Anche da un cuore spezzato può luccicare bellezza. Parola di Mark Ronson


Mark Ronson
è uno per cui la definizione di “re Mida” non suona esagerata. Un re Mida dell’industria discografica, ovviamente, uno che, diciamo negli ultimi 10-15 anni, ha visto la propria notorietà andare sempre e soltanto in ascesa, fino a diventare uno dei produttori più blasonati della scena. Anzi, delle scene, visto che se si parla di Mark Ronson non ci si può riferire a un solo ambito. E’ (soprattutto) grazie a Mark Ronson se Amy Winehouse ha fatto in tempo a diventare l’artista che ancora oggi rimpiangiamo – e mi sto riferendo in particolare all’album Back To Black -, ed è in gran parte merito di Mark Ronson il successone riscosso sul globo terracqueo da Bruno Mars con la bomba funkettona di Uptown Funk. Ma porta la firma di Mark Ronson anche la produzione tra pop, country e folk degli ultimi due lavori di Lady Gaga, Joanne e la colonna sonora di A Star Is Born, e se Shallow è diventata Shallow beh, in buona parte dobbiamo dire grazie a lui.
Mark Ronson, ovunque Mark Ronson, dal pop al soul, al funk al country. Pare non esserci genere musicale con cui l’inglese non sia in grado di entrare in sintonia.

Ebbene, a tutto questo va aggiunto anche che il buon Mark non sia solo un super-produttore, ma che qualche volta voglia metterci la faccia e pubblichi qualche album a proprio nome (Uptown Funk era per l’appunto il singolo di punta del suo penultimo lavoro, Uptown Special). E’ il caso di Late Night Feelings, quinto album uscito a nome Ronson.
Un disco che trova la sua sintesi perfetta già nella copertina: una strobosfera a forma di cuore, spezzata e inscatolata. Luccichio e dolore, questi sono i due comuni denominatori che non abbandonano mai l’album, ma che anzi ne caratterizzano l’identità, perché a dare forma e mood a Late Night Feelings ha contribuito in maniera decisiva la fine del matrimonio con l’attrice e modella Joséphine de La Baume.
Ed ecco che dalla devastazione che solo la fine di un amore può provocare è nata una raccolta di “sad bangers”, come li ha definiti il suo creatore: 13 tracce luccicanti di pop, ma dallo spirito tutt’altro che euforico. C’è l’elettronica, ci sono i rimpasti con il country (parla chiaro a questo proposito Nothing Breaks Like A Heart), ci sono le scintillanti influenze della disco, ma di fondo c’è anche un’affascinante malinconia che non permette ai battiti di accelerare più di tanto e tiene i pezzi proprio sul limitare del dancefloor.
Non per niente si chiamano “late night feelings”, emozioni della tarda notte, quelle che si fanno sentire quando le feste sono finite, le luci si sono spente e ci si ritrova nella solitaria intimità da cui non si può sfuggire. Dentro e fuori di metafora.
Per dare voce a questi sentimenti Mark Ronson si è rivolto a un folto gruppo di nomi esclusivamente femminili, coinvolgendo personalità di primo piano come Camila Cabello, Alicia Keys e Miley Cyrus, altre semi-note come Lykke Li, altre ancora quasi per nulla conosciute al grande pubblico come King Princess, YEBBA, interprete gospel qui presente addirittura in tre brani, la rapper The Last Artful, Dodgr, Angel Olsen, Diana Gordon e Ilsey. E per ognuna ha ritagliato uno spazio su misura, definito con precisione dall’occhio esperto del consumato produttore.

Late Night Feelings scivola così sull’arrangiamento disco della titletrack, si molleggia sulla linea di basso e sui falsetti di Knock Knock Konock, si scioglie sul soul di When U Went Away, entra in un ispirato meltin’ pot di funk e urban con Truth, si abbandona alle suggestioni country portate da Nothing Breaks Like A Heart (già che ci siete date una ripassata a Jolene di Dolly Parton) e all’indie pop di True Blue. E dopo questo saliscendi di curve emozionali e declinazioni sonore del dolore, il sipario cala lentamente e dolcemente sull’album tra le note struggenti di 2 AM e tra i sottili riverberi elettronici di Spinning. Mancano giusto gli applausi e il finale sarebbe perfetto.

Quando ci raccontano che anche il dolore un giorno ci sarà utile, forse non hanno poi tutti i torti: Mark Ronson per esempio è riuscito a trarne un album come questo.
Il problema è che non siamo tutti come Mark Ronson, ma questa è un’altra storia.

BITS-RECE: Lady Gaga, Joanne. Se la verità sta sotto un cappello rosa

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Quando ci affezioniamo a un artista, esattamente come succede nella vita con gli amori e le amicizie, non lo facciamo per scelta, ma perché nasce tra noi e il nostro idolo un’invisibile alchimia data da una speciale affinità di intenti e di spirito. Vuoi che sia la sua musica, i messaggi delle sue canzoni, il timbro della sua voce, il suo aspetto o più probabilmente un miscuglio di tutto questo più un ingrediente misterioso, quando prendiamo in simpatia un artista e ne diventiamo “fan” sappiamo di poterci fidare anche ad occhi chiusi e giuriamo a noi stessi di seguirlo ovunque andrà. Come in amore. Capita poi a volte che, per ragioni che probabilmente solo il nostro idolo conosce, lui/lei decida di cambiare strada, imboccare sentieri nuovi, diversi, talvolta molto diversi, da quelli a cui ci aveva abituati: a quel punto che si fa? Gli si va dietro o ci si ferma a riflettere se ne valga la pena?

Un po’ come quando si rivede un carissimo amico dopo un certo tempo e lo si ritrova profondamente cambiato: siamo noi a non averlo mai conosciuto davvero o è lui a porsi ora in una maniera nuova? La sensazione non può che essere di straniante spaesamento.

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Ecco, esattamente questo è ciò che provato ascoltando per la prima volta Joanne: quasi un senso di disagio, come se in quello che stavo sentendo mancasse qualcosa. Le canzoni mi “parlavano”, ma io non capivo, anche se a cantare era Lady Gaga, proprio quella di cui – musicalmente parlando – negli ultimi anni mi sono fidato di più. Perché sì, io di Lady Gaga posso tranquillamente dire di essere fan, pur non avendo mai messo in pratica certe follie che si sentono dire a volte di certi invasati. Sono un suo fan perché seguo tutto quello che fa, perché trovo in lei un punto sicuro, la sento un po’ mia, sento mie molte delle sue canzoni, perché sento che parlano la mia “lingua”. Adesso però, senza neanche avvisare con troppo anticipo, succede che Stefani toglie di mezzo tutti i ghirigori che aveva usato fino a qualche giorno fa e pubblica un album lontanissimo da ciò che è sempre stata. Così lontano, che se non ci fosse il suo profilo in copertina e la voce nei brani non avesse il suo timbro, si crederebbe tranquillamente che sia il disco di qualcun altro. 

Non saprei dire di che genere sia Joanne: non pop, ovviamente non dance, forse a sprazzi rock, e tanto country. Ma voi capite che non è semplice dire che Lady Gaga ha fatto in disco country… Non un disco di pop addobbato di country, ma proprio un album di country e pochi altri accessori addosso! Niente elettropop, niente elettronica in generale, se non forse in Perfect Illusion, che è però il brano musicalmente più distante dal resto: c’è tanta roba acustica, tante chitarre grezze, percussioni nude, bassi secchi e vibranti, ed è davvero, ma davvero difficile capire che si tratta della stessa cantante che nel 2008 esordì con Just Dance e poi fece ballare l’intero globo con Poker Face e Bad Romance

Dopo il rodaggio dei primi singoli, quando uscì The Fame Monster, Lady Gaga sembrava aver aperto una nuova epoca del pop femminile, un pop fatto di schiaffi diretti al pubblico, un pop immerso in un immaginario non per forza luminoso, sorridente e bello, un pop che assimilava elementi che non gli appartenevano e li riproponeva in una nuova, affascinante veste.

Con Joanne tutta questa impalcatura non c’è più: Lady Gaga recupera il country, per giunta nella sua dimensione più intima e nostalgica, e per farlo si è affidata alla produzione del tanto osannato Mark Ronson. Canzoni come la stessa Joanne, Million Reasons, Angel Down e Grigio Girls sembrano uscire dai bauli di qualche sperduta casa nella prateria, dove il vento soffia forte e il cielo è spesso coperto.

Ovviamente non so perché Lady Gaga abbia deciso di muoversi in quella direzione, ma quel che è certo è che – almeno per ora – si è staccata dalla masnada pop delle colleghe e si è rintanata in un cantuccio in disparte.

Probabilmente l’album venderà molto meno dei precedenti, e l’impressione è che sia lei che i suoi discografici ne siano perfettamente consci, eppure questa volta Lady Gaga ha deciso di prendere a schiaffi il pop stesso. Lei che se n’è nutrita in abbondanza, adesso lo mette da parte e si dedica ad altro, sapendolo fare, va detto, perché resta il fatto che questa ragazza ha dalla sua parte un talento che la fa arrivare dove molti altri possono solo immaginare.

Più che giusto domandarsi allora quale fosse la vera Gaga, se quella vestita di fettine di manzo o questa con il cappellone rosa da cowgirl, se quella del pop pestatissimo o questa a cui basta imbracciare una chitarra. Abbiamo sempre capito male noi o è stata lei a farci illudere?

E se da una parte parlo di illusione è perché dall’altra c’è delusione. Delusione per non aver ritrovato l’artista che da fan credevo di conoscere, delusione per non aver ritrovato la musica che volevo ascoltare. Perfect Illusion aveva fatto accendere il campanello d’allarme, adesso Joanne fa scattare la sirena.

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Ma al di là di tutte queste belle chiacchiere, com’è questo benedetto disco? Più bello di come lo pensavo e più brutto di come avrebbe dovuto essere.

La prima metà dell’album la si può tranquillamente tralasciare, ad eccezione della già citata Joanne, una ballata dal testo toccante dedicato alla zia paterna morta di lupus in giovane età: la situazione cambia e si risolleva con sollievo a partire da Million Reasons. Da lì le acque si smuovono e arrivano un po’ di stimoli interessanti, come Sinner’s Prayer e il suo giro di chitarra nerboruto. E poi, dicevo, Angel Down e soprattutto Grigio Girls, a cui senza esitazione consegno la medaglia d’oro. Un pezzo in cui sventola più alta che mai la bandiera del blue mood e che rischia seriamente di spingere fuori qualche lacrima (e poi c’è quel riferimento non troppo velato alle Spice… Colpo basso!). Perché sia finito solo nella deluxe edition, quando merita assolutamente il più ampio ascolto possibile, resta un altro mistero di questo album…

Peccato un po’ per Hey Girl, in duetto con Florence Welch, che si perde senza mordere come avrebbe dovuto.

Prima di ascoltare Joanne dimenticate tutto quello che sapevate (o pensavate di sapere) su Lady Gaga e prendete questo disco come il grande salto di una cantante che non ci ha pensato troppo ad azzardare. Qui dentro Lady Gaga non c’è. C’è una brava artista americana che ha stoffa da vendere, e la vende a chi vuole e come vuole, anche se ci fa corrucciare un po’ troppo la fronte. Se amate il country, forse amerete Joanne, se non lo amate ci dovrete sbattere violentemente il naso contro, ma potreste anche trovarci qualcosa di buono.

Insomma, per farci un bel bagno colorato nel pop, pare che dovremo aspettare il prossimo album di Katy Perry. Sempre che anche lei non abbia intenzione di indossare un cappello rosa.