Remember To Breathe, il ritorno glam-rock di Daphne Guinness

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Quando l’anno scorso Daphne Guinness ha pubblicato Optimist In Black, pensavo che quel disco fosse una felice evasione di una iper-icona della moda, un divertissement musicale partorito nei momenti di noia tra una sfilata e uno shooting patinato.
Invece a sorpresa la signora torna alle note con un nuovo singolo, Remember To Breathe.
Esattamente come aveva fatto per il suo primo album, la Guinness è rimasta fedele alle influenze del glam-rock, e anche stavolta dietro al risultato c’è la mano sapientissima di Tony Visconti (per capirci, uno che ha lavorato a lungo e a strettissimo contatto con Bowie).
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Se il progetto di Optimist In Black partiva da due lutti dolorosissimi per Daphne (la morte di Isabella Blow nel 2007 e il suicidio di Alexander McQueen nel 2010), il concepimento di Remember To Breathe è avvenuto in un’atmosfera quasi opposta, come in una sorta di rinascita, mentre le registrazioni si sono svolte rigorosamente in analogico.
Come lei stessa ha dichiarato sulle pagine di V Magazine, già nei brani del primo album si poteva percepire un passaggio dal buio alla luce, dal dolore a una nuova vitalità ritrovata, al punto che i lavori per il secondo album – ebbene sì, pare che ci sarà – sono partiti addirittura 10 giorni dopo l’uscita di Optimist (sul suo profilo Instagram ci sono numerose immagini scattate nei mesi scorsi in studio di registrazione).

Ad accompagnare il nuovo singolo è un video ovviamente glitteratissimo e iper stiloso, diretto da Fiona Garden e Ben Ashton.

Elogio a The Fashionable Lampoon

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Chi si è già imbattuto tra le pagine web di BitsRebel sa che questo è un blog dedicato soprattutto alla musica, ma che ogni tanto lascia spazio anche ad altro, soprattutto se questo “altro” ha in sé un’indole ribelle, in uno dei mille modi in cui una cosa può essere ribelle.

Era da un po’ di tempo che mi frullava in testa l’idea di scrivere un pezzo su The Fashionable Lampoon, e volevo farlo adesso, a febbraio, perché febbraio è – insieme a settembre – il mese delle sfilate femminili, ovvero uno dei due mesi cruciali per l’editoria del fashion, e qui proprio di fashion si sta parlando. E poi perché a febbraio 2017 cade il secondo anniversario di Lampoon.

Ma cos’è The Fashionable Lampoon? Se ve lo state domandando significa che in questi due anni non lo avete mai letto e guardato, il che è un vero peccato, perché si tratta di una delle realtà editoriali più interessanti che siano emerse nell’ultimo periodo. Una realtà, per giunta, totalmente italiana, pensata e nata in Italia, ma con un occhio che sa guardare non solo oltre le Alpi, ma anche oltre l’Oceano.
Sarà forse per questo, o forse per il titolo, che spesso nelle edicole trovate Lampoon sistemato tra i magazine stranieri. Fatto sta che finalmente possiamo essere orgogliosi di avere una rivista di moda concepita in Italia e che non ha nulla da invidiare ai fighissimi magazine d’importazione.

L’avventura di The Fashionable Lampoon è iniziata nel febbraio 2015, quando – dopo una martellante campagna di manifesti disseminati per le strade – è stato pubblicato il primo numero. Dietro all’idea del progetto, come era spiegato molto bene nel primo edtoriale, vi erano le menti di Carlo Mazzoni, scrittore e direttore di L’Officiel Italia tra il 2012 e il 2014, e Roberta Ruiu, forse nota ai più come ex componente delle Lollipop, quelle di Down Down Down e Batte forte. Lui ha portato l’esperienza editoriale, lei l’occhio sveglio del pop. Tutto partiva da un’estate che stava volgendo al termine: in riva al mare, chiacchierando di amori naufragati, Carlo e Roberta hanno lanciato il seme di quello che pochi mesi dopo si sarebbe concretizzato in Lampoon.
La parola è stata presa in prestito da The Harvard Lampoon, giornalino a carattere satirico curato dagli studenti della celebre Università americana. È proprio con questo spirito è nato The Fashionable Lampoon, un magazine che avrebbe dovuto trattare la moda con leggerezza, quasi satiricamente, quasi sdrammatizzandola – attenzione, sdrammatizzandola, non ridicolizzandola -, togliendole quell’aura di serietà con cui spesso viene descritta e disegnata da giornalisti, esperti e stilisti stessi.

E così è stato. Come titolo del primo numero è stato scelto Snob & Pop, che poi è diventato il mantra delle uscite successive: quello cioè di affiancare e mescolare eleganza e raffinatezza con l’anima pop e glitterata dello stile. Chi avrebbe comprato il primo numero, ci avrebbe trovato in copertina l’incarnazione di questo messaggio, vale a dire la nobiltà di lunga tradizione della principessa Elisabeth con Thurn und Taxis e il pop modaiolo di Chiara Ferragni, la superblogger italiana che senza blasoni si è guadagnata la notorietà internazionale tra il popolo del fashion.
Sulle uscite successive sarebbero comparsi John Kortajarena insieme a Luca Argentero, Amanda Lear con Eva Riccobono, Baptiste Giabiconi con Emma Marrone, Isabella Ferrari con Valeria Mazza.
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Questo è Lampoon, un giornale che gioca sulle tendenze, mescola le carte, azzarda proposte. Un magazine a mosaico, frammentato nei contenuti ma anche concretamente, dal momento che le sue pagine sono stampate su differenti tipi di carta. Molto interessanti a questo proposito i dettagli delle stampe proposte di volta in volta da alcuni nomi della moda.
Testi brevi, in italiano e inglese, in cui i protagonisti vengono raccontati nell’essenziale e in modo vivo.
Un ruolo essenziale è naturalmente giocato anche dalle immagini, (bellissimi) servizi fotografici che vedono protagonisti personaggi della moda (ovviamente), ma anche dello spettacolo e dell’arte, e capita così di trovare in uno stesso numero – o in uno stesso servizio – leggende della danza, del teatro, del cinema, della televisione e della musica, in un caos solo apparente che dà vita a uno spettacolo di idee. Tanto per fare un esempio, cito il servizio firmato da Michael Avedon per la issue di settembre 2016, in cui comparivano Benedetta Barzini, Gillo Dorfles, Arrigo Cipriani, Franca Valeri, Franco Nero, Carla Fracci, Gianni Canova, Lina Solis Italo Rita, Nero, Bruna Vespa, alcuni sporcati di glitter. Questa è la leggerezza di Lampoon, il suo essere giocosamente ribelle per parlare di un mondo inarrivabile ai più, scomodando geni e tronisti, dive e veline. Cultura impegnata e cultura pop sottobraccio una dell’altra, bellezza e fashion presentati non con occhio staccato da maestri, ma complice.

Per la pubblicazione del secondo numero, a settembre 2015, sotto l’egida di Lampoon è anche stato messo sul mercato un brano musicale, Keep On Shining, realizzato dai Lampooners – ovvero le anime del magazine, tra cui Fiammetta Cicogna e Paolo Stella – insieme a Esther Oluloro, conosciuta in TV per la partecipazione a The Voice. Si parlava di splendere, dentro più che fuori, ognuno a modo a suo. Ecco, sfogliando le pagine di Lampoon, tra una ricercata e costosissima selezione di outifit, accessori, cosmetici e profumi, il messaggio che si coglie sembra proprio quello. Perché se la moda non è democratica la bellezza fortunatamente sì.

La parola d’ordine scelta per l’uscita di febbraio 2017 è Aristofunk, allo scopo di celebrare l’unica aristocrazia ancora ammissibile nel nostro tempo, quella del talento. E se non è democratico il talento……

Marc Jacobs mette in mostra la bellezza “alternativa”


È un’autentica sfilata di bellezza freak quella proposta da Marc Jacobs per la campagna pubblicitaria autunno/inverno 2016.


Per promuovere la sua ultima collezione, il designer statunitense ha pensato a un vero e proprio videoclip di celebrità che in un’atmosfera alquanto gotica e dardeggiante mettono in mostra una bellezza, diciamo così, “alternativa”. Diretto dall’ultra blasonato Hype Williams, il video è ambientato in uno scenario oscuro, illuminato dalle sole luci ipnotiche di alcuni neon, mentre sullo schermo si avvicendano sinistre apparizioni di personaggi del calibro di Marilyn Manzon, Courtney Love, Missy Elliot, St. Vincent, Cara Delevingne, Susan Sarandon. E, perché no, anche lo stesso Jacobs.

La colonna sonora è invece affidata a Love Honey, Love Heartache dei Man Friday.

BITS-RECE: Daphne Guinness, Optimist In Black. Dal lutto alla vita

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Scelta spiazzante quella di Daphne Guinness.
Cosa succede infatti quando una delle più grandi fashion icon decide di buttarsi nella musica e incidere un disco? Nella maggior parte dei casi, succede poco o nulla, il più delle volte ne viene fuori una manciata di brani strambi zeppi di elettronica. Sì perché per fare le cose cool e trendy oggi ci si butta lì dentro, in quel magma indistinto di suoni prodotti dai synth.

Ma dimenticavo che questo succede se sei una qualunque fashion blogger, fashion trender, fashion quel-che-vuoi, non se sei una vera icona vivente dello stile, una delle più grandi, una a cui persino Karl Lagerfeld si sente in dovere di inchinarsi: una come Daphne Guinness. A quel punto, non potresti permetterti di buttare via tempo ed energia per pubblicare una dozzina di canzoni “tanto per”, ma puoi fare quello che davvero ti va, metterci anima e corpo e farlo al tuo meglio. Così ha fatto, più o meno, la Signora dai capelli bicolore. E anziché rifilarci un anonimo e scontato disco di elettropop/EDM, ha pensato di darsi al rock.

E’ nato così Optimist In Black.
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Certo, Daphne Guinness non è Patti Smith o Debbie Harry, non lo è e lo sa, così come è più che evidente che se nella vita avesse voluto fare la cantante probabilmente a quest’ora sarebbe a raccogliere spiccioli in qualche disgraziato locale di periferia.

Ma la fortuna ha voluto che nascesse in una delle più ricche famiglie irlandesi (proprio i Guinness della birra) e venisse assorbita dal fashion system, così che la musica è rimasta per lei solo una marginale passione, da coltivare quando e come le piace.

Quando si è trattato di dar vita al suo album – e non è affatto detto che rimanga l’unico – Daphne ha chiamato Pat Donne e Tony Visconti, lo stesso che per anni ha affiancato il caro Bowie alla produzione. Portare a termine il lavoro, ha dichiarato, non è stato facile, ci sono voluti tre anni, e sin dalla pubblicazione del singolo Evening In Space, nel 2014, si era capito che stava facendo sul serio: in quel brano infatti non si faticano a ritrovare le medesime atmosfere aliene di Life On Mars. Per il resto, i riferimenti sono da ricercare soprattutto negli ascolti degli anni ’60 e ’70

Con l’eccezione di un alcuni brani – Fatal Flow e No Nirvana Of Cooldom, per esempio – che effettivamente mostrano quei suoni fluidi di cui parlavo all’inizio, per il resto Optimist In Black è un lavoro di impronta cantautorale piuttosto malinconica, visto che dentro Daphne ha infilato i pezzi più dolorosi della propria vita, senza risparmiare stoccate all’ex marito (Bernard-Henry Lévy, il filosofo) o il ricordo degli amici scomparsi (la collega Isabella Blow e lo stilista Alexander McQueen, morti entrambi suicidi a pochi anni di distanza): Optimist In Black sembra un po’ la stanza privata di Daphne, un cantuccio in cui rifugiarsi dopo essersi tolta gli abiti di haute couture. Uno spazio suo, da arredare come meglio credeva, senza la pretesa di consegnarci una nuova Bibbia della musica, ma nemmeno senza scialacquare l’occasione.

Optimist In Black non è un disco da classifica, probabilmente non è un disco che lascerà segni nella memoria, ma è un lavoro che ha le gambe per stare in piedi. Un disco di una donna che, arrivata a lambire i 50 anni e restando quotidianamente immersa nel luccichìo del fashion biz ai massimi livelli, sa che la vita riserva anche brutti scherzi, tremendi a volte, e che arriverà per tutti un momento in cui dovremo vedercela da soli.

Dovremo affrontare dolori, ci butteremo addosso il nero del  lutto, e certi segreti ce li porteremo dentro in silenzio, certi di poter contare solo su di noi. 

Di tutto il resto, chi se ne frega: il mondo là fuori sarà fantasticamente luccicante.

 

Brooke Candy. La più cattiva delle popstar

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Per questione di sintesi, nel titolo di questo articolo ho scritto “popstar”, ma il mondo di Brooke Candy ruota in realtà attorno tanto al pop quanto all’hip hop, e non è raro leggere per lei la definizione di “rapper”. Resta comunque il fatto che il suo è il volto più perverso e più cattivo tra quelli attualmente in circolazione nel pop e nell’hip hop: un volto sfrontato, provocatorio e provocante, distorto, assolutamente affascinante.

Pensate alla Lady Gaga di qualche anno fa (diciamo il periodo Bad Romance/Alejandro), prima cioè che decidesse di vestire i panni di dama del jazz: outfit estremi, e un deciso gusto per il “non bello”, il blasfemo, persino il macabro (vi ricordate i teschi, i litri di sangue finto, l’abito di carne cruda?). Ecco, pensate a quella Lady Gaga e poi ripensatela al quadrato o al cubo, e avrete un’idea più o meno precisa di quello che è Brooke Candy.
Probabilmente, se non fosse arrivata Lady Gaga a buttare sul pop quella secchiata di vernice color petrolio, oggi non avremmo Brooke Candy (così come non avremmo mai avuto Gaga se non ci fosse stata prima Madonna, che a sua volta deve molto a icone come Debbie Harry, e via così all’indietro, con buona pace di tutti): questo non perché Lady Gaga abbia davvero inventato qualcosa, ma è stato il personaggio che è riuscito a dare enorme visibilità a certe scelte di stile.
Ecco, la giovane Brooke si è messa su questa strada: nonostante il confronto inevitabile, pare però che non ami essere accostata alla Germanotta, ma piuttosto ha dichiarato di ispirarsi a un’altra diva del music biz, Lil’ Kim.

Nata a Oxnard, in California, nel 1989, Brooke è figlia del direttore finanziario della rivista a tinte porno Hustler. I primi passi nella musica li ha mossi nel 2012, quando i suoi primi video sono apparsi su Youtube: fra questi c’era Das Me, che la vedeva in versione cyber con capelli fucsia e mega zatteroni. Sono arrivate le prime collaborazioni (Charlie XCX, Grimes), le prime citazioni su magazine di musica e di moda e il suo nome ha iniziato a girare.

Il primo punto di svolta è però arrivato nel 2014, quando Brooke ha fatto il colpaccio aggiudicandosi la regia dell’arcipatinato Steven Klein per il video di Opulence, il singolo – firmato anche da Sia e prodotto da Diplo – che avrebbe dato il titolo al primo EP: scenario violentissimo, atmosfere claustrofobiche, distopiche, visionarie, un’orgia di delirio e sesso. In poche hanno osato così tanto, Brooke Candy si è spinta ben al di là delle bistecche crude di Gaga, ci ha mostrato il lato più malato e perverso a cui può arrivare il pop.
Ad oggi il video conta solo 2 milioni di visualizzazioni, il disco non ha lasciato segno in classifica e il nome di Brooke Candy è rimasto nel limbo dell’underground o poco più.
Forse ci si aspettava un altro riscontro…

La ragazza non si è comunque fermata, ma anzi si è legata sempre di più al mondo del fashion, seguendo la stessa ricetta delle colleghe più celebri, ma facendo le cose a modo suo: come aveva fatto Lady Gaga nel periodo Born This Way, ha lavorato a stretto contatto con lo stylist Nicola Formichetti, un altro a cui piacciono molto le bizzarrie noir, e si è fatta splendidamente immortalare – tra gli altri – da Klein, Terry Richardson, Richard Burbridge, in servizi fotografici che difficilmente hanno lasciato indifferenti. Tra il 2015 e il 2016 ha collaborato con il colosso M.A.C. per lanciare sul mercato due linee di cosmetici.
Non bisogna certo essere Madonna per sapere quanto sia fondamentale per una popstar vendere bene la propria immagine: Brooke Candy lo fa portando il gioco all’estremo, con un’immagine potente e sfacciata, eppure bellissima. Restando perfettamente a metà strada tra pop e hip hop, Brooke li concentra anche nel suo universo visivo: più patinata di Lil’ Kim, più cattiva di Lady Gaga, molto più sporca di Nicki Minaj, ancora più eccessiva di Rihanna. 

Se volete fidanzarvi con lei, sappiate che si definisce “pansessuale”, mentre se entrerete a far parte della schiera dei suoi fan, sarete dei #FagMob.

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Nell’ultimo anno Brooke Candy ha pubblicato diversi singoli (quasi tutti accompagnati dai relativi video), molti dei quali quali finiranno probabilmente in The Daddy Issues, il suo primo album, che dovrebbe arrivare entro la fine del 2016: uscirà per la Sony e si parla di una produzione curatissima, in cui è stata coinvolta anche Sia.

Insomma, sembra arrivato anche per lei il momento del grande salto.
E io lo aspetto, con una certa impazienza.