Clementino, l'Uomo vitruviano del rap italiano

Clementino-Vulcano_0202_LOW_RESNel sempre più articolato panorama del rap italiano, quello di Clementino è uno stile a sé. Non tanto per l’uso quasi esclusivo del dialetto, che a ben vedere non è una sua prerogativa esclusiva, quanto soprattutto perché il rapper napoletano – o meglio, nolano – segue un percorso tutto suo, lontano nella stessa misura dal machismo esasperato, dai toni torvi e cattivissimi e dal populismo in odore pop dei suoi colleghi.
Non è un caso che per il suo ultimo album, Vulcano, non abbia voluto featuring e non abbia scritto un pezzo per “dissare qualcuno”.
Vulcano è un album di Clementino, e solo di Clementino, e per rendere l’idea il ragazzone di Cimitile usa il paragone dell’Umanesimo e del Rinascimento, in cui al centro di ogni cosa vi era l’uomo. Ecco, qui al centro di tutto c’è lui, l’uomo Clementino, e lui, che dell’ironia fa larghissimo uso, spiega che ci si vede nella posa dell’Uomo vitruviano del rap italiano.
Fin dal titolo, questo è un disco che Clemente Maccaro sente suo, quel vulcano è lui, nessun altro avrebbe potuto pubblicare un album con titolo così, “dovevo essere io il primo”. Dopo la valanga di collaborazioni nel precedente Miracolo!, qui non ci sono featuring: negli ultimi anni Clementino ha dato retta a tanti, troppi, concedendo featuring a chiunque glielo chiedesse, adesso si è voluto tenere spazio solo per sé, lavorando con produttori noti – vedi Shablo e Deleterio – o nuovi – vedi David Ice.
E, si diceva, non ci sono dissing. O meglio, c’è un pezzo, A capa sotto, in cui se la prende un po’ con tanti, ma senza fare nomi. Insomma, featuring con nessuno e dissing con quasi tutti.
Vulcano arriva a più di in mese dalla seconda partecipazione a Sanremo, con Ragazzi fuori. Un bilancio tutto sommato positivo, se non fosse per il rammarico di non aver potuto far ascoltare la cover di Svalutation. Mentre ne parla le sue parole tradiscono però anche una certa insofferenza verso quel contesto, e infatti alla domanda su una terza presenza in gara la sua risponda non lascia posto a dubbi: “Se sarà, sarà tra qualche anno. L’ho fatto per due anni di seguito, ma non ne posso più di essere concorrente, di quelle situazioni abbottonate, in cui devo misurare le parole per non rischiare di essere frainteso, per non rischiare di offendere. In questo sono un rapper”.
Musicalmente parlando, si dice un fiero (e forse il primo) esponente del “black Pulcinella”, uno stile che molto deve a Pino Daniele per la componente “nera” e che altrettanto discende dal “napoletan power”.
Dentro al nuovo disco, accanto a pezzi di pura matrice clementiniana come Keep calm e sientete a Clementino e Joint c’è spazio per momenti più riflessivi come Stamm ccà e Deserto, fino a una canzone d’amore, La cosa più bella che ho. A chiudere, Paolo Sorrentino, un personale tributo al regista di cui Clementino è grande estimatore.
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Come la vede oggi la scena rap italiana? “Sta cambiando tutto, si dà sempre più spazio al rap da battaglia, Salmo fa il disco di platino senza singoli in radio. Ci sta avvicinando all’America dove può arrivare al primo posto in classifica uno come Kendrick Lamar”.
Non manca poi l’impegno sociale, portato avanti più con i fatti (tra questi, la IENA Soccer, di cui Clementino è presidente onorario, una squadra di calcio in cui accanto a schemi e tecniche si insegnano i valori e si portano i bambini lontano dalle strade) e le denunce (“Nola è ancora terra dei fuochi, la gente continua a morire di tumore”) che con i freestyle: “Le battaglie di freestyle le ho già fatte, vengo da quel mondo, adesso voglio dire cose intelligenti”.
Intanto il nuovo singolo, Tutti scienziati è accompagnato da un video di spassosa ispirazione cinematografica: “Avevamo pensato a Ritorno al futuro o a Frankenstein Junior, poi è arrivata l’idea di Non ci resta che piangere”. Sul finale, un’improbabile full immersion di uso dei social network impartita a un interdetto Leonardo Da Vinci. 
Grandi cose sono attese infine per il tour, che a maggio vedrà Clementino anche in giro per l’Europa (Stoccarda, Amsterdam, Colonia, Londra): “All’estero farò allenamento, poi quest’estate arrivo in Italia, e in inverno mi piacerebbe salire sul palco con una band e suonare. Non dico che porterò in scena un vero vulcano, ma quasi”.

Alchemaya: ad aprile Max Gazzè dà il via al progetto "sintonico"

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Nell’aprile 2017 Max Gazzè sarà impegnato con quello che appare il suo progetto artistico più innovativo: Alchemaya.

Suonato con la Bohemian Symphony Orchestra di Praga, il concerto sarà articolato in due parti: la prima è un’opera originale in cui Max e il fratello Francesco fondono insieme, attraverso nuove composizioni, gli approfondimenti esoterici condotti da Max negli ultimi 20 anni; la seconda parte propone brani tratti dal repertorio storico di Max riarrangiati in chiave “sintonica”, un neologismo creato appositamente per definire il concetto di integrazione tra strumenti sinfonici e sintetizzatori.
Il debutto è previsto a Roma il 3 aprile al Teatro dell’Opera, per proseguire il 4 al San Carlo di Napoli, l’8 al Teatro dell’Opera di Firenze, l’11 al Teatro Arcimboldi di Milano, il 13 al Gran Teatro di Padova e il 14 all’Auditorium del Lingotto di Torino.

BITS-RECE: Enzo Avitabile, Lotto infinito. Respiro mediterraneo

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata  bit.
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Per un fatto di puro gusto personale, ho spesso evitato la musica napoletana. Anzi, ho spesso evitato la musica dialettale in generale, pur consapevole dell’immenso valore culturale che racchiude. Pura questione di gusto personale, mettiamola così.
Poi è accaduto che mi sono imbattuto in Lotto infinito, ultimo lavoro di Enzo Avitabile, e i miei pregiudizi hanno dovuto fare di corsa un salto indietro.
Perché Avitabile non fa semplicemente musica dialettale, fa qualcosa che va ben oltre, pur partendo da Napoli e dalle sue suggestioni, prima fra tutte quella della lingua.
E in effetti quello che c’è dentro a Lotto infinito è qualcosa che si immerge nel cuore di Napoli, ma poi prende il largo, fino a lambire le coste dell’Africa e delle porte dell’Oriente (basterebbe anche solo guardare le architettura disegnate in copertina o ascoltare i suoni dell’al ghaita, dello ngoni e del setar).
L’atmosfera che esce da questo disco è magica, come se tutto restasse sospeso, incantato, come se il tempo rallentasse per qualche minuto il suo corso, cristallizzato in una musica che apre il suo ampio mantello, e passando sopra il Mediterraneo si impregna con la sabbia e la salsedine dei suoi fondali, trascinando con sé suggestioni, odori e colori senza confini.
Avitabile racconta Napoli senza infilare nei testi nemmeno un filo di quella retorica che di solito si riversa a barili quando si parla della città: i suoi ritratti presentano Napoli con le sue ferite sanguinanti e le sue cicatrici, le periferie affidate alla protezione di San Ghetto, la Napoli deturpata e dolorosa, come certe statue di Madonne infilzate, delle discariche e dei fuochi. Ma è anche la Napoli carica di vita e di forza per stare in piedi, che si fa coraggio da sola.
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In Lotto infinito però non c’è solo la capitale partenopea, ma un po’ tutta Europa e un po’ di più, con le storie tragiche dei migranti nel Mediterraneo.
Un disco che profuma di umanità e solidarietà fraterna.
C’è poi il discorso degli ospiti, che sono tantissimi e di grande prestigio, da Giorgia, Francesco De Gregori, Mannarino, Renato Zero (alle prese con il napoletano in Bianca, un pezzo dedicato alla memoria di Bianca D’Aponte), Caparezza, Daby Touré, che porta la lingua africana in Comm’ ‘a ‘na, Hindi Zahra, Lello Arena a molti altri: un elemento che sicuramente regala lustro al progetto, ma che in questo caso è solo un accessorio di un progetto già da sé meraviglioso.

Tra sacerdoti e impiegati delle Poste, tutti pazzi… per Rovazzi!

L’estate sarà anche finita, ma la fregola per i tormentoni continua alla grande!
Mentre Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi, trionfatore assoluto delle vacanze 2016, staziona ancora altissima nelle classifiche di streaming e download, c’è chi ha ben pensato di prendere il brano del giovane pupillo di Fedez e J Ax e farne una versione diciamo così… alternativa.

Come per esempio gli impiegati dell’ufficio postale Napoli 60, che hanno riletto la canzone trasformandola in Andiamo a lavorare, infilando nei versi le tragicomiche esperienze quotidiane vissute dai lavoratori che ogni giorni devono vedersela con file di utenti scalpitanti agli sportelli. Il tutto naturalmente riproponendo anche l’ormai iconico scrollamento di spalle nel ritornello, anche questo con risultati… alternativi. 

Ma gli impiegati napoletani non sono stati gli unici a rileggere la canzone: in mezzo alle decine di parodie, già da agosto circola per il web Ci andiamo a confessare?, rilettura in chiave cristiana del brano fatta da don Roberto Fiscer, sacerdote 38enne, viceparroco nella chiesa di San Martino d’Albaro di Genova, non nuovo a questo tipo di esperimenti: sotto alla sua “lente” sono passati infatti anche Sofia di Alvaro Soler, ribattezzata Eucaristia, e Maria Salvador di J AX, O Gesù salvator.

Che l'”effetto Sister Act” funzioni davvero?

BITS-CHAT: Un rap violento, che parla (anche) d’amore. Quattro chiacchiere con… Luchè

BITS-CHAT: Un rap violento, che parla (anche) d’amore. Quattro chiacchiere con… Luchè

“Un disco molto personale, con momenti introspettivi e dark: ho voluto trovare un suono che mi distinguesse da quello che c’è in giro. Ho lavorato tanto sui ritornelli. Ci sono pezzi più forti, altri più intensi, parlo anche d’amore. Non ci sono invece pezzi crudi, O’ Primmo ammore in questo senso è un’eccezione, perché non voglio ripetermi: ho voluto parlare di me, ma in modo diverso dal passato, ho messo davanti la mia persona rispetto al contesto.”

Così Luchè parla del suo ultimo album, Malammore, il terzo lavoro solista da quando nel 2012 il progetto Co’ Sang, di cui faceva parte con il collega ‘Ntò, ha cessato di esistere. Da allora sono arrivati gli album L1 e L2.

O’ Primmo ammore è stato uno dei primi brani che il pubblico ha ascoltato del nuovo disco, essendo stato inserito nella colonna sonora della serie TV Gomorra.
Già, Gomorra, proprio quella “di Saviano”, quella di Napoli, la città di Luchè, anche se ormai vive da parecchi anni a Londra.

“Spesso mi capita di spiazzare le aspettative: non sono per forza il rapper del ghetto di Napoli. Sono anche quello, ma non solo, e mi piace cambiare direzione ogni volta, far venire fuori qualcosa di nuovo, anche se all’inizio chi mi ascolta potrebbe non capire.”

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Perché scegliere Che Dio mi benedica come singolo di lancio?
Quella è una canzone che difficilmente ci si aspetta da me. Parla di un ragazzo che non si piace, ha dei complessi, sta uscendo da una relazione. Una situazione che ho vissuto sulla mia pelle, ma ognuno di noi ha delle insicurezze, tutti almeno una volta ci siamo odiati, ecco perché ho voluto scriverla.

E la scelta del titolo dell’album? Che cos’è il Malammore?
Non potevo continuare la serie L3, L4, L5… Forse in futuro ci tornerò. Malammore è stato il mio primo tatuaggio, fatto a 17 anni, ma è anche il nome di uno dei personaggi di Gomorra. E’ una parola che indica l’amore, la passione, il dramma, racchiude il mood del disco: è un amore dannato, una passione che ti annienta, come la musica per me. Rimettermi in gioco ogni volta, cercare di superarmi mi distrugge, anche se io amo la musica: amo la canzone finita, non amo il processo di creazione. Malammore è questo, un compromesso di amore e sofferenza.

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Questa sofferenza si combatte?
Sì, ma non so bene come: si combatte e basta. Io continuo a fare musica perché mi sento spronato da quelli che mi ascoltano, so che ci sono loro che aspettano le mie canzoni, e questo mi fa continuare a scriverne di nuove.

In Violento fai riferimento al fatto che alle major non piaceva la tua musica: resta il fatto però che questo album esce per Universal. Cos’è successo? Ti sei censurato per poterlo pubblicare?
No, no, la libertà che mi sono preso è stata totale. Ho firmato con Universal a disco già chiuso: negli incontri che ho avuto con i discografici per definire l’accordo, mi hanno dimostrato di aver capito che esiste un mercato hip hop fatto da un determinato numero di persone, e che quel mercato se lo dividono i vari rapper, ognuno con la propria fanbase. Quindi non è tanto importante avere un singolo radiofonico, ma è l’artista che tira: se c’è un singolo forte a disposizione meglio, ma insieme siamo arrivati alla considerazione che il pubblico segue il rapper indipendentemente dal passaggio in radio. Ecco perché non mi hanno imposto nulla. Nella canzone dico che alle major non piaccio perché il mio sound è violento, ma è sempre stato così.

Tra le collaborazioni ci sono Gue Pequeno, Baby K e CoCo: perché hai scelto di coinvolgere loro?
Con Gue Pequeno abbiamo fatto Bello, un pezzo forte, pieno di punchlines, “spaccone”, tamarro, come ama fare lui. Baby K invece l’ho coinvolta per un pezzo d’amore, Quelli di ieri: ho fatto io il beat e ho chiamato lei per la parte cantata, sapendo già che le sarebbe piaciuto. CoCo lo seguo dagli inizi, è il mio migliore amico: insieme stiamo creando il movimento “black Friday”. Per il resto, ho lavorato con il gruppo di lavoro che già mi seguiva.

Malammore è un album piuttosto lungo, con 19 pezzi: avevi tanto da raccontare?
Dopo due anni dall’ultimo album, non volevo tornare con un disco di 11 pezzi, sarebbe stato incompleto: inoltre, 3 tracce erano già uscite, per cui di fatto gli inediti sono 16. Volevo bilanciare i vari stili, le influenze. Quando scrivo, di solito scarto pochissimo: se non mi sento sicuro di un pezzo, non lo finisco neanche.

Pensi che l’hip hop sia cambiato in questi ultimi 3-4 anni di grande esposizione mediatica?
E’ cambiato molto: la nuova generazione di rapper strizza molto l’occhio all’America, molto più di quanto non facessimo noi. Tra le cose che vedo e che non mi piacciono c’è la ricerca della canzone trash, fatta per una comicità “alla Pierino e Bombolo”, come se fossimo un pubblico di cretini. Dall’altra parte, ci sono però dei rapper che hanno sonorità internazionali, che si richiamano alla Francia o, come dicevo, all’America: sono giovani, per cui magari devono crescere, ma ci portano fuori da quel fastidioso “rap all’italiana”. Il pubblico cerca dei messaggi, cerca dei leader, dei punti di riferimento, e i rapper possono essere in questo senso dei modelli.

Una domanda di rito per BitsRebel: cosa significa per te il termine “ribellione”? 
La ribellione non la definisci, la provi. In questa società, la più grande forma di ribellione è essere se stessi: oggi i ragazzi si muovo in massa, non ragionano da soli, ma per schemi. La ribellione è importante se ha uno scopo, non se è fine a se stessa: penso a Napoli, una città dove la ribellione è necessaria, perché siamo stati strumentalizzati e spesso viviamo credendo che questa sia la situazione che ci meritiamo. Per Napoli, ribellarsi vuol dire opporsi a un destino che sembra già scritto: dobbiamo ritrovare la dignità, meritiamo di avere degli input, meritiamo un sistema che funzioni, meritiamo di non sentirci inferiori. Perché in Italia quasi nessuno ha parlato dell’evento di Dolce&Gabbana che si è svolto a Napoli, mentre i media stranieri sì? Perché Napoli serve per essere strumentalizzata, per farci Gomorra: c’è razzismo, dà fastidio vedere Napoli capitale della moda, anche solo per qualche giorno. Apprezzo Saviano soprattutto quando parla di politica, meno quando analizza l’attualità: le sue denunce sarebbero state utilissime se poi fosse cambiato qualcosa, ma nella sostanza la rivoluzione sociale non c’è stata.

Nell’assopimento delle coscienze, la musica ha delle colpe?
La musica no, sono gli artisti ad averle: dipende da come si usa la musica, e oggi molti la sfruttano solo per diventare famosi. La musica potrebbe fare tantissimo, ma deve scontrarsi con queste situazioni, e con una grande ignoranza del pubblico.