Ci sono concerti che servono come promemoria, come bigliettini da appiccicare alla parete o segnalibri da puntare tra le pagine per fermare una frase, un momento, un ricordo. Concerti che non sono importanti non solo in quanto eventi, ma perché si presentano come pietre miliari per segnare la strada fatta finora, misurare il peso e la lunghezza degli anni trascorsi.
Con la tournée di Spostato di un secondo, Marco Masini ha fatto incontrare bene tutti i passaggi della sua storia, partendo dagli stimoli elettropop dell’ultimo album per arrivare ai classici degli anni ’90, quelli forse più tormentati e duri, che hanno fatto di lui uno dei più efficaci interpreti della rabbia e della disperazione. A febbraio, in partenza per Sanremo, aveva assicurato che questo tour sarebbe stato dedicato soprattutto ai fan più veraci, quelli della prima ora, e che un buono spazio sarebbe quindi stato lasciato a pezzi un po’ meno prevedibili. Uno in fila all’altro sono così passati in rassegna Ti vorrei, Ci vorrebbe il mare, Malinconoia, Un piccolo Chopin, Cenerentola innamorata, fino ai più recenti Ma quale felicità, Tu non esisti, Spostato di un secondo, Una lettera a chi sarò e la sua rivisitazione di Signor tenente. Spazio ovviamente anche alle immancabili colonne di una discografia di tutto rispetto, da Disperato (solo chitarra e voce, con tanto di video in diretta Facebook) a T’innamorerai, L’uomo volante, Bella stronza e Vaffanculo. Quasi trent’anni di musica ben riassunto in circa due ore.
Sono dell’idea che un concerto ha funzionato davvero bene quando ti fa tornare a casa con la voglia matta di riascoltare le canzoni dell’artista: io il giorno dopo ho ascoltato solo Masini.
L’intera gallery della serata è disponibile a questo link (foto di Luca Marenda).
Stile Ferreri. Un po’ pop, un po’ rock, un po’ elettronico, tutto nella giusta misura. Ecco come si presenta Girotondo, l’album che segna il ritorno in pista di Giusy Ferreri, a quattro anni da L’attesa, se non si considera il successo colossale di Roma-Bangkok e la raccolta Hits. Un album formato da un “cocktail autorale“, come simpaticamente lo definisce la diretta interessata: espressione che rende benissimo l’idea dei nuovi brani, perché se da una parte abbiamo firme come quelle di Roberto Casalino, Dario Faini, Diego Mancino, ma anche Federico Zampaglione (presente anche come ospite in L’amore mi perseguita), Tommaso Paradiso (Occhi lucidi) e Marco Masini (Immaginami), dall’altra ci sono i tappeti sonori di Takagi e Ketra (quelli di Roma-Bangkok), Diego Calvetti, Gianluca Chiaravalli, dello stesso Faini, elementi mischiati tra loro in cerca di soluzioni nuove, atmosfere fresche, danzerecce, magari vagamente latine, a sostenere parole che talvolta volano alte, testi che tratteggiano momenti di poesia, intimi o aspri, anche inattesi.
Come nel caso di Il mondo non lo sa più fare – penso il migliore di tutto l’album: Che quest’epoca inizi / perché comincia la musica/ e sulle schiene ci crescano le ali. O nel caso del pezzo che dà il titolo al disco, una riflessione sulla vita, o ancora della conclusiva La gigantessa, ispirata al componimento di Baudelaire, dove si parla di un infinito novecento / delle nostre meraviglie / nei risvegli tra la gente / mentre mastichi il mio cuore. Un elettropoprock – mi piace definirlo così – fatto di momenti intimi, tanto amore, e qualche graffio sanguigno. Un cocktail di autori e di atmosfere preparato con attenzione in un costante lavoro di gruppo, e che oggi più che mai definisce quello che in futuro potrebbe davvero essere lo “stile Ferreri“, una cifra stilistica personale e inconfondibile, anche per la presenza di quel timbro “ingombrante” (lo definisce così proprio lei) che ha fatto di Giusy una delle più riconoscibili interpreti arrivate dall’universo-talent. Se mai ci fosse qualcuno che ancora oggi, nove anni dopo la sua partecipazione a X Factor, si ostinasse a definirla la “Amy Winehouse italiana”, nei nuovi brani avrebbe ampio materiale per cui ricredersi. Qui c’è solo Giusy.
Legato all’uscita del nuovo disco c’è poi il capitolo di Sanremo, ancora fresco di chiusura: un’edizione non troppo fortunata per la Ferreri, subito eliminata con Fa talmente male. Ma lei non sembra farne un grande dramma, semmai si rivela più stupita: “Sanremo per me è stata ogni volta l’occasione per propormi in una veste nuova. Nel 2011 ho presentato la svolta rock, nel 2013 con Ti porto scena con me avevo invece un pezzo poetico e più emozionale. Stavolta pensavo di andare sul sicuro con un brano che considero un po’ il fratello gemello di Novembre e Volevo te per i suoi elementi di elettronica. Forse su quel palco l’anima della canzone non è uscita fino in fondo: riascoltando le registrazioni ho sentito che veniva fuori soprattuto la parte orchestrale, e poi mancavano le voci dei controcanti, mentre io nell’interpretarlo mantenevo l’intenzione che la canzone aveva in studio”. E in effetti, riascoltandola oggi, senza la frenesia festivaliera, Fatalmente male svela un’anima molto più decisa di quanto non sia emerso durante il Festival. Ma poco importa davvero: “Ho passato così tanto tempo a non essere compresa in quello che facevo che l’eliminazione non mi ha toccato più di tanto”. Sul palco, confessa, si sentiva un po’ il fiato corto, ogni tanto aveva delle vampate strane di calore, e sapeva bene il perché: proprio poco prima del Festival ha scoperto di essere incinta.
Mumble mumble….Terza serata del Festival, giro di boa e primi sentori di eccitazioni da vittoria. Partendo sempre dai giovani, Lele e Maldestro (quest’ultimo un po’ carente in intonazione) passano il turno, lasciando a casa Valeria Farinacci e Tommaso Pini (quest’ultimo un po’ a sorpresa). Stasera quindi a giocarsi la finale saranno quattro gentleman: Francesco Guasti, Leonardo Lamacchia e i suddetti Lele e Maldestro.
Venendo alle cover, come gli altri anni la carrellata è stata a forte rischio sonnolenza, soprattutto perché non tutti se la sono sentita di rischiare con il brano e con il nuovo arrangiamento. Tra i pochi, Ermal Meta, che si è preso la meritata vittoria: la sua versione di Amara terra mia, oltre a essere stata interpretata magnificamente, è la prova chiarissima che il ragazzo sa bene quel che fa. Un autore bravissimo, che scrive con anima, e un interprete di robusta personalità. Buona prova anche per Masini con il suo tributo a Faletti, anche se a tratti pareva non riuscire a stare dietro al tempo, e di Paola Turci, che ha scelto di rimettere mano a un classico e della Oxa come Un’emozione da poco. Sul resto c’è stata fondamentalmente calma piatta: Elodie avrebbe potuto far molto di meglio con il pezzo di Cocciante, soprattutto negli arrangiamenti e nell’intensità dell’interpretazione; Chiara ha fatto il temino scolastico con Diamante di Zucchero; la Mannoia ha fatto la Mannoia con Sempre e per sempre e Samuel ha fatto Samuel con Ho difeso il mio amore. Qualche problema tecnico ha invece rovinato la festa di Sergio e i Soul System, mandando fuori tempo l’esecuzione di un pezzo –Vorrei la pelle nera – dove il groove era centrale. Non abbiamo purtroppo potuto ascoltare la versione di Ma il cielo è sempre più blu che avevano preparato Nesli e Alice Paba, e che avrebbe sicuramente riservato entusiasmi.
E a proposito di Nesli e Alice, è evidente che le coppie create a uso e consumo sanremese non funzionano, dato che sia loro sia Raige e Giulia Luzi sono i primi due esclusi definitivi. Il gioco per cui prendi due artisti e le metti insieme sul palco pensando di sommare i voti delle rispettive fanbase e quindi di avere vittoria facile non regge. Nel caso di Nesli, lui già quest’estate parlava di Sanremo, ma il presentimento è che i suoi progetti fossero un po’ diversi, con l’idea di presentarsi da solo, ma che si sia poi trovato a doversi accollare la Paba per ordine giunto dall’alto. Il che non ha però giovato al brano e non mi stupirei se i pensieri di Nesli si siano fatti scurissimi al momento del verdetto. Rientrano quindi in gara Ferreri, Ron, Atzei e Clementino.
Seconda puntata del Festival e anche stavolta mi sono perso la diretta, dovendo riguardarmi le esibizioni sul web in scaletta personalizzata (per fortuna che c’è Rai Play!). Se la prima serata era stata generalmente dentro le previsioni senza riservare colpi di testa, per la seconda puntata non si può dire altrettanto. Partendo dai giovani, la prima grande batosta di quest’anno è arrivata con l’eliminazione di Marianne Mirage, che con Le canzoni fanno male vedevo già proiettata sul podio dei vincitori. Peccato davvero, evidentemente qualcosa non è arrivato nel modo giusto. Peccato anche per Braschi, che con Nel mare ci sono i coccodrilli aveva tra le mani un pezzo dalla storia molto particolare.
Felicissimo invece per Francesco Guasti, dritto in finale insieme a Leonardo Lamacchia.
Stasera sapremo i nomi degli altri due.
Tra i big, non c’è dubbio che il gran mattatore della serata sia stato il mascalzone Gabbani: la sua Occidentali’s Karma è esattamente l’uragano che il Festival aspettava, e che potrebbe insediare il podio dei superfavoritissimi Mannoia e Meta. Un pezzo freschissimo, apparentemente leggero e costruito su un testo da lucido osservatore della realtà. Gran bella prova di Paola Turci, corazzata da soldatessa. Non male Masini, molto toccante Bravi (ma la voce dov’è??), Sergione Sylvestre ha tirato fuori tutto il suo soul in un pezzo che forse richiama un tantino troppo Giorgia, che ne è poi davvero una degli autori. Però caspiterina, che voce!
Non ho invece capito cosa è successo al brano di Nesli e Alice Paba, Do retta a te: la canzone non è brutta, e nella versione studio sembra funzionare, ma l’impressione è che sia la coppia a non funzionare dal vivo. E purtroppo, mi tocca ammettere che tra i due quello un po’ più deboluccio è stato proprio Nesli, vocalmente schiacciato dalla collega. Possiamo poi stare qui a chiederci sul perché abbiano deciso di presentarsi in coppia, ma credo sia meglio non indagare…. Peccato comunque, perché la loro eliminazione impedirà di ascoltare la potentissima versione di Ma il cielo è sempre più blu che avevano preparato per stasera. Delusione per Chiara, dopo che nel 2015 mi aveva fatto volare con Straordinario: l’intervento di Mauro Pagani nello spogliare all’essenziale i suoni ha reso solo noioso un pezzo che forse -forse – poteva avere qualche palpito vitale in più con un diverso arrangiamento.
Tra le sorprese, confesso che la Atzei ha portato nel suo pezzo, Ora esisti solo tu, qualcosa di curioso, con quei dettagli così folkloristici in un brano che non è davvero male, nonostante la firma di Kekko. Resta il fatto che la sua presenza resta un mistero, e la sua eliminazione non mi ha preso alla sprovvista. Insomma, dopo il primo ascolto di tutti i brani, il giudizio complessivo è di un festival di livello medio, senza troppe brutture, ma anche senza punte di eccellenza. Tolto Gabbani e forse un altro paio di canzoni (Meta, Mannoia), non si sono ascoltate grandi meraviglie. Da oggi liberi tutti in radio e nei download, dove parte la nuova sfida.
“Questo album è un po’ la punta di un iceberg e di un progetto partito alcuni anni fa e che considero come la ricerca di un’utopia: quando si arriva alla soglia dei cinquant’anni si inizia pensare come si sarebbe vissuto, a come sarebbero stati gli eventi della vita se ci fosse stata la possibilità di cambiarli, di tornare indietro anche solo di un secondo per modificarli. In questa ricerca utopistica ho voluto inserire anche una ricerca musicale usando molta elettronica per parlare d’amore, di pace, di guerra o di vita. D’altronde, a partire dagli Human League in poi, tutti abbiamo voluto provare a cimentarci con i sintetizzatori: musicalmente io appartengo a quel periodo, con i Genesis, i Pink Floyd, un periodo di grande sperimentazione”. In effetti, ad ascoltare il nuovo lavoro di Marco Masini, che uscirà il 10 febbraio e si intitola proprio come il brano in gara a Sanremo, Spostato di un secondo, la prima cosa che colpisce sono i potenti utilizzi di elettronica che riempiono molte delle nuove canzoni e che per l’artista toscano rappresentano una grande novità, a partire per esempio da Ma quale felicità, il bellissimo pezzo d’apertura. Per Masini quella a Sanremo 2017 sarà l’ottava partecipazione: nel 1990 si aggiudicò il primo posto tra i giovani con Disperato, per arrivare alla vittoria nel 2004 con L’uomo volante. Oggi, dopo più di 25 anni di carriera, quello che sale sul palco dell’Ariston è un cantautore con tante consapevolezze in più, che si riflettono nitide in tutti i brani del nuovo album: “Il disco è il risultato di un lavoro di anni, frutto della collaborazione di tante persone, da Zibba a Luca Carboni, Diego Calvetti, Vicio dei Subsonica. Rappresenta quello che sono oggi, quello che sono diventato: c’è tanto elettropop, ma ci sono anche momenti acustici, più legati a quello che sono stato in passato, come in Una lettera a chi sarò, dove volevo un’atmosfera più intima”.
Quali sono state le tappe più importanti che ti hanno portato a essere quello che sei oggi? Sono state tutti i giorni che ho vissuto: la vita per me comincia sempre oggi, non sono mai stato un nostalgico, non sono mai andato dietro ai rimpianti e ai rimorsi. Non ho mai voluto fare del vittimismo, tranne quando ho denunciato un problema discografico che mi impediva di fare il mio lavoro. Sono convinto che il male non ce lo fanno gli altri, ma noi stessi, non facendo buon uso delle nostre scelte: poter arrivare un secondo prima ci permette di scegliere meglio. Sono stato formato da tutto quello che mi è capitato, dal caffè preso alla mattina con Bigazzi agli amori. La vita è tutto, nel bene e nel male, ed è bella così. Il modo di vivere Sanremo cambia nel tempo? Non cambia il lavoro che fai, perché Sanremo non è solo il momento in cui sei sul palco a cantare, ma è tutto il lavoro che ci sta prima e durante. Ma Sanremo per me è anche come uno sparo allo start, un modo per dare una scadenza, altrimenti non smetteresti ma di mettere in discussione quello che scrivi. Poi è un modo per avere nuovi stimoli perché ti trovi in competizione con i ragazzi dei talent e capisci se il tuo pensiero e il tuo vissuto possono essere condivisi anche con un’altra generazione. E’ una sfida prima di tutto con te stesso. Per la serata dedicata alle cover hai scelto Signor tenente di Faletti: ha un significato speciale? E’ una canzone che ha avuto un grande successo non subito, ma che poi non è stata più ricantata, non la si ascolta in radio, al karaoke o al pianobar, ed è un’ingiustizia. La serata delle cover è un’occasione per riscoprire brani che non si sentono spesso: avrei potuto giocare facile scegliendo per esempio Margherita di Cocciante, adatta anche alla mia voce, ma volevo ricordare anche un amico. Giorgio mi ha insegnato tanto, abbiamo musicato insieme un suo testo. Era geniale, imprevedibile, lo si vede anche nei suoi libri. Sapeva far ridere in Drive In e ha pubblicato un thriller come Io uccido. Questo lo sanno fare solo i grandi. Nel disco sembra emergere un po’ di disagio per i nostri tempi. E’ evidente che attorno si respira un disagio generale, stiamo vivendo momenti sconcertanti. Senza arrivare a Trump, abbiamo paura ad andare in discoteca perché qualcuno potrebbe entrare con il mitra. Sembra prevalere l’istinto animale, il predominio, il potere, un mondo dove ci si lamenta del terrorismo e poi si finanziano i terroristi. Nell’album c’è questa ammissione, ma c’è anche la consapevolezza che non serve più la rabbia, la vendetta, il “vaffanculo”: il mondo è bugiardo, nasconde lo sporco sotto i tappeti, e quello di cui avremmo bisogno è un uomo che raccontasse la verità con voce calma.
In Una lettera a chi sarò ho trovato interessante la definizione della vita “che sembra seria”. Ma se non è davvero seria, come la definiresti? La vita è in continua evoluzione, non c’è un aggettivo che la definisca al meglio, altrimenti l’avrei usato. E’ la speranza che la fa apparire seria: tu la immagini in un certo modo, vera, pensi di averla in mano, ma spesso è così perché sbagliamo scelta, poi abbiamo il giorno seguente per riprovare. La vita ti dà continue occasioni, ti provoca. Per usare una metafora sessuale, la vita ti eccita, ma non te la da. Ed è proprio questa la sua apparente serietà: da una parte è vera, dall’altra ipocrita, non riesci mai a coglierla nella vera essenza. Hai sempre intenzione di portare avanti anche l’attività di produttore per i giovani musicisti? Sto lavorando per allestire uno studio di registrazione a casa: spero che sia pronto prima dell’estate. Ho già un paio di progetti a cui vorrei dedicarmi. Grazie a Diego Calvetti e Lapo Consortini ho imparato un nuovo modo di lavorare sulla musica e penso di avere l’esperienza per dare consigli ad altri. Ad aprile partirà un nuovo tour. Ci stai già pensando? Canterò alcune canzoni del nuovo disco e poi ci saranno i pezzi più importanti della mia carriera. Sto pensando anche a dei medley per proporre alcune cose che magari una parte del pubblico non conosce e che invece ama chi mi ha sempre seguito in questi anni. E’ un modo per ringraziare i fan che mi sono stati vicini anche nei momenti difficili in cui non riuscivo a scrivere. Non sarà facile mettere insieme tutto, ma ho già qualche idea sugli arrangiamenti: porterò un po’ di elettronica, pensando a come sarebbero stati quei brani se all’epoca li avessi fatti con gli strumenti elettronici, senza però cambiare troppo l’atmosfera.