l’eccezione di un alcuni brani – Fatal Flow e No Nirvana Of Cooldom, per esempio – che effettivamente mostrano quei suoni fluidi di cui parlavo all’inizio, per il resto Optimist In Black è un lavoro di impronta cantautorale piuttosto malinconica, visto che dentro Daphne ha infilato i pezzi più dolorosi della propria vita, senza risparmiare stoccate all’ex marito (Bernard-Henry Lévy, il filosofo) o il ricordo degli amici scomparsi (la collega Isabella Blow e lo stilista Alexander McQueen, morti entrambi suicidi a pochi anni di distanza): Optimist In Black sembra un po’ la stanza privata di Daphne, un cantuccio in cui rifugiarsi dopo essersi tolta gli abiti di haute couture. Uno spazio suo, da arredare come meglio credeva, senza la pretesa di consegnarci una nuova Bibbia della musica, ma nemmeno senza scialacquare l’occasione.

Optimist In Black non è un disco da classifica, probabilmente non è un disco che lascerà segni nella memoria, ma è un lavoro che ha le gambe per stare in piedi. Un disco di una donna che, arrivata a lambire i 50 anni e restando quotidianamente immersa nel luccichìo del fashion biz ai massimi livelli, sa che la vita riserva anche brutti scherzi, tremendi a volte, e che arriverà per tutti un momento in cui dovremo vedercela da soli.

Dovremo affrontare dolori, ci butteremo addosso il nero del  lutto, e certi segreti ce li porteremo dentro in silenzio, certi di poter contare solo su di noi. 

Di tutto il resto, chi se ne frega: il mondo là fuori sarà fantasticamente luccicante.

 

BITS-RECE: Luce, Segni. Il tepore di una voce

BTS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Quanti dischi di “nuovi talenti” escono sul mercato ogni giorno? Una stima è probabilmente impossibile, tra chi si autoproduce e chi invece ha la fortuna di essere supportato da un discografico. Una cosa è però certa: ogni giorno di “nuovi fenomeni” della musica ne nascono tanti. Anzi, troppi.

E la disgrazia che per molti di questi prestanti giovani, cantare o suonare equivale pressappoco a guadagnarsi uno spicchio di notorietà, senza aver la benché minima idea di cosa voler raccontare al pubblico con la propria musica. Vi sarà capitato di sentirne di gente così, e penso possiate capire di cosa sto parlando.

Poi, per fortuna, esistono quelli che “giovani talenti” lo sono per davvero, quelli che hanno storie da raccontare, e sanno trovare il giusto modo per farlo, magari arrivando in silenzio, senza lo scintillio della TV.

Proprio tra di loro sta Lucia Montrone, o meglio, Luce, come ha scelto di farsi conoscere dal pubblico.
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Il suo primo album si intitola Segni, perché parla di tutti quei piccoli e grandi marchi che la vita ci lascia durante il cammino. Un titolo scelto non a caso, visto che lo scorso dicembre Luce è rimasta coinvolta in un incidente che le ha lasciato in ricordo – appunto – un segno sul viso.

Scorrendo le dieci tracce dell’album, si ha subito la sensazione che in questa ragazza ci sia qualcosa, quel “qualcosa in più” che molto spesso cerchiamo e poche volte riusciamo a intercettare in un artista. 

C’è, nella sua voce, un misto di limpidezza e sicurezza che ti fa capire che lei sa esattamente quello che canta, lo sa perché lo ha vissuto, lo ha scritto e poi lo ha messo nelle sue canzoni. Canzoni che sono proprio sue, e non potrebbero essere di nessun altro, perché se le è cucite addosso a sua misura. Che poi è esattamente quello che dovrebbe fare ogni cantautore che ambisca a meritarsi questo titolo.

Segni è fatto soprattutto di arpeggi di chitarra, tocchi di pianoforte e fruscii di percussioni, una musica leggera leggera, che anche quando scende a trattare i “segni” più dolorosi non perde la sua gentilezza. Ecco, gentile, la musica di Luce è gentile.

Un giovane talento.

BITS-RECE: Mænifesto, Veni, Vidi, Vici. Quando Caligola sale in consolle

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Ci sono almeno tre grandi motivi per cui Veni, Vidi, Vici è un progetto a cui vale la pena riservare un po’ di attenzione.
Il primo è il suo carattere assolutamente fuori dagli schemi, frutto dell’ingenio del suo creatore, dietro a cui si cela Augustus Gregorio Rossi, che ha dato vita a un album d’esordio coraggioso, ambizioso, totalmente libero e che in nulla cerca di strizzarvi l’occhio.

Il secondo è la stridente commistione dei suoi elementi, vale a dire l’antica Roma da una parte e i suoni della techno dall’altra. Partendo infatti dalla grande storia della prima età imperiale, il nostro Augustus – e il nome già dice molto da solo – ci ha ricostruito sopra un mondo di suoni moderni, per non dire contemporanei. Non è certo la prima volta che un musicista si rifa all’antichità per trasportarla nel presente, in quella che di solito si definisce “contaminazione”. Di solito però ci si limitava a dare un tocco evocativo e misticheggiante agli antichi racconti, aggiungendoci semmai qualche tocco dark ed esoterico per insaporire la salsa. Pochissime volte però mi è capitato di assistere a un risultato simile a quello di Veni Vidi Vici, dove l’ispirazione iniziale viene bruscamente ribaltata, fatta filtrare attraverso una lente che la distorce, la smembra, la immerge in un acido compositivo allucinato, psichedelico, folle. Augustus Gregorio va a pescare nella Roma affaticata che usciva dalle guerre civili e si preparava a veder nascere l’impero – alla fine del I secolo a.C. – fino al governo dispotico di Caligola. Ne interpreta la crisi, le paure, gli squilibri sociali e politici: non è certo la Roma della gloria, dei trionfi e degli onori quella che si ascolta qui dentro. Semmai, è il regno del caos, scende una fitta caligine fatta di synth e di bit convulsi, tutto è soffocante, l’atmosfera è claustrofobica, in niente accomodante.
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Per ammissione dello stesso Augustus, l’idea per costruire l’album è arrivata osservando la situazione di grande incertezza che ormai da anni invade le nuove generazioni, un futuro nebbioso, che non lascia speranze, ma che anzi annulla ogni sforzo di specializzazione professionale: tutti problemi che lui stesso ha vissuto sulla propria pelle, anche quando si trattava di mettere insieme una band. Problemi, difficoltà, ostacoli, quasi sempre di natura economica. Eppure l’album si intitola Veni, Vidi, Vici, come una delle più celebri affermazioni che la storia attribuisce a Cesare: una frase lapidaria, a indicare un successo fulmineo, veloce, netto. È la speranza. La convinzione che tutto possa tornare a essere possibile.
Proprio come due millenni fa l’eterna Roma superò le follie divinizzanti di Caligola. E poco dopo i deliri onnipotenti di Nerone. La storia funziona per cicli, ce lo hanno insegnato.
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Il terzo motivo è la diretta conseguenza di tutto quello che ho cercato di dire fin qui: un progetto d’esordio, nato in totale libertà, e quindi indipendenza, e quindi figlio della perseveranza, ma che manifesta una forza così dirompente, merita almeno uno sguardo.
“Oderint dum metuant”, “Mi odino, purché mi temano”, pare abbia detto Caligola. E qui dentro quella paura suona vivissima.
L’unico rammarico è che tra i nove capitoli dell’album – rigorosamente numerati in romanico – manchi il tassello di Nerone: mi sarebbe piaciuto sentire il suono che Augustus avrebbe dato al grande incendio di Roma.

Immagino che la storia romana non ve l’abbiano mai fatta studiare in questo modo…

BITS-RECE: Blastema, Tutto finirà bene. Come mercurio tra le mani

Parto da una considerazione: i Blastema sono una delle band più incessanti che il panorama italiano possa annoverare nello scenario pop/rock/elettronico (fate voi, il genere è davvero poco importante).

Pur essendo presenti sulle scene dal 1997, li avevo conosciuti solo con il loro album precedente, Lo stato in cui sono stato, ed ero rimasto affascinato dalla potenza dei loro suoni, dalla loro musica così solida, granitica, tagliente, potente. In una parola, dalla loro identità, fattore non così scontato.

Per il nuovo album, Tutto finirà bene, hanno forse deciso di privilegiare un po’ la componente elettronica, ma sostanzialmente la cifra stilistica è rimasta la stessa: la prima immagine che mi è venuta in mente ascoltando questi brani è quella del mercurio. Avete mai visto muoversi una macchia di mercurio? Liquida, eppure densa, lucida, argentea, palpitante: ecco, la musica dei Blastema si muove così.

Impossibile da afferrare del tutto, ha in sé qualcosa di quasi seducente e viscerale, ti arriva addosso con tutta la sua carica quasi strisciando, ammaliante, come non ti aspetteresti. Elemento essenziale di tutto ciò, quasi in netto contrasto con la ruvidezza dei suoni, la voce limpida di Matteo Casadei (che tra l’altro è un frontman di carisma straordinario: vederlo sul palco è un’esperienza che difficilmente vi potrà lasciare indifferenti).

Nei loro i brani, i Blastema mettono rabbia, disillusione, ironia (spesso sardonica), ma anche speranza e, a modo loro, amore.

Eccellente l’apertura potentissima e superba di La parte pura, che va a contrastare, all’altro capo del disco, con Il destino del mondo, un pezzo intimo che Casadei rivolge alla figlia, ma che possiamo immaginare rivolto a tutti i piccoli occhi che riceveranno tra le mani il nostro futuro. Da segnalare Orso bianco, che racconta un po’ l’assurdità e il vuoto che ci ritroviamo intorno, e poi I morti, spiazzante, il pezzo con cui la band aveva inaugurato il nuovo capitolo della carriera, l’apocalittica Asteroide, Perle ai porci, crudele e sacrale e nello stesso tempo, Tornerai e Pastorale.

Per l’onesta musicale, per la voglia di non seguire la corrente, e semplicemente per esserci, lunghissima vita ai Blastema!