Sicuramente ha già deciso la scaletta, probabilmente ha già scelto gli abiti e forse ha anche già imparato a memoria le coreografie: fra poche settimane Lady Gaga ha un impegno, penso di poter dire il più importante della sua vita, almeno fino a oggi.
Domenica 5 febbraio infatti sarà lei la protagonista dell’Haltime Show alla cinquantunesima edizione del Super Bowl, la finale del campionato di football americano, ovvero il più atteso evento mediatico per gli Stati Uniti, che quest’anno si svolgerà all’NRG Stadium di Houston: un evento che ogni volta raccoglie davanti al televisore almeno 100 milioni di telespettatori sparsi per il mondo.L’Halftime Show è un vero e proprio miniconcerto di un quarto d’ora scarso che riempie l’intervallo tra i due tempi della partita, e la popstar ci sta lavorando almeno da settembre, quando la sua presenza è stata ufficializzata.
Una tappa che ha segnato la carriera dei nomi più mastodontici della musica mondiale, da Michael Jackson a sua sorella a Janet (vi ricordate lo scandalo del capezzolo nel 2004?), passando per Diana Ross, Shania Twain, i Black Eyed Peas, Paul McCartney, Prince, Bruce Springsteen, Madonna, Beyoncé, Katy Perry, fino ai Coldplay e Bruno Mars, protagonisti dell’ultima edizione.
Per Gaga la partecipazione al Super Bowl 2017 non sarà però la prima: proprio l’anno scorso era infatti stata affidata a lei l’apertura dell’incontro con l’inno americano. Una responsabilità che in passato ha visto scivolare grandi artisti in esibizioni non esattamente memorabili (vi ricordate Christina Aguilera?), ma a cui Lady Gaga è andata incontro brillantemente: fasciata in un completo rosso metallizzato, la Germanotta ha offerto una performance barocca (e forse un po’ troppo enfatica) di The Star-Spangled Banner, accolta da unanime entusiasmo. Pare sia stato proprio il successo di quell’esibizione ad aver convinto gli organizzatori a scegliere lei per l’Halftime Show 2017.
Ma il 2016 si era già aperto per la cantante nel migliore dei modi, con la vittoria ai Golden Globe come miglior attrice in una serie televisiva per la sua interpretazione in American Horror Story: Hotel nel ruolo della Contessa. Per Stefani Germanotta non si trattava della prima esperienza davanti alla macchina da presa, ma era la prima volta che veniva nominata per un premio così prestigioso.
Neanche una settimana dopo l’esibizione sul campo del Super Bowl con l’inno americano, Gaga è poi salita sul palco dei Grammy, dove era attesa per rendere omaggio a David Bowie. Realizzata in collaborazione con la Intel – azienda specializzata in dispositivi elettronici -, la sua è stata un’esibizione decisamente scenografica, in cui lo stile “gaghesco” ha preso sotto braccio il mondo del Duca Bianco, in un incontro di musica e tecnologia.
A fine febbraio è stata invece la volta degli Oscar, dove Gaga si è lasciata sfuggire il premio per la miglior canzone originale (Til It Happens To You, presente nella colonna sonora del documentario The Hunting Ground), lasciando comunque il segno con una toccante performance: vestita di bianco, seduta al pianoforte, la cantante è stata raggiunta sul finale da cinquanta ragazzi vittime di abusi sessuali.
Il 2016 infuocato di Lady Gaga è proseguito poi con l’onore che le ha riservato il patinatissimo V Magazine, per il quale Gaga è stata direttrice nell’intera issue primaverile: per l’occasione, la rivista è uscita in edicola con ben 16 differenti copertine, record mai raggiunto prima. All’interno, servizi fotografici firmati tra gli altri da Steven Klein, Terry Richardson e Nick Knight.
A maggio la popstar ha raccolto l’invito della superdirettrice di Vogue Anna Wintour e non si è fatta mancare la scintillante sfilata sul tappeto rosso del Met Gala, l’evento modaiolo che richiama ogni anno al Metropolitan di New York il gotha del mondo dello spettacolo: richiamandosi al tema della serata, incentrato sulla moda nell’era della tecnologia, Gaga ha sfoggiato un abito di Versace ispirato alle componenti elettroniche .
Con l’arrivo dell’estate, l’attenzione si è pian piano concentrata sull’attesissimo ritorno discografico, del quale si sono via via svelati i dettagli: ad aprire le danze è stato a inizio settembre il singolo Perfect Illusion (che forse non ha avuto i risultati sperati), mentre il nuovo album è arrivato il 21 ottobre. Il titolo, Joanne, è un omaggio alla zia, sorella del padre, morta in giovane età: con questo nuovo disco abbiamo assistito a un deciso cambiamento di rotta nel percorso musicale di Gaga, che ha messo un po’ da parte il pop, la dance e l’elettronica dei lavori precedenti per abbracciare più intime atmosfere acustiche, di chiara influenza country. La risposta del pubblico non si è comunque fatta attendere e per la quarta volta consecutiva un album di Lady Gaga ha debuttato al primo posto della classifica americana.
Per far prendere confidenza con il nuovo album, già all’inizio di ottobre Gaga aveva dato il via al Dive Bar Tour, una tranche di tre concerti ambientati in altrettanti bar a Nashville, New York e Los Angeles. Tra le attività promozionali legate al disco non si possono inoltre non citare la partecipazione al Carpool Karaoke di James Corden, divenuto nell’ultimo anno uno degli appuntamenti della TV americana più seguiti, e l’esibizione ai Billboard Awards con il singolo Million Reasons.
Dopo un 2016 a dir poco intenso, da alcune settimane tutto l’impegno di Lady Gaga è dedicato alla preparazione dello show del Super Bowl.
Al momento però ogni dettaglio su ciò che farà è celato dietro una cortina di mistero, salvo per qualche foto, da cui però non si deduce granché.
Provando a fantasticare, ho pensato a quale spettacolo mi piacerebbe vedere sul campo dello stadio di Houston, e questa è la scaletta del mio ideale Halftime Show targato Gaga:
Just Dance
Born This Way/Express Yourself (featuring Madonna)
Bad Romance
Poker Face
Telephone (featuring Beyoncé)
Million Reasons
You And I (featuring Lady Antebellum)
The Edge Of Glory.
Quanto questa fanta-scaletta è esatta lo si scoprirà il 5 febbraio. Nel frattempo l’attesa cresce e i preparativi fervono….
Babywoman, ovvero quando Naomi Campbell ha fatto un disco
Forse non tutti, e i più piccolini in particolare, se lo ricordano, ma tra una falcata in passerella e una sfuriata capricciosa, Naomi Campbell ha trovato pure il tempo di fare un disco.
Ebbene sì, la Venere Nera ha lasciato la sua zampata anche nel mondo della musica. Stiamo parlando di parecchi anni fa, nello specifico del 1994: era il periodo delle super top, quelle create da Versace, Armani e Ferrè, quelle che poi sarebbero rimaste nella memoria anche dopo aver smesso di calcare il catwalk. Claudia, Cindy, Linda, Carla, Christy e, appunto, Naomi.
È stato proprio all’apice di questo periodo d’oro che la Campbell si è lasciata sedurre dalle lusinghe della musica e ha pubblicato Babywoman, primo -e per ora unico – album della sua carriera.
Se però state già sbuffando e alzando gli occhi al cielo pensando che si tratti del solito progetto riempitivo per battere cassa, sappiate che vi state sbagliando: per realizzare questo album Naomi sembra averci messo davvero il cuore e una buona dose di impegno. Naturalmente, all’epoca le sue canzoni sono state velocemente liquidate con giudizi per lo più sprezzanti, forse dettati più da pregiudizi che non da un vero ascolto, e i risultati di vendita certo non brillarono: solo il Giappone si dimostrò interessato ad ascoltare la Naomi in versione di cantante, per il resto Babywoman ha dovuto accontentarsi delle briciole, riuscendo comunque a raggranellare un milioncino di copie vendute complessivamente nel mondo.
Riascoltandolo oggi, l’album si porta addosso i segni del tempo, immerso com’è in quella particolarissima commistione di pop e r’n’b che ha trovato il suo culmine proprio nel cuore degli anni ’90. Sonorità eleganti e a luci soffuse, che hanno marchiato anche alcuni album di superstar come Madonna (penso in particolare ad Erotica e Bedtime Stories) e Janet Jackson, che probabilmente hanno contribuito non poco a dare ispirazione al disco di Naomi.
Un pop che non ha proprio nulla da invidiare a certi prodotti odierni, magari di maggiore successo e oggetto di più lusinghiere recensioni. Eppure Naomi aveva fatto le cose per bene, fin dal primo, stupendo singolo Love & Tears, con le sue atmosfere al profumo d’incenso e i richiami all’Oriente, poi con la spinta dance di I Want To Live, secondo estratto. Ma in generale tutti i 10 brani (l’undicesimo è una reprise di I Want To Live) trovano una loro piacevole ragione di esistere: c’è tanta bella melodia che pervade l’intero album, tra ballate sontuose (When I Think About Love è di un candore commovente) e pezzi più movimentati, e la voce della Campbell, che pure di lavoro non fa la cantante, sa farsi molto apprezzare con il suo timbro felpato e sporco al punto giusto. Ciò che inoltre stupisce, e che conferma però l’intenzione di Naomi di fare un disco davvero pensato, è la presenza di alcune cover inaspettate. Mi riferisco in particolare a Ride A White Swan, un pezzo glam rock dei T. Rex datato 1970 e qui riproposto in versione decisivamente ingentilita,e poi Life Of Leisure dei Luscious Jackson; ma ci sono anche la super ballatona All Through The Night, remake di un brano di Donna Summer, e la splendente Sunshine On A Rainy Day dell’inglese Zoë.
Insomma, nonostante abbia lasciato dietro di sé una traccia piuttosto appannata e sia oggi confinato solo negli scaffali dei collezionisti, Babywoman è tutt’altro che un album di second’ordine, anche perché -ultima nota di prestigio – alla produzione sono stati chiamati personaggi del calibro di Gavin Friday (fondatore dei Virgin Prunes, ricordate?), Tim Simeon, Youth e Bruce Roberts, gente che tra gli anni ’80 e ’90 maneggiava i dischi dei grandissimi.
Purtroppo, ha dovuto scontare il pegno di essere il frutto musicale di una modella.
All I Want For Christmas Is…. James Corden!
Che Dio benedica James Corden!
Quest’anno il suo Carpool Karaoke ha portato una deliziosa ventata d’aria fresca diventando un vero fenomeno del web, oltre che un successo in televisione: da Adele a Justin Bieber, Jennifer Lopez, Gwen Stefani, Chris Martin, Elton John, Lady Gaga, Madonna e Bruno Mars, tutti hanno voluto concedersi un quarto d’ora in macchina con lui, tra chiacchiere spassosissime ed episodi di karaoke più o meno sgangherati.
Per ringraziare il pubblico dell’affetto dimostrato in questi mesi, è stata realizzata una puntata speciale del Carpool Karaoke, che vede protagoniste molte delle star che quest’anno hanno preso parte al gioco alle prese con la celeberrima All I Want For Christmas Is You, ormai diventata l’inno assoluto delle feste.
E ad aprire le danze, o meglio i canti, non poteva che essere lei, Mariah Carey!
Babbo Natale, se ancora non sai cosa portarmi, fammi trovare sotto l’albero James Corden con la sua auto: sarà un Natale fantastico!!
Strike A Pose: tra Madonna e la vita
“Give Me More Of You”, “Dammi più di te stesso”.
Pare che Madonna lo dicesse spesso ai suoi ballerini durante il tour. Voleva che da loro emergesse qualcosa che andasse al di là dell’aspetto tecnico e della bravura, voleva il lato umano, o meglio, l’espressione della personalità. “Express Yourself”, “Esprimi te stesso”, come recita un altro celeberrimo mantra che gira attorno all’universo della Ciccone. Un comandamento che pronunciato oggi, nell’anno del Signore 2016, ha un forte significato, ma che nel 1990 era ben più difficile da mettere in pratica, soprattutto se eri gay. Già, perché Madonna i suoi ballerini li sceglieva volontariamente gay, pescandoli tra i migliori in circolazione, certo, ma dovevano essere omosessuali. Tutti, tranne uno.
Proprio attorno alle storie dei sette ballerini si muove Strike A Pose, il documentario di Ester Gould e Reijer Zwaan che racconta con gli occhi di questi ragazzi il tour e i suoi retroscena, e soprattutto quello che è successo negli anni successivi.
Un tour che non era semplicemente una qualsiasi serie di concerti, bensì il Blond Ambition Tour di Madonna, vale a dire la tournée che più di tutte ha imposto un modo diverso di fare concerti alle star del pop, e quei sette ragazzi sono stati forse i ballerini più famosi al seguito di una popstar.
Il titolo, Strike A Pose, anche questo entrato nell’enciclopedia delle epigrafi “cicconiche”, è ripreso da Vogue, il singolo del 1990 accompagnato dal video forse più iconico di Madonna, ricco di citazioni cinematografiche e soprattutto zeppo di voguing, il particolare ballo di moda nell’underground omosessuale di New York in quel periodo, che tanto piacque alla cantante al punto che due dei ballerini furono assoldati proprio per la loro abilità nell’eseguirne le mosse.
Programmato dopo pochi mesi dall’uscita di Vogue, il tour fece molto discutere per i toni accesi, tra molteplici riferimenti al sesso e alla religione (tanto per dire, a Toronto Madonna rischiò addirittura l’arresto per la performance di Like A Virgin in cui simulava una scena di masturbazione). Ma il Blond Ambition non fu solo il tour più rivoluzionario di Madonna, ma anche l’occasione per schiaffare sulla faccia dell’America puritana (e del resto del globo) tematiche all’epoca off limits come l’omosessualità, l’HIV e l’uso del preservativo.
Legato al tour fu poi Truth Or Dare, arrivato in Italia con il titolo di A letto con Madonna, il documentario che raccontava i retroscena dei mesi vissuti in lungo e in largo per i concerti: protagonisti, Madonna e loro, i suoi sette ballerini, i suoi “figli”, come la Ciccone li chiamava. Con loro parlava, con loro mangiava, con loro passava del tempo tra giochi e frivolezze (la scena del bacio gay è forse la più nota e chiacchierata), raccontava se stessa e faceva raccontare a loro la favola di chi era arrivato sulla vetta del mondo pur essendo gay, in un mondo che in quegli anni non era ancora tanto disposto ad ascoltare. Ha fatto scuola quel documentario, uno dei più visti di sempre, e proprio da qui Gould e Zwaan sono partiti per narrare un’altra storia, molto meno frivola e patinata.
Perché va bene la musica, vanno bene le provocazioni, ma poi la vita “si mette in mezzo”, anche quando non è invitata e ci si devono fare i conti assieme.
Sia chiaro però: in Strike A Pose non c’è – se non in minima parte – quello scontato senso di nostalgia del passato che ci si potrebbe attendere. 26 anni dopo l’esperienza unica del Blond Ambition, i ballerini di Madonna sono diventati uomini e hanno messo in fila anni e consapevolezze. Sono cresciuti e sono andati oltre, sono sopravvissuti, tutti tranne uno, Gabriel Sue, portato via dall’HIV nel 1995 a 26 anni.
Già, l’AIDS, la grande bestia nera di chi era giovane tra gli anni ’80 e ’90 e che in questo documentario diventa uno dei grandi protagonisti. “I miei amici cadevano come mosche”, dice uno dei ballerini.
E mentre nelle strade la comunità gay iniziava a scendere in piazza a far sentire la propria voce, Madonna dal palco invitava il suo pubblico al sesso sicuro e a non nascondere nulla, HIV compreso. Ma poi, si diceva, la vita si è voluta mettere in mezzo, a volte a caro prezzo.
Oggi i leggendari ballerini del Blond Ambition sono uomini che si sono costruiti la propria vita, chi continuando con la danza, chi facendo serenamente tutt’altro, ma tutti hanno di quel periodo un ricordo sereno. Nel film entriamo nelle case e nelle vite di Luis, Oliver, Salim, Jose, Kevin e Carlton, conosciamo la madre di Gabriel, e ascoltiamo il racconto di sette vite lontane da ogni possibile immaginazione.
26 anni fa erano ballerini, oggi sono prima di tutto persone, che dopo l’incontro con Madonna hanno visto passarsi davanti molto altro. Nessun bisogno di rivalsa, pochissima nostalgia dei riflettori, ma tanta, tantissima vita da portarsi addosso.
Una vita che forse – o probabilmente – non sarebbe stata così, nelle sue gioie e tragedie, se un giorno di 26 anni fa Madonna non li avesse scelti tra le decine di aspiranti per dar vita a uno dei più grandi spettacoli che la storia del pop possa elencare.
Quello che ormai tutti hanno capito è che il Blond Ambition non sarebbe stato possibile senza l’anima di Madonna.
Quello che invece dovremmo provare a chiederci è come sarebbe stato il tour se sul palco con lei non ci fossero stati quei sette ragazzi.
Strike A Pose sarà al cinema solo per due giorni, il 5 e 6 dicembre (elenco delle sale su www.nexodigital.it)
Malika Ayane arriva in teatro nelle vesti di Evita
Per la sua prima volta in un musical, Malika Ayane veste i panni controversi di Evita. “Sono tornata a scuola. Dopo aver letto la partitura mi sono resa conto della complessità: non ci sono accordi che aiutano, nessun momento in cui potersi sedere con la voce. La sfida è stata è stata anche quella di uscire da me, abbandonare certe posture, certi atteggiamenti fisici”, ha dichiarato la protagonista.
Alla regia di Evita, un nome di assoluta statura come quello di Massimo Romeo Piparo: “Non avevo pensato questo spettacolo per l’Italia, ma lo immaginavo in inglese per l’estero. Malika è stato uno dei motivi che m hanno convinto a farlo qui da noi, in italiano. Serviva una voce riconoscibile ad occhi chiusi e piena di carattere personale. Dopo le date in Italia, l’intenzione è comunque quella di portarlo fuori, in inglese”.
Dopo averlo rappresentato due volte in lingua originale, il regista ha deciso di realizzare l’adattamento in italiano di tutte le canzoni composte da Tim Rice (su musica di Andrew Lloyd Webber), compresa Stai qui, sii mio, trasposizione italiana di You Must Love Me, il brano interpretato da Madonna nella versione cinematografica del musical del 1996. “Il film di Alan Paker ha dato un nuovo corso al personaggio di Evita. Riscrivendo il musical in italiano, credo di esser riuscito a spiegare tante cose entrando più a fondo nel racconto, senza nulla togliere alle liriche di Tim Rice”.
Ma chi era veramente Evita Duarte Peròn? “E’ stata una figura così complessa, ha fatto così tanto che forse solo chi andava tutte le sere a letto con le poteva dire chi fosse davvero”, commenta Malika.
Il personaggio del Che, interpretato da Filippo Strocchi, sarà personaggio e voce narrante e non avrà barba e basco: richiamerà un po’ il Banderas del film, ma anche Shakespeare e i cori greci.
La storia non l’ha mai fatto incontrare con Evita: si sono “incrociati” senza conoscersi quando Evita stava per morire e Che Guevara stava per portare la sua rivoluzione.
In scena anche un’orchestra diretta da Emanuele Friello, in parte in buca e in sul palco, fino ad avere più di 40 artisti presenti il palcoscenico in certi momenti: di città in città, saranno inoltre coinvolte scuole locali (per Milano, la Scuola di Musica Cluster).
Dopo le anteprime a Bari dal 4 al 6 novembre, Evita inaugura la stagione del Teatro della Luna, debuttando il 9 novembre e restando in scena fino al 27.
Poi toccherà Genova, Firenze, Roma e Trieste, fino a gennaio 2017.
Date:
9-27 novembre 2016 – ASSAGO (MILANO)
TEATRO DELLA LUNA
29 novembre – 4 dicembre 2016 – GENOVA
POLITEAMA GENOVESE
6-11 dicembre 2016 – FIRENZE
TEATRO VERDI
dal 14 dicembre 2016 – ROMA
TEATRO SISTINA
18-22 gennaio 2017 – TRIESTE
POLITEAMA ROSSETTI
BITS-RECE: Leonard Cohen, You Want It Darker. Magistrale solennità
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Quando un artista taglia il traguardo di una certa età e dà alle stampe la sua nuova opera, c’è una generale tendenza ad accogliere il lavoro con un po’ di leggerezza: è una tendenza non scritta, tacita, ma largamente diffusa.
Non è ben chiaro quale sia questo limite tra la giovinezza è la vecchiaia dell’arte, ma c’è, ammettiamolo. Si è un po’ generalmente convinti (troppo spesso a torto!) che i colpi migliori di una vita dedicata all’arte debbano arrivare entro una certa data, poi inevitabilmente, quasi per un fatto fisiologico, tutto quello che si fa è mediocre, scadente, comunque non degno di troppe attenzioni. È un fenomeno di cui si sta recentemente rendendo conto Madonna, che di primavere ne ha alle spalle 58: nonostante il suo ultimo Rebel Heart sia migliore di altri suoi dischi pubblicati anni addietro, è stata lei stessa ad accorgersi di essere vittima dell'”ageismo”, la discriminazione dell’età.
Giusto dare spazio ai giovani, sacrosanto, ma non si può nemmeno arrivare all’opposto di fare dei dati anagrafici un termometro della qualità di un prodotto artistico. La musica è stata, è e sarà piena di esempi di album meravigliosi pubblicati da artisti nel – diciamo così – autunno della loro esistenza.
E se di discriminazione anagrafica ha iniziato a soffrire Madonna, figuriamoci in che situazione potrebbe trovarsi Leonard Cohen, che ha pubblicato il quattordicesimo album nel suo ottantaduesimo compleanno.
Parliamoci chiaramente, anche se Cohen è uno di quei nomi davanti a cui le gambe dovrebbero iniziare a tremare, non c’è dubbio che per il mondo lui resterà quasi esclusivamente “quello di Hallelujah“, sempre che non la si voglia attribuire forzatamente a Jeff Buckey. La realtà è che la carriera di Cohen è stata fonte di ispirazione per una quantità incommensurabile di musicisti, ha posto una pietra miliare nella storia della musica per i suoi testi, le sue poesie, ben al di là di quelle gemma che porta il nome di Hallelujah.
You Want It Darker, questo il titolo dell’ultimo album, continua gloriosamente il percorso, essendo solo l’ultimo grandissimo album di un gigante della musica dei giorni nostri.
C’è quasi un’atmosfera liturgica tra queste nuove tracce, un senso di misticismo artistico e di mistero nascosto dal lento incidere della voce cavernosa e a tratti oscura di Cohen, che più che abbandonarsi a un vero canto procede per passi poco più che recitati.
È come assistere a una solenne salmodia, durante la quale ci si deve alzare in piedi togliendosi il cappello in segno di riverenza. Perché in You Want To Darker la forza espressiva di Cohen si percepisce in tutta la sua integrità, a cominciare dal momento sacrale della titketrack, accompagnata dal Cantor Gideon Zelermyer & The Shaar Synagogue Choir di Montreal.
Un album di nove tracce che restano avvolte in loro stesse, in un denso e oscuro defluire che non si concede tappe e deviazioni di troppo, ma si ricopre solo di essenziale.
Susan Boyle torna il 25 novembre con A Wonderful World
Susan Boyle torna il 25 novembre con il settimo album in sette anni, A Wonderful World. Per la prima volta per un’artista inglese, Susan ha avuto l’opportunità di duettare virtualmente con Nat King Cole per una splendida versione di When I Fall In Love.
Nell’album anche una spettacolare versione di Like A Prayer di Madonna, di Angels di Robbie Williams, di Mull of Kintyre di Paul McCartney e Somewhere Out Thereun in duetto con Michael Bolton.
“Mi sono divertita un sacco a registrare, sono tornata alla dimensione che più preferisco in assoluto. Sono state spese un sacco di parole sul mio ultimo anno ma io sto bene, benissimo, e sono sicura che questo album ne è la prova. Mi sono divertita a comporre un disco che potesse piacere alle famiglie. Qualcosa che piacesse a tutti: un album che potesse essere ascoltato tutto l’anno e che potesse evocare ricordi. Chiunque mi conosca sa che sono una grande fan di Madonna e che cantare Like A Prayer era uno dei miei sogni. Infine, anche il duetto virtuale con Nat King Cole è stato un vero onore: a 7 anni dal mio debutto, adoro sorprendere il mio pubblico.
Questa la tracklist:
1. What a Wonderful World
2. When I Fall In Love (Virtual duet Nat King Cole)
3. Angels
4. Somewhere Out There (duet with Michael Bolton)
5. I Have A Dream
6. Always On My Mind
7. May You Never Be Alone
8. Mull Of Kintyre
9. Like A Prayer
10. When You Wish Upon A Star
Supernatural, extraterrestrial. Alieni, mostri e fate: quando il videoclip è visionario
Alieni, mostri, fate.
Cosa succede quando il videoclip si immerge nel mondo della magia o vuole dare uni sguardo sugli universi paralleli? La natura si distorce, si piega, si capovolge, diventa addirittura distopica o si riempie di simboli arcani, l’artista incarna le sembianze di una creatura extraterrestre o soprannaturale e per i registi è una succulenta occasione per dare libero sfogo alla creatività più visionaria.
Dagli anni ’70 fino ad oggi, ecco alcuni esempi di come il mondo fantastico e alieno abbia fatto irruzione nel videoclip musicale, trasformando per alcuni minuti i cantanti in splendide o terrificanti creature…
David Bowie, Life On Mars?
Qui c’era solo l’imbarazzo della scelta, perché sono state tante le volte in cui l'”alieno” Bowie ci ha portato fuori dalla realtà (o ha portato la sua in mezzo a noi, dipende da come la si guarda…). In Life On Mars? però la sua identità extraterrestre si manifesta in tutta la sua eleganza.
Madonna, Bedtime Story
Per dare le immagini a una canzone in cui aveva infilato le mani anche Björk come autrice, la Signora del pop costruì un video surreale, sicuramente il più enigmatico e il meno intelliggibile della sua carriera, ambientato in una realtà futuristica e piena di simbolismi arcani.
Björk, Hunter
Più che una cantante, Björk è un’abitante di una galassia remota che ogni tanto si presta a cantare. Qui, per esempio, si mostra completamente calva, mentre sul suo volto prende forma lo strambo muso di… un orso!
Marilyn Manson, The Dope Show
Con quegli occhi bicolori e quel corpo provocatoriamente ermafrodito, ai tempi di The Dope Show il Reverendo sfidava il buoncostume e ci piombava addosso nei panni di un umanoide con seni e pacco di plastica, per di più con una canzone che inneggiava alla droga (o così almeno si diceva). Lo scandalo all’epoca fu rovente.
Busta Rhymes feat. Janet Jackson, What’s It Gonna Be?
Video per l’epoca costosissimo dato l’elevatissimo tasso di effetti speciali. Immersi in una non-realtà, una dimensione indefinita in tempo e in spazio, Busta Rhymes e Janet Jackson appaiono nelle vesti di signori del post-moderno. Lui umanoide dal corpo di mercurio, lei fatalona un po’ cyber e con tanto latex.
Christina Aguilera, Fighter
Diretta dalla superba Floria Sigismondi, Christina Aguilera compie sotto i nostri occhi la trasformazione da enorme bozzolo nero a candida crisalide, in un’ambientazione onirica e distorta. Gli insetti non sono mai sembrati tanto belli.
Grace Jones, Corporate Cannibal
Nel video di questo pezzo dalle atmosfere alquanto sinistre, la pantera giamaicana è poco più di un ectoplasma nero con occhi e bocca che si muovono, si spandono, si restringono e si deformano.
Lady Gaga, Born This Way
Nel cantare che dobbiamo tutti accettarci per come siamo, Mother Monster arrivava direttamente dallo spazio proclamando l’avvento di una nuova, utopica era universale, popolata da creature dalle fattezze umane e dal cuore immacolato. Segni particolari, un paio zigomi “importanti”.
Katy Perry, E.T.
Fosse anche solo per il titolo della canzone, questa è la cosa più aliena che si sia vista nella musica, almeno negli ultimi 20 anni. Volteggiando nello spazio in magnifiche metamorfosi, l’extraterreste Perry arriva sulla terra e si ritrova in uno scenario post-apocalittico, in cui niente e nessuno sembra essere sopravvissuto. Forse…
Brooke Candy, Opulence
Video malatissimo, di una violenza disturbante, scurissimo. Nelle mani esperte di Steven Klein, Brooke Candy veste gli innumerevoli panni di una creatura folle, un personaggio distopico a metà strada tra una diva in crisi di nervi e il protagonista di un incubo. Un viaggio allucinato a velocità fuori controllo.
Die Antwoord, Ugly Boy
Sono tra le band che amano spingersi sempre “un po’ più in là” con l’immagine. Il loro universo visionario li porta per questo video ad alternare immagini di angeli neri, inquietanti bambini-pupazzo, sangue e rose in fiamme.
Daphne Guinness, Evening In Space
Un coloratissimo scenario spaziale, decisamente barocco. Costumi esagerati, gioielli, bolle di cristallo, make up elaboratissimi, aitanti marziani fucsia e luminosi. La grande fashion star ha fatto le cose in stile eccelso per questo video diretto nientemeno che da David LaChapelle. Alla produzione del brano invece c’è Tony Visconti, sì, proprio quello di Bowie. Un pezzo così come poteva non avere un’anima aliena?
Rose McGowan, RM486
Per il suo primo video musicale, l’attrice diventata famosa grazie a Streghe ha scelto di comparire nelle inquietanti fattezze di una creatura bianca e calva, ora nuda, ora ricoperta di glitter rossi, piume, pendenti, spilli sulle unghie.
Rihanna, Sledgehammer
Dal momento che la canzone fa parte della colonna sonora di Star Treck, il video non poteva non riprendere quelle suggestioni spaziali. Sola sulla terra, la meravigliosa aliena Rihanna, dal volto enigmaticamente dipinto, si muove ipnotica in danze arcane sotto a un cielo in piena tempesta cosmica.
Kerli, Blossom (The Halls of Heaven Session)
In totale unione con la natura, la cantante estone, da tempo impegnata nella sensibilizzazione verso l’ambiente, assume i panni di una coloratissima fata delle nevi nordiche.
Se Lady Gaga abbandona la festa pop…
Immaginatevi un palazzo con grandissimi saloni affrescati, uno di quei palazzi che di solito si usano nei film, insomma. E immaginate che dentro ci sia una grande festa, di quelle con centinaia di ospiti, musica, buffet presi d’assalto da mani bramose che sbucano da ogni lato, camerieri che fanno avanti e indietro con enormi vassoi pieni di bicchieri con ogni sorta di bevanda.
È una festa magnifica, di quelle proprio fighe, dove per entrare ti chiedono non solo l’invito, ma anche di esibire un certo dress code, e non è ancora detto che ti facciano passare. Un evento a cui tutti vorrebbero partecipare. Immaginate che questa sia la grande festa del pop, sì, proprio la musica pop, un gigantesco ritrovo di tutte le piccole e grandi star dello showbiz riunite a celebrare il più commestibile dei generi musicali, quello che invade le classifiche e intasa i canali radio.
Immaginatevi di essere davanti a quel palazzo per sbirciare un po’ chi arriva e di vedere, attraverso le sagome che vanno verso il portone, una ragazza che invece se ne sta andando. Esce, va via, torna a casa. È presto, la festa non accenna a finire, anzi, eppure lei saluta tutti e va verso il parcheggio.
Quella ragazza è Lady Gaga.
Perdonate l’impiego di questa metafora alambiccata, ma volevo cercare di spiegare al meglio la strada che, a mio modesto parere, Stefani Germanotta sta prendendo.
Lady Gaga si sta allontanando dal pop, che detta così può sembrare un’indicibile tragedia o un’epocale minchiata, ma ora mi spiego.
Per anni Lady Gaga è stata abbondantemente nutrita dal pop, ci ha sguazzato dentro, ricevendone una fama e un successo superiori forse a ogni migliore aspettativa: quando ha esordito, nel 2008, i suoi primi due singoli Just Dance e Poker Face hanno entrambi superato i 7 milioni di copie vendute solo in America, poi nel 2009 Bad Romance ha dato al pop una sberla che da anni non riceveva più e il video è stato il primo a scuotere YouTube, prima che Youtube diventasse quello che è oggi.
Se poi fate un giro nel quartiere e a un qualsiasi passante fate il nome di Lady Gaga, probabilmente vi risponderà che è quella con i costumi strani, quella vestita di bistecche, quella che cammina sui trampoli. Cioè, anche se non conosce le sue canzoni, la gente – tutta la gente – sa chi è Lady Gaga, perché Lady Gaga ha saputo incarnare, per un certo periodo, l’essenza stessa del pop, ovvero la capacità di arrivare dappertutto, e non necessariamente con la musica.
La stessa cosa potreste dirla con altrettanta sicurezza di Katy Perry o Rihanna?
Tra decine di aspiranti dive dello starsystem, Lady Gaga è emersa, si è fatta notare, in un mare di chiacchiericcio indistinto, lei è quella che ha urlato più forte per farsi sentire. E c’è riuscita. È stata la prima a cavalcare il web e a utilizzarlo in tutta la sua potenzialità come mezzo di comunicazione, ha costruito una delle prime fanbase e le ha dato un nome, i little monsters, è stata tra gli artisti che hanno ridato slancio ai videoclip, dopo che per anni se n’era perso l’interesse.
Ma soprattutto, Lady Gaga ha abituato il suo pubblico all’eccesso, all’andare sempre oltre, con il rischio talvolta di non esserne lei per prima all’altezza. Quando nella primavera del 2011 è uscito Born This Way, il gaga-mondo ha raggiunto sotto tutti i punti di vista il culmine, con una presenza in scena talmente massiccia che ha reso il suo personaggio quasi indigesto, outfit assurdi, spesso imbarazzanti, esibizioni forzate. Tutto pur di esserci, ovunque. Fino al 2012, quando si è chiusa l’era Born This Way ed è iniziato qualcos’altro.
Quel qualcos’altro avrebbe portato ad Artpop, pubblicato nell’autunno del 2013.
Le premesse per un altro terremoto c’erano tutte, la collaborazione con Jeff Koons e Marina Abramović, il lancio dell’app, l’esibizione sull’abito volante. Eppure…
Eppure ci siamo tutti dovuti rendere conto che qualcosa era cambiato. Commercialmente parlando, quel disco è stato un mezzo fiasco, il primo vero fiasco di Gaga, e non senza motivo: quella musica non era ciò che il pubblico si aspettava. Se non è tracollato del tutto è perché i fan l’hanno comprato e se lo sono fatto piacere, ma il resto della gente l’ha evitato. D’altronde, chi dal pop vuole immediatezza e facilità non poteva non trovarsi disorientato davanti a quelle canzoni così slegate, caotiche e rumorose. Ecco, penso che sia da lì che Lady Gaga ha iniziato il suo lento allontanamento dal pop, proponendo qualcosa che forse appagava molto lei, ma non si incontrava con le aspettative generali.
E questo valeva per la musica come per l’immagine, perché si è sempre più capito che il tempo delle mascherate era finito. Nel bene e nel male.
Quando lo scorso febbraio ha ritirato il Golden Globe per la sua performance in American Horror Story, con quella messa in piega pareva sua madre. Lei, che 5 anni prima era andata a farsi cucire l’abito dal macellaio, si presentava agli eventi come una gran dama.
Per non parlare dell’operazione jazzistica con Tony Bennett, condensata in Cheek To Cheek: grande stoffa, ottima attitudine, perfetta combinazione di voci e generazioni a confronto, critica entusiasta, ma il mondo del pop era ancora più lontano. Certo, quell’operazione i suoi frutti li ha portati, perché lo zoccolo duro dei little monsters ha continuato a seguire la sua stella e in quel disco ha riscoperto una fetta di musica forse ignota, ma tra la Gaga di Bad Romance e quella della cover di Anything Goes c’è di mezzo una foresta nera. Se da una parte Madonna chiamava a duettare la trentenne Nicki Minaj per cercare l’attenzione dei teenager, Gaga prendeva per mano nonno Tony, che ha gloriosamente superato le 80 primavere, e anziché darsi al reggaeton si buttava sullo swing.
Adesso è arrivata l’ora del nuovo album, Joanne, atteso per il 21 ottobre: si sa che ci ha lavorato tanto Mark Ronson e che ci saranno collaborazioni anche con Beck e Florence Welch. Cosa ci dobbiamo attendere, francamente, non lo so, e ho un po’ paura di scoprirlo. Il primo assaggio di Perfect Illusion non è certo stato esaltante: una canzone senza spessore, musicalmente piatta, che appare più un pretesto per parlare della fine della storia con il fidanzato che non il vero ritorno di una delle più grandi popstar del decennio. A detta sua, la scelta di usarla come singolo di lancio è stata operata dalla casa discografica, specificando inoltre che il sound dell’album sarà piuttosto diverso. Che a voler essere malpensanti è un modo diplomatico per prendere le distanze in caso le cose si mettano male.
Anche il video sembra indicare intenzioni assai diverse dal passato: un simil-rave in un deserto californiano, lei che afferra il microfono, canta, balla, si dimena, e tutt’intorno una folla invasata in un montaggio da mal di mare. Stop.
I tempi dei mini-film di Paparazzi, Telephone e Alejandro sembrano risalire a millenni addietro. Anzi, sembrano appartenere a qualcun altro.
Il popolo giù in strada chiedeva una bomba pop, qualcosa che lo mandasse fuori di testa come fece a suo tempo Bad Romance, ma dall’alto del suo appartamento con vista su Central Park, Gaga ha optato per sonorità simil-rock e una canzoncina da prendere e mettere da parte dopo il terzo ascolto. Sono pronto a scommettere di non essere il solo ad aver storto il naso davanti al nuovo singolo.
Lady Gaga è un’artista di talento, di grandissimo talento, e mi pare indiscutibile che possa togliersi degli sfizi che molti colleghi possono solo sognare, ma davanti a un percorso musicale così indefinito non posso che chiedermi dove voglia andare a parare la Germanotta, e se sia davvero consapevole del grande rischio a cui sta andando incontro. Che abbia usato il pop dei primi anni per guadagnarsi celebrità e ora inizi a fare di testa sua? Possibile. Anzi, quasi sicuro.
Di solito in questi casi si usano frasi del tipo “lei vuole fare musica più impegnata, non vuole restare nel pop banale e facile”: a parte il fatto che ci sono infiniti modi di fare pop e di farlo bene, riconosco che sia legittimo cambiare strada, ed è ancora più legittimo alzare l’asticella per dimostrare di essere cresciuti, inerpicarsi per sentieri meno battuti, ma egoisticamente a me la Lady Gaga del periodo iper-pop, quella dei vari po-po-po, ma-ma-ma, Ale-Alejandro, inizia a mancare molto. E credo anche a molti dei suoi più fedeli seguaci, anche se forse non lo ammetteranno nemmeno sotto tortura.
Aspetterò allora con ansia l’uscita di Joanne, sperando in un miracolo che difficilmente arriverà.
Poi ho già sentito parlare di un nuovo album con Tony Bennett, forse il prossimo anno.
Nel frattempo, a palazzo, la festa del pop va avanti, e io vorrei tanto capire dove sta andando Lady Gaga…
Pietà per Britney Spears
La bionda con le extension più famose del pianeta è da pochi giorni tornata con l’ennesimo album, Glory, e se dovessimo basarci sulla sua rilevanza musicale il discorso potrebbe chiudersi qui. A partire dal primo singolo, Make Me, fino al l’esibizione ai VMA, quello che ci resta di Britney è un ricordo, un ricordo di quello che è stata. Parliamoci chiaramente, l’ultima cosa musicalmente interessante che la ragazza è riuscita regalarci risale forse ai tempi di Blackout, e di anni ne sono passati un po’. Per non parlare del fatto che i fasti di …. Baby One More Time o della tutina rossa in latex di Oops! I Did It Again sembrano appartenere a un’altra era geologica.
Da troppi anni ormai Britney si trascina dietro il personaggio che è stata negli anni ’90, quando irruppe sulle scene probabilmente come la prima vera erede di Madonna: d’altronde, tra la prima comparsa pubblica della Ciccone e i primi ancheggiamenti di Britney vestita di scolaretta nel suo video d’esordio erano trascorsi più di 15 anni, un intervallo fisiologico per permettere a Madonna di guadagnarsi lo status di maestra del pop.
Era la fine degli anni ’90 e la giovanissima Spears macinava milioni e milioni di copie, come la prima vera icona pop dell’epoca post-Madonna. C’erano solo lei e l’Aguilera. La storia ci avrebbe poi insegnato che l’epoca delle puttan pop non era che all’inizio. A sancire il riconoscimento ufficiale di questa “adozione”, l’esibizione ai VMA del 2003, entrata di diritto negli annali, con lo sposalizio profano tra Madonna e le due virginali fanciulle, collaudato dalla doppia slinguata in salsa lesbo.
A quel tempo Britney era ancora Britney e nulla pareva fermarla.
Poi sono arrivati i problemi, le crisi private prima che professionali, e anche la sua carriera ha iniziato a risentirne. Quante volte ci siamo sentiti dire che “Britney sta tornando alla grande”, che il colpo di testa di quella rasatura dei capelli immortalata dai giornali e di quell’ombrello scagliato sul fotografo non erano altro che ricordi?
La verità è che da quel momento Britney è sembrata sempre meno interessata alla sua musica, i dischi che faceva uscire avevano il sapore di prodotti arraffati in qualche modo per giustificare la sua presenza nello showbiz, ma della ragazzina rivoluzionaria degli inizi non c’era più nulla, nessuna spinta, nessuna passione. Ha smesso lei per prima di crederci. Il mondo della musica andava avanti, Britney pareva abitare in una bolla a parte, da cui ogni tanto usciva a prendere aria. Sull’imbarazzante questione dei playback non voglio nemmeno infierire: la Spears non è mai stata una grande voce, non ne ha mai fatto mistero e i suoi archetti indossati solo per scena erano quasi diventati un marchio di fabbrica. Certo però che veniva un po’ da ridere a guardarla.
Ma arriviamo a Glory, alla sua copertina visibilmente (ma non volutamente?) plasticosa, e alle sue canzoncine -ine -ine. Meglio di Britney Jean, ha sentenziato la parte autorevole della critica, e ci mancherebbe, aggiungo io!!
Il nuovo album non aggiunge e non toglie niente a quanto già non sapevamo di Britney, è un disco che può essere tranquillamente lasciato sugli scaffali dei negozi, tanto il mese prossimo nessuno se ne ricorderà. Tranne i fan.
Ecco, i fan di Britney: se c’è una cosa che in questi anni mi ha sempre colpito, è stato il loro amore incondizionato, la loro presenza assidua, quasi come un manipolo di missionari impegnati nel proprio compito di portare salvezza alla loro beniamina. Non importava se e cosa Britney facesse, se lei c’era loro erano con lei, pronti al suo fianco a sostenerla. E così è stato per l’uscita di Glory e per la performance ai VMA, in total playback, con scossoni di chioma e glutei alzati. E chissenefrega se Beyoncé se l’è mangiata con un mini show di un quarto d’ora, così come Rihanna: i brittini hanno speso lacrime e preghiere per lei, Britney.
E in fondo, nonostante la consapevolezza che la Spears sia oggi l’emblema del vuoto cosmico in musica, non riesco a detestarla quanto Kim Kardashan: c’è qualcosa in lei che me la fa amare, o almeno mi fa provare uno strano affetto, quasi a proteggerla per i momenti bui del passato, al di là del fatto che pubblichi nuova musica o no.
Se oggi si vuole bene a Britney lo si fa per quello che ci ha dato in passato e forse perché lei è un po’ il nostro specchio, il riflesso di chi ha conosciuto la gloria – quella vera -, è caduto, si è rialzato, ma con il disincanto che di superumani a questo mondo non ce ne sono. Si tira a campare fra un frappucino take away, i figli da accompagnare a scuola e, ogni tanto, un disco da far uscire.
Quindi vi prego, se il vostro istinto è quello di scagliarvi sul suo playback, sulle sue canzoni usa e getta, sui suoi atteggiamenti svogliati e da ma-che-ci-faccio-qui agli eventi, pensateci un momento, e abbiate pietà di lei.
Che lo vogliate o no, Britney Spears siamo un po’ tutti noi.