“Questa musica non contiene groove di batteria preconfezionati e strumenti virtuali.”
È scritto proprio così nella pagina dei crediti dell’album. Un monito come quello – oggi sempre di più frequente – delle confezioni di alimenti per avvertire della possibile presenza di glutine, olio di palma o frutta con guscio.
Per i Decibel l’equivalente dell’olio di palma è l’omologazione, l’appiattimento, il luogo comune, tutti termini attorno ai quali girerà gran parte di questa intervista, rilasciata in occasione dell’uscita di Noblesse Oblige, il loro terzo album.
Il nucleo del gruppo nacque esattamente quarant’anni fa tra i banchi del liceo Berchet di Milano e si fece portatore del punk e della new wave in Italia. Nei pochi anni di attività, anche una partecipazione a Sanremo, con Contessa, sufficiente a lasciare traccia nel grande pubblico.
Dopo un lungo periodo di attività separate, lo scorso anno Enrico Ruggeri, Silvio Capeccia e Fulvio Muzio si sono ritrovati a Londra e lì ha preso corpo l’idea di far risorgere il gruppo. Niente nostalgia però, solo musica, con lo stesso orgoglio di essere una band di nicchia.
Ecco allora il nuovo album: 11 inediti e due cover nell’edizione standard e un’edizione limitata e numerata con altri tre brani, vinili e memorabilia vari.
Perché il rock di oggi è come la musica classica, parola di Ruggeri.
A distanza di quarant’anni, che ambiente musicale vi ritrovate intorno?
Enrico: Non vorrei dire lo stesso, ma quasi. Quarant’anni fa, quando i Decibel pubblicavano l’album Punk, gli Homo Sapiens vincevano Sanremo con Bella da morire. Due anni dopo i Decibel andavano a Sanremo con Contessa e si trovavano di fianco Toto Cutugno, Pupo e i Collage. Erano i tempi dei capelli cotonati, le camicie con lo sbuffo, le voci in falsetto, e noi eravamo come marziani. Prendevamo ispirazione dai viaggi a Londra, ogni volta tornavamo con una giacca diversa, un paio di occhiali, i capelli ossigenati: era facile fare i diversi. A noi oggi tornare sembrava più difficile, con Internet tutto viaggia velocissimo, ma l’impressione è la stessa di allora. Se accendi la radio senti sempre lo stesso pezzo, i groove, i pad. Siamo ancora mosche bianche, e questo ci riempie di orgoglio.
Come è maturata l’idea di tornare alla musica?
Silvio: In questi anni non ci siamo mai persi di vista, anche perché l’esperienza della band non si è chiusa per nostra volontà, ma per cause tra discografici. Ultimamente abbiamo suonato spesso insieme in eventi privati e poi ci siamo trovati a Londra in occasione delle celebrazioni per i quarant’anni di Kimono My House degli Sparks e abbiamo pensato a qualcosa di più di qualche singolo concerto.
E: Quest’anno poi io festeggio 60 anni, sono 40 anni dal primo album dei Decibel, 30 da Quello che le donne non dicono e Si può dare di più. Tante ricorrenze che valeva la pena festeggiare. Di sicuro, sapevo che volevo evitare come la peste il disco di duetti, poi ho pensato ai Decibel: Silvio e Fulvio mi hanno passato dei pezzi e abbiamo iniziato a lavorarci, ma nell’ottica di fare qualcosa per pochi intimi. Un giorno li ho fatti sentire in macchina ad Andrea Rosi, presidente della Sony, ma prima di tutto amico: al terzo pezzo ha stoppato e ha detto “Nicchia un cazzo! Se non andate avanti vi ammazzo!”. Da lì tutto ha preso contorni sempre più grandi.
S: Nessuna idea di fare un’operazione discografica comunque, altrimenti avremmo potuto ripiegare su un album di cover.
Fulvio: Alla base di tutto, c’è un’identità di gusti e di intenti che abbiamo ritrovato intatta.
Ritrovarvi in studio insieme com’è stato?
F: Molto divertente, perché non avevamo l’ansia dell’operazione commerciale, mentre oggi fare un giro negli studi di registrazione vuol dire spesso assistere a una veglia funebre.
E: In studio abbiamo suonato davvero, senza computer.
Le nuove tracce sono nate nell’ultimo periodo o avevate cose già pronte?
F: C’erano già nuclei di ispirazione originaria, parti di brani precedenti che abbiamo ripreso e amalgamato. Molti dei nuovi pezzi sono nati proprio da fusioni di strofe e ritornelli di canzoni diverse, come si faceva una volta del resto, e ci sono tracce arrivate di recente, come Triste storia di un cantante.
S: Il fatto però che canzoni mie si amalgamassero bene con quelle di Fulvio non era per nulla scontato ed è sintomo di quell’unità di gusti di cui si parlava prima.
My My Generation ha un riferimento piuttosto chiaro al brano degli Who. Loro cantavano la voglia di esprimersi, voi come vedete la vostra generazione?
E: Gli Who parlavano della loro generazione, quella di cinquant’anni fa, che non aveva riferimenti a cinquant’anni prima. Noi oggi facciamo rock come si faceva in quel periodo, con la differenza che oggi il rock è la nuova musica classica, un genere di nicchia, ma sono in pochi ad ascoltarlo. Ed è per questo che fin dall’inizio ho chiesto a Sony di trattare questo album come un progetto di musica classica a tutti gli effetti: ecco allora la limited edition, il tour nei teatri a prezzi alti. In questo rientra anche il titolo dell’album.
Premesso che avete voluto evitare l’album di duetti, non c’era nessun ospite che avreste voluto avere nel disco?
E: Volendo sognare, ti direi Elvis Costello, John Cale o Jean-Jacques Burnel.
S: In un tuo disco ha suonato Andy Mackay dei Roxy Music, vero?
E: Ecco, potrebbe essere un’idea per il futuro… Tra gli italiani, l’unico che avrebbe avuto motivi artistici per entrare nell’album sarebbe stato Faust’O (pseudonimo di Fausto Rossi, ndr). Soprattutto sotto Natale i cantanti passano il tempo a visitarsi in studio uno con l’altro, magari detestandosi, e nei loro pezzi si sente una disperata ricerca di attenzione da parte delle radio e del pubblico.
Non si salva nemmeno la scena indipendente?
E: Non siamo informatissimi, ma l’impressione generale è che in giro manchino le grandi canzoni. Lou Reed ha fatto anche album pieni di rumore, ma prima aveva scritto Perfect Day. Se chiedevi a Picasso di disegnarti una Madonna, la faceva bellissima, poi ha inventato il Cubismo. Si può anche scegliere di fare i matti, gli indie, ma prima bisogna dimostrare di saper scrivere belle canzoni.
C’è stato un momento o un fattore che ha portato all’appiattimento della musica di oggi?
E: La crisi discografica. Negli anni ’80 c’era più pazienza, le case discografiche ti mettevano sotto contratto per cinque album e tu avevi il tempo di crescere. Se guardiamo i grandi, quelli venuti fuori quarant’anni fa, è tutta gente che non ha sfondato al primo album. Oggi non sarebbe possibile, serve arrivare al successo subito. Il Fabrizio De Andrè del 2021 esiste, ma ha già smesso di suonare perché Linus non gli passava il pezzo in radio. Gli artisti capaci di scrivere le grandi canzoni ci sono, ma quelle canzoni non andrebbero in radio. In tutto questo, i talent non sono che una conseguenza, un patto scellerato tra le case discografiche e la televisione, ma tra Battiato, De Gregori, Vasco Rossi, Dalla, Paolo Conte quanti vincerebbero un talent? Forse Gianni Morandi.
Quindi è cambiato il gusto del pubblico?
S: E’ un loop: alla gente piace un genere perché può ascoltare solo quello. Noi vogliamo portare qualcosa di nuovo. Forse siamo più all’avanguardia oggi di quanto non lo fossimo quarant’anni fa.
Viviamo davvero nella società dell’apparire?
E: Ne parliamo in molte canzoni dell’album, da La bella e la bestia a Fashion. Oggi la gente crede di poter decidere, ma non ha capito che ormai viviamo sotto la dittatura delle televisione. Tutto è indotto dall’esterno, anche nella politica. Lo dicevamo già in Lavaggio del cervello, un brano che ha precorso i tempi, proprio come in Superstar parlavamo del rapporto malato tra l’artista e i fan pochi anni prima che Chapman uccidesse Lennon.
Oggi c’è qualcuno con le potenzialità di essere aggiunto all’elenco dei grandi nomi che fate in My My Generation?
S: Se avessimo potuto aggiungere una strofa avremmo inserito altri nomi, ma sempre di quel periodo e di quelle latitudini.
E: Oggi mancano i grandi progetti, le grandi linee musicali: una volta mettevi su una canzone e capivi subito di chi era, oggi è impossibile. Forse oggi solo i Red Hot Chili Peppers hanno ancora questa capacità di distinguersi, soprattutto per il basso.
Quel cervello sulla copertina che significato ha?
E: E’ un appello…
S: Eravamo incerti se mettere il cervello o l’orecchio, e abbiamo optato per entrambi, due cose che oggi mancano. E poi ci sono rimandi ad altri altre band, come i Kraftwek.
E: L’idea è un po’ anche quella di incuriosire chi in un futuro lontano, fatto di umanità bionica, guarderà il disco e davanti a un cranio sezionato scoprirà che dentro c’era spazio per un cervello.
Per il tour cosa avete preparato?
S: Semplicemente saliamo sul palco e suoniamo, con strumenti veri. Niente maxi-schermi, niente effetti speciali, niente esplosioni. Ovviamente senza computer, neanche nascosti, ed è raro, lo ribadiamo.
E: Anche nell’indie. E io non volerò sul pubblico!
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
F: Nel nostro lavoro è la scelta di aver fatto una musica diversa, senza l’uso delle tecnologia e senza aver chiamato i soliti produttori.
E: Il nemico di oggi è il luogo comune: non ci vedrete spaccare le vetrine, quello lo fanno i giovani, noi ci ribelliamo in un altro modo.
Ma davvero il luogo comune un tempo non era così imperante come oggi?
E: Almeno ce n’erano tanti! Quando eravamo ragazzi noi in giro c’erano i fricchettoni, quelli che ascoltavano gli Inti-Illimani, chi ascoltava il rock, e poi la musica era molto più connotata politicamente.
F: Le forme di conformismo appartenevano ai genitori, oggi è tutto molto omologato.
Queste le prossime date confermate del tour: 17 marzo a Castelleone – Cr (Teatro del Viale); 18 marzo a Pomezia – Rm (Club Duepuntozero); 25 marzo a Perugia (Teatro Morlacchi); 28 marzo a Torino (Club Le Roi); 29 marzo a Asti (Teatro Palco 19); 8 aprile a Genova (Teatro della Tosse); 10 aprile a Milano (Teatro della Luna); 26 aprile a Bologna (Teatro Il Celebrazioni); 18 maggio a Bergamo (Teatro Creberg); 19 maggio a Nova Gorica (Casinò Perla).
ASPETTANDOSANREMO: "Vado al Festival per la ricerca sulla SLA". Quattro chiacchiere con… Ron
“Se non ci fosse stato il progetto per la ricerca sulla SLA non sarei andato a Sanremo”.
Lo dice chiaramente Ron parlando della sua partecipazione – la settima – al prossimo festival con L’ottava meraviglia.
Il brano, una canzone dal respiro arioso, sarà infatti contenuto nella riedizione di La forza di dire sì, il doppio album pubblicato nel 2016 a favore dell’AISLA (Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica) e che vedeva la partecipazione di altri 24 artisti.
Il disco arriverà il 10 febbraio e conterrà anche un secondo inedito, Ai confini del mondo.
L’ottava meraviglia è una canzone d’amore: oggi, questo sentimento dove trova la sua forza?
Abbiamo un continuo bisogno d’amore: ci sentiamo sempre soli e sentiamo la necessità di condividere, di avere accanto qualcuno che ci sorregga. L’idea che gira intorno alla canzone è capire di cosa abbiamo bisogno oggi, in un contesto in cui ci sparano da tutte le parti, in cui vivere è diventato quasi sopravvivere. In questa condizione, ciò di cui abbiamo bisogno è la persona che sta al nostro fianco, è questa “l’ottava meraviglia”. Lo dico davvero.
Com’è nata la canzone?
E’ arrivata quasi da sola, senza cercarla troppo. Mattia Del Forno dei La Scelta mi ha portato un inizio interessante, su cui poi ho lavorato con Emiliano Mangia e Francesco Caprara: mi piace molto lavorare con loro, le cose arrivano in maniera spontanea.
Nel ritornello si parla di America e di Oriente: cosa rappresentano?
L’America è sempre stato il sogno: ci sono andato per la prima volta a 17 anni, quando le cose si facevano in grande, insieme a Massimo Ranieri e molti altri, e abbiamo cantato al Madison Square Garden. Oggi andare in America vuol dire andare in un locale e chiedere di poter cantare, come mi è capitato alcuni anni fa. Il nome di Trump è ingombrante, come lui, fa paura, ma io dico di provare a lasciarlo fare, solo per un attimo. L’America comunque resta il paese dei sogni, lì se hai talento hai la possibilità di fare qualcosa. L’Oriente invece ha il fascino di un paese che quasi non c’è, un posto magico.
Dalla tua prima partecipazione a oggi è cambiato il modo di avvicinarti al festival?
La mia prima partecipazione a Sanremo è stata nel 1970: avevo 16 anni, ero appena uscito dalla scuola, ero bellissimo e assomigliava a Brian Jones, le ragazzine mi correvano dietro. Facevo spesso i concorsi per voci nuove ed ero abituato a stare sul palco. Oggi quella forza vorrei averla ancora. Il festival ha poi seguito il mio percorso professionale, e oggi il mio pensiero va soprattutto a come il pubblico accoglierà il brano.
Cosa ti aspetti?
Prima di tutto devo dire che mi fa piacere che ci siano Carlo Conti e Maria De Filippi, due persone intelligenti, che sanno ascoltare, perché ho partecipato ad alcune edizioni isteriche. Per il resto, il mio unico obiettivo è dare una nuova spinta all’album La forza di dire sì, uscito quasi un anno fa a favore della ricerca per la SLA: ci ho lavorato per sei mesi con 24 artisti eccezionali che hanno duettato con me, è arrivato al primo posto in classifica, ma non sono ancora riuscito a raccogliere un bel gruzzoletto da consegnare all’AISLA. Per fare ricerca ci vogliono molti soldi, per cui non mi sono accontentato e ho deciso di ripubblicare l’album con il pezzo di Sanremo e un nuovo inedito, Ai confini del mondo.
Quindi se non ci fosse stato questo progetto non avresti pensato a Sanremo?
Esatto, anche perché non avevo un nuovo disco pronto. Ho voluto usare questa occasione proprio per dare nuova forza al progetto di ricerca, sperando nella grande platea del Festival.
Perché la scelta di Insieme a te non ci sto più da portare nella serata delle cover?
E’ una canzone che da bambino portavo ai concorsi per voci nuove, era un mio cavallo di battaglia, e ha anche un testo bellissimo, per cui me la sono voluta riprendere. Tra le possibilità c’era anche quella di fare Piazza Grande, ma già l’altra volta avevo portato un brano di Lucio Dalla, Cara, e non mi sembrava di gran gusto. Ho scelto come ospite Annalisa perché la trovo eccezionale, un’outsider, mi sembra una con delle idee, una che potrebbe tranquillamente fare il suo mestiere in America.
Se dovessi racchiudere Sanremo in un ricordo, quale sarebbe?
Ho la fortuna di poter tornare indietro nel tempo, e ricordo di essere rimasto catalizzato da Ancora di Eduardo De Crescenzo.
Negli ultimi anni siamo stati sommersi dall’hip-hop, ma grande fermento arriva anche dai nuovi cantautori: che giudizio puoi darne?
Seguo un po’ tutti, e mi piace molto Ermal Meta. Invece con i rapper faccio ancora molta fatica a trovare un’armonia gradevole tra come cantano, cosa cantano e la musica che ci mettono sopra. Se ascoltiamo i rapper americani, è difficile sentire qualcosa di stonato tra testo e musica, invece con gli italiani succede ancora. Nei miei ascolti spazio tanto anche all’estero comunque: Amos Lee, Cat Steven, Donovan, ma anche Ed Sheeran, Damien Rice, e poi Joni Mitchell, la più grande tutti.
E gli esordienti di oggi come li vedi?
Grazie ai talent i ragazzi sono più abituati al palcoscenico e all’idea di essere giudicati. Sono avvantaggiati in questo, anche perché è proprio il pubblico a votarli. E’ una realtà che è giusto che ci sia: alcuni mi piacciono molto, come Mengoni, e sono onorato di essere nel cast con Giusy Ferreri ed Elodie.
Cosa stai preparando per il concerto del 6 marzo al Teatro degli Arcimboldi di Milano?
Sarà un grande evento a sostegno della AISLA e tra i tanti ospiti ci saranno Annalisa, Luca Barbarossa, Loredana Bertè, Luca Carboni, Elodie, Giusy Ferreri, La Scelta, Nek, Francesco Renga, Syria. Sarà il primo appuntamento di un tour che toccherà tutta l’Italia e i cui proventi andranno tutti a favore della ricerca sulla SLA.