E Ligabue è sempre lui. Cronaca e immagini da San Siro


San Siro è vuoto o San Siro è pieno?

Parafrasando il titolo di uno dei suoi vecchi brani, questa era forse la domanda che in molti si sono fatti ieri prima di arrivare allo stadio Meazza per la tappa milanese dello Start tour di Ligabue: dopotutto, nei giorni scorsi le voci di stadi “mezzi vuoti” – e sto citando – si sono rincorse a rimbalzo sul web con tanto di testimonianze fotografiche degli stadi di Bari a Firenze, tanto che il diretto interessato si è sentito in dovere di ammettere che sì, i numeri non sono esattamente quelli delle previsioni. Fatto sta che, per rispondere alla domanda iniziale, San Siro era pieno, decisamente pieno, dal prato alle tribune. Forse non proprio fino all’ultimo seggiolino, ma pieno, col oltre 56 mila presenti.
Su quelle che sono poi le ragioni del mancato obiettivo di questo tour – e si parla solo in termini di pubblico – io non lo so onestamente dire e ognuno dice la sua: “Ligabue è un artista che rischia e si rinnova”, “No, Ligabue è sempre uguale a se stesso”, e come sempre tutto è vero e tutto è discutibile. Sicuramente, chi di dovere farà le sue dovute riflessioni e calibrerà le mosse future.
Veniamo però al dunque. Il live a Milano coincideva per Luciano con una ricorrenza importante, visto che esattamente 22 anni fa, cioè il 28 giugno 1997, Ligabue metteva piede per la prima volta sul palco di San Siro: “Di quella sera non ricordo molto, ero troppo giovane e avevo troppe cose in testa, ma mi hanno detto che San Siro è stato ribaltato. Stasera tocca a voi fare il bis”, ha detto Luciano al suo pubblico, in uno dei pochi interventi con cui spezza la successione delle canzoni. E il suo pubblico ha risposto in boato, come ha fatto per l’intera serata.
L’impianto dello Start Tour è di quelli imponenti, da numeri uno insomma, con megaschermi da svariati metri quadri di ampiezza e due passerelle e un livello di decibel che non ha scherza, ma anche se Luciano non ha mai avuto l’atteggiamento borioso della star, lì sopra sembra trovarsi a proprio agio: compare in scena con il passo calmo che lo contraddistingue e attacca subito Polvere di stelle. Da lì procede filato con una scaletta che in quasi una trentina di brani condensa una carriera che l’anno prossimo taglierà il traguardo del trentesimo anniversario: i pezzi forti ci sono tutti, da Si viene e si va a Balliamo sul mondo, Bambolina e barracuda, ovviamente Certe notti, Tra palco e realtà, Urlando contro il cieloNon è tempo per noi diventa anche l’occasione per lanciare dagli schermi un messaggio sui rischi dei danni che l’uomo sta provocando al pianeta. Due i medley: il primo raggruppa pezzi acustici con chitarra e voce e comprende anche la doverosa Una vita da mediano, il secondo pezzi da “club rock”, decisamente più pestati. Buona la quota di pezzi dell’ultimo album, tra cui spiccano la già citata Polvere di stelle, la “antemica” Ancora noiLuci d’America, nata già per essere intonata a gran voce dalla folla dello stadio, Mai dire mai e Certe donne brillano.

Parafrasando un’altra canzone, si può dire che sul palco Ligabue “fa il suo dovere”, e lo fa bene: da (quasi) trent’anni a questa parte, chi lo conosce sa che il Liga è uno di quelli che non usano effetti speciali da spettacolone pop, non introduce cambi d’abito, non spettacolarizza lo show oltre il necessario. Anche su un palco dalle dimensioni mastodontiche illuminato a giorno, il centro della scena resta lui con la sua band e le sue canzoni. D’altronde il rock&roll questo chiede, nulla di più, e così è stato anche stavolta. Una formula essenziale e collaudata, che sembra funzionare ancora, nonostante la prima volta sia stata più di 20 anni fa.
Sono passati anni, sono passati dischi, sono passati tanti concerti in ogni tipo di location immaginabile, dai club agli aeroporti, ma Ligabue è sempre lui. Sempre lì, “sulla sua strada”.
E penso che basti.

La gallery della serata è visibile a questo link.
Foto di Luca Marenda.

Ligabue diventa Liga Duck: il rocker sulla copertina di “Topolino”


Cosa accade se per una straordinaria occasione le Luci d’America si trasformano in Luci di Paperopoli?
Tra una tappa e l’altra dello Start Tour 2019, Luciano Ligabue fa una sosta storica nel mondo Disneyano e riceve la celebre attestazione di merito del fumetto di casa Panini Comics: un artistico colpo di matita lo “paperizza” e lo trasforma nel suo alter ego di Paperopoli, Liga Duck.
Eccolo quindi suonare insieme al mitico Paperino sulla copertina di Topolino 3318 in edicola da domani, mercoledì 26 giugno, firmata da Alessandro Perina, perfettamente a suo agio nei panni di rocker in becco e piume.

All’interno del settimanale è presente un’intervista speciale al cantante fatta da Jacopo, batterista modenese di 9 anni, per l’occasione Toporeporter, ovvero giornalista sul campo: tra consigli da musicista, domande di vita quotidiana, battute sul calcio e pose a favore di obiettivo, il risultato è un mix di simpatia e intesa reciproca.

E dalla lunga chiacchierata avvenuta negli studi di Correggio sono nati anche gli spunti per le sceneggiature delle tre tavole a fumetti scritte da Francesca Agrati e Davide Catenacci per i disegni sempre di Alessandro Perina. Liga Duck, tra palco e disneyanità, convincerà Pico De Paperis a sperimentare l’energia pura della musica live, si farà aiutare dalla famiglia dei paperi (ottimi “compagni di viaggio”) a organizzare un concerto e regalerà sogni di rock’n’roll a tutti i suoi nuovi amici. Ovviamente il tutto interpretando le sue hit più famose… in versione disneyana: Luci di Paperopoli, Balliamo sul Melo, Gazzosa e Pop-corn.

Ligabue riprenderà il tour negli stadi il 28 giugno a San Siro a Milano, il 2 luglio sarà allo Stadio Olimpico di Torino, il 6 luglio allo Stadio Dall’Ara di Bologna, il 9 luglio allo Stadio Euganeo di Padova e il 12 luglio allo Stadio Olimpico di Roma.

Ligabue è ripartito dalle origini: live speciale all’Italghisa di Reggio Emilia


Nella carriera di ogni artista ci sono quei due o tre luoghi che per un motivo o per l’altro assumono un ruolo simbolico, a volte addirittura centrale, tanto da diventare altrettanto simbolici anche per i fan.
Per la quasi trentennale carriera di Ligabue questi “luoghi dell’anima”, artisticamente parlando, sono almeno due e, ironia della sorte, sono geograficamente vicinissimi. Uno è Campovolo, la pista dell’aeroporto di Reggio Emilia dove si sono tenuti i tre mastodontici live che proprio da quel luogo hanno preso il nome. Il secondo, a qualche centinaio di metri di distanza, è l’Italghisa, il locale dove “il liga” ha tenuto i suoi primi concerti. Proprio tra quelle pareti, nel lontano 1992, il bar Mario – fan club ufficiale di Ligabue – ha visto il suo primo raduno.

E visto che la storia è fatta di corsi e ricorsi, proprio all’interno dell’Italghisa Luciano ha scelto di presentare per la prima volta dal vivo il suo ultimo album, dal titolo quantomeno emblematico, Start. Un nuovo inizio, ma soprattutto un modo per dire che lui è sempre rimasto lì, a raccontare la vita che scorre tra il grande fiume e i campi che in estate si invadono di zanzare. E i nuovi brani non tradiscono le aspettative.
Il concerto si è svolto nella serata di domenica 17 marzo davanti una selezione di fortunati fan vincitori di un contest e ai rappresentanti della stampa e del web.
Un’ora e un quarto di live, 75 minuti durante i quali è stato suonato l’intero album e cinque classici pescati dal vasto repertorio del rocker di Correggio: Questa è la mia vita, Quella che non sei, Una vita da mediano, Balliamo sul mondo e Tra palco e realtà.

Un live intimo solo nelle dimensioni, che ma che nulla ha risparmiato all’energia sanguigna a cui Ligabue ha abituato il suo pubblico di fedelissimi, alcuni presenti proprio fin dal 1992. L’adrenalina nell’aria era quella delle grandi occasioni, così come la carica sul palco e tra il pubblico accalcato in platea.
Una prova di riscaldamento prima del tour negli stadi che attende Luciano in estate.
A poco più di una settimana dall’uscita dell’album quasi tutto il pubblico sapeva già tutti i testi a memoria: “Vedo che alcuni di voi non conoscono ancora le parole”, ha scherzato Luciano, “non dovete vergognarvi, ma sappiate che io vi controllo”.
Ligabue è tornato.

Foto: Jarno Iotti

“La mia è musica pop”. Cristina D’Avena torna con Duets Forever, e aspetta ancora Jovanotti

Quando l’anno scorso Cristina D’Avena ha deciso di pubblicare un intero album con le sue sigle più famose cantate insieme ad alcuni grandi nomi della musica italiana, forse non tutti avrebbero scommesso sugli esiti commerciali dell’operazione.
Ma a 12 mesi di distanza lo possiamo dire: Duets non è stato solo un progetto geniale, ma anche un indiscusso successo discografico. Non solo l’album si è guadagnato la certificazione platinata, ma Cristina D’Avena è anche risultata essere l’artista femminile con il più alto piazzamento nella classifica di fine anno per il 2017.
Un risultato così non poteva che spingere Cristina a concedere il bis, per la gioia di un pubblico composto per buona parte da chi bambino lo era almeno una decina di anni fa.
Ecco allora che venerdì 23 novembre arriva Duets Forever – Tutti cantano Cristina: altre 16 sigle diventate ormai parte della tradizione italiana riarrangiate e reinterpretate insieme ad altrettanti protagonisti della nostra scena musicale, da Patty Pravo a Elisa, Fabrizio Moro, Carmen Consoli, The kolors, Nek, Max Pezzali,Lo Stato Sociale Alessandra Amoroso, Elodie, Dolcenera, Il Volo, Malika Ayane, Le Vibrazioni, Federica Carta e Shade.

Come per il progetto precedente, anche stavolta Cristina ha contattato personalmente ogni singolo artista che era intenzionata a coinvolgere: “Sono tutti colleghi che stimo e ho voluto chiamarli uno ad uno per sentire personalmente la loro reazione e capire se avessero davvero voglia di partecipare. Alcuni erano impegnati in tour o stavano lavorando a nuovi dischi e non hanno potuto esserci, pazienza. L’unico dispiacere che ho è non essere riuscita nemmeno stavolta a contattare Jovanotti: ci ho provato in tutti i modi, gli ho mandato messaggi velati e espliciti, gli ho registrato degli audio, gli ho scritto mail, ho fatto addirittura dei video, ma non ha mai risposto e non capisco perché. Forse non ha avuto tempo? O i miei segnali non gli sono mai arrivati? Se non era interessato poteva dirmelo tranquillamente”.
Ma per un Jovanotti che non c’è, ci sono altri 16 protagonisti che si sono messi a disposizione, e gli aneddoti non mancano. Su Patty Pravo: “l’ho contattata tramite il suo assistente, che non era molto convinto che lei avrebbe accettato di cantare i Puffi. ‘Io provo a chiederglielo, ma non so’, mi ha detto. Invece dopo due ore mi ha richiamata entusiasta dell’idea. L’unica paura che aveva era quella di dover fare anche la voce di Gargamella, ma quando l’ho rassicurata che l’avrebbe fatta Fabio De Luigi è andato tutto liscio”.
Su Elisa: “Appena le ho comunicato per telefono l’intenzione di coinvolgerla si è messa subito a gridare ‘Memole” Memole! Memolina! Memolina! Voglio fare Memolina perché io sono Memolina!!’, ed era chiaro che quella sigla era prenotata per lei. Si è completamente calata nel personaggio”.
Su Lo Stato Sociale: “Mi hanno detto subito ‘Noi vogliamo fare Denver, perché vogliamo bene a Denver’. E non hanno solo ricantato il pezzo, ma lo hanno completamente riarrangiato”.
Federica Carta invece non conosceva Papà Gambalunga: “Gliel’ho proposta perché ha un bellissimo testo. Lei era intimorita, in studio aveva paura di sbagliare, di non ricordare esattamente tutte le note, ma l’ho rassicurata ed è stata dolcissima”. 

L’orgoglio che Cristina esprime parlando di questo nuovo lavoro è incontenibile: “Questo disco è gioia pura. Con Duets e Duets Forever sono riuscita a coinvolgere 32 artisti, e non sono pochi! All’inizio nessuno avrebbe mai immaginato che si potesse arrivare a realizzare un secondo album di duetti. Penso che insieme a Warner abbiamo fatto un bel lavoro, un disco di musica pop a tutti gli effetti: i giornalisti sono sempre stati molto buoni con me, ma per molto tempo la mia è stata considerata ‘musichina’, musica di serie B. Dopo Duets è un po’ cambiata la considerazione che il pubblico aveva di me, molti pregiudizi sono caduti. Queste sono canzoni nuove, non avrei mai fatto un disco tanto per farlo: ho voluto rimettere mano al mio repertorio e dargli una veste nuova, perché la gente da me vuole sentire le novità. Ogni brano è stato riarrangiato pensando all’ospite che lo avrebbe cantato con me”.  
Guardando al futuro però, Cristina mette le mani avanti: “Un Duest Tris? Mah, iniziamo a vedere come va questo, poi ci penseremo, anche se credo che quando una cosa va bene ci si debba saper fermare per lasciare al pubblico ancora un po’ di appetito”.
Anche sull’ipotesi di un evento televisivo non mancano le riserve: “Se si dovesse fare, bisognerebbe pensare a una serata davvero bellissima, che coinvolga tutti gli ospiti, ma sono tanti, ognuno con i propri impegni. E non potrei nemmeno utilizzare le immagini dei cartoni, perché la questione dei diritti è complessa”.

A una “principessa e fatina rock” come Cristina la capacità di sognare però non manca, e allora perché non provare a immaginare di affidare una delle sue sigle ad alcune delle icone leggendarie della musica italiana e internazionale? “Tra gli stranieri mi piacerebbe coinvolgere Chris Martin e David Guetta. A Mina darei Prendi il mondo e vai, che tra l’altro è stata scritta da suo figlio Massimiliano; a Ligabue farei cantare Una grande città, mentre per Tiziano Ferro penserei a un brano della serie di Licia. La gente ancora oggi mi chiede com’è andata a finire la storia con Mirko e tutti mi parlano sempre delle fettine panate! Andrà a finire che ci farò una canzone. Anzi, la faccio scrivere a Jovanotti!”.

Ma dopo tutti questi anni, Cristina come si spiega il suo successo? “Penso che la ragione stia in una frase che mi ha detto Maurizio Costanzo. ‘tu hai successo perché sei sempre rimasta fedele a te stessa’. E in effetti è così, non ho mai voluto sperimentare, per poi tornare indietro, e non ho mai avuto ripensamenti”.

BITS-CHAT: Indie pop made in Parma. Quattro chiacchiere con… I Segreti

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Angelo Zanoletti, Emanuele Santona e Filippo Arganini arrivano da Parma e sono rispettivamente voce e tastiere, basso e batteria dei I Segreti, un progetto musicale nato nel 2015 con un EP autoprodotto e approdato ora al primo album ufficiale, Qualunque cosa sia.
Suonano indie pop, e la loro musica rimanda agli echi del passato, come dimostrano anche i singoli L’estate sopra di noi e Torno a casa.
Dopo un lungo percorso, il loro disco vede la luce, portando un senso di libertà e soddisfazione, soprattutto perché di solito – dichiarano – aDa Parmagli artisti delle città di provincia manca la voglia di guardare fuori.

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Quali sono i “segreti” che custodite? 
Angelo: Se ci fai caso, nei nostri testi c’è sempre qualcosa di introspettivo, le nostre canzoni rappresentano la nostra parte più intima, ecco perché abbiamo scelto di chiamarci così.

Ascoltando i brani dell’album sembra di risentire echi del passato. Con quali riferimenti musicali siete cresciuti?
Filippo: Ognuno di noi ha i suoi riferimenti personali, ma in generale tutti amiamo molto la musica degli anni ’70 e ’80. Anche la copertina dell’album rimanda un po’ a quell’epoca.
Angelo: Tra gli italiani, a me piacciono molto i Baustelle. Credo siano una delle realtà più interessanti in circolazione, e anche nel loro sound ci sono riferimenti agli anni ’70.
Emanuele: Io ho da sempre un amore grandissimo per Lucio Dalla, un grandissimo.

Pensando a Dalla non può non venire in mente Bologna, una città importantissima per il cantautorato italiano. Parma com’è la situazione?
Emanuele: Io direi che tutta l’Emilia è una regione che ha dato molto alla musica italiana, più di tutte le altre regioni. Parma però è purtroppo una città di medie dimensioni, come lo sono Reggio o Modena: queste città tendono a chiudersi in se stesse, si fanno bastare, perché non sono abbastanza grandi da offrire le opportunità di Bologna o Milano e non hanno quella spinta verso l’esterno che invece anima chi viene dai piccoli paesi. Vasco e Ligabue, per esempio, arrivano da due paesini di provincia, Zocca e Correggio, e sono realtà come quelle che danno agli artisti la voglia di uscire verso le grandi città, di “spaccare tutto”. In città come Parma invece si tende a restare fermi, chiusi nei soliti circuiti.

In quanto tempo è nato il disco?
Filippo: E’ stato un lavoro piuttosto veloce: in 6 mesi era pronto. Ma tutto è partito ormai due anni fa, quando abbiamo conosciuto Simone Sproccati, il nostro produttore. Da allora sono successe un sacco di cose, ma in queste canzoni ci ritroviamo ancora perfettamente: è come se le avessimo chiuse qualche giorno fa.

Avete trovato qualche ostacolo in particolare?
Filippo: Direi di no, è stato un percorso lungo, ma armonico: grazie all’EP precedente abbiamo incontrato tante persone che hanno creduto in noi.
Emanuele: Forse il momento più difficile è stato dopo la chiusura del disco, quando davanti a noi si è aperta l’incognita del futuro: non sapevamo cosa sarebbe successo, e per mesi siamo rimasti fermi, quando invece ci aspettavamo di vedere subito dei movimenti.
Filippo: Questa però è anche forse la cosa che ci ha in qualche modo salvato, perché se avessimo fatto uscire subito il disco, oggi saremmo qui a preoccuparci di doverne far uscire un altro. Invece siamo stati fortunati ad aver avuto un percorso più lento, ma ci meritiamo tutto.

In un periodo come questo, difficile per la discografia, molti artisti vedono la realizzazione del disco come un passaggio verso il live, che è spesso considerato l’obiettivo finale. Anche per voi è così?
Angelo: Il live è sicuramente importante, ma mentirei se dicessi che è il momento che preferisco di questo lavoro. Per me è semplicemente un passaggio, una tappa: fa parte del gioco, forse è più importante per chi viene ad ascoltarti.
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Venite indicati come una delle nuove realtà dell’indie italiano. Ma per voi cosa significa essere “indie”?
Filippo: Noi scriviamo semplicemente delle canzoni, facciamo la nostra musica senza pensare a come potrebbe essere catalogata. Definirla indie serve per inserirla in un canale, che attualmente è quello più in voga in Italia.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
Emanuele: E’ un atteggiamento, essere quello che si vuole essere Non è facile, perché può turbare gli altri, e infatti sono in pochi a riuscirci davvero.
Filippo: Per me è più una liberazione dagli schemi che vengono imposti dall’esterno, dalla società, è qualcosa che ha a che fare con se stessi.
Angelo: E’ l’applicazione dei propri il principi e dei propri valori, il coraggio di seguire il proprio istinto.

Il 26 ottobre partirà da Parma il “Qualunque cosa sia un tour”, una serie di appuntamenti live nei club di tutta Italia.
Queste le date confermate
:

26 ottobre – Parma @PULP – Release Party
16 novembre – Trento @BOOKIQUE
17 novembre – Fucecchio (FI) @LA LIMONAIA CLUB
24 novembre – La Spezia @TBA
30 novembre – Milano | FUTURA DISCHI PARTY @LINOLEUM (ROCKET)
1 dicembre – Varese @CANTINE COOPUF
2 dicembre – Como @OSTELLO BELLO
14 dicembre – Treviso @HOME ROCK BAR
21 dicembre – Torino @OFF TOPIC
22 dicembre – Carpi (MO) @MATTATOIO
29 dicembre – Rimini @BRADIPOP CLUB
12 gennaio 2019 – Rosà’ (VI) | FUTURA DISCHI PARTY @VINILE
19 gennaio 2019 – Bologna | FUTURA DISCHI PARTY @COVO CLUB
25 gennaio 2019 – Santa Maria a Vico (CE) @SMAV
26 gennaio 2019 – Avellino @TILT
27 gennaio 2019 – Roma @SPAGHETTI UNPLUGGED
1 febbraio 2019 – Foggia @THE ALIBI
8 febbraio 2019 – Asti @DIAVOLO ROSSO
9 febbraio 2019 – Pistoia @H2O

BITS-CHAT: Un’esplorazione umana e sonora. Quattro chiacchiere con… Aerostation

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Gigi Cavalli Cocchi
e Alex Carpani sono due musicisti con la “pellaccia” dura, due che la musica l’hanno conosciuta molto da vicino, entrambi animati da una passione genuina che li porta a guardare sempre avanti, senza paura di entrare in territori inesplorati.

Due solide carriere parallele alle spalle all’insegna del rock e del prog: Cavalli Cocchi è uno storico collaboratore di Ligabue, per il quale ha curato anche la grafica di diverse copertine, e ha suonato tra gli altri nei Clan Destino e con i C.S.I, mentre Carpani ha dato vita alla Alex Carpani Band, oltre a collaborare con artisti internazionali come l’ex King Crimson David Gross.
Negli anni le loro strade si erano già incrociate, ma mai per dare vita a un intero progetto condiviso. Succede ora, con Aerostation, che è il titolo dell’album (in uscita il 5 ottobre) e il nome del progetto che li vede finalmente collaborare insieme. Con loro, terza anima del gruppo, il bassista Jacopo Rossi, attivo sulla scena metal in band come Dark Lunacy e Antropofagus.
Non c’è un nome per la loro musica: rock, prog, elettronica, pop, crossover. Ci sono solo le sue suggestioni ibride e contaminate, con uno slancio internazionale e uno sguardo puntato lassù, nello spazio.  

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Perché Aerostation?
Alex Carpani: Tu sai il significato di questa parola? Molti pensano che significhi “aerostatzione”, invece vuol dire “aerostatica”, e ha a che fare con tutto ciò che riguarda le mongolfiere e i palloni che volano attraverso l’aria. Abbiamo fatto diverse ipotesi per il nome da dare a questo progetto, cercavamo qualcosa che indicasse il viaggio, l’esplorazione.
Gigi Cavalli Cocchi: Siamo appassionati di fantascienza e abbiamo voluto inserire anche visivamente nell’album alcuni elementi che rimandano a quel mondo. C’è stata quindi una grande attenzione alla parte grafica del disco, di cui mi sono occupato personalmente ideando anche il logo con i triangoli, una figura centrale per il nostro progetto. Proponevo le mie idee ad Alex, e lui approvava sempre tutti: credo che ormai ognuno sa quello che l’altro sa fare.

E l’idea di dar vita al progetto da dove è partita?
Alex: È nata da dieci anni di conoscenza, con carriere parallele, conoscenze comuni e collaborazioni occasionali. Gigi ha anche suonato in un mio disco nel 2010. Abbiamo voluto creare un progetto di respiro internazionale che guardasse anche al di fuori dell’Italia, non per rinnegare il nostro Paese, ma perché non ci si può fermare al nostro Paese. La scelta dell’inglese non è stata dettata da esterofilia, ma da ragioni artistiche, perché il rock si può cantare solo in inglese, e solo con l’inglese si può avere un carattere cosmopolita. Questo non toglie che la nostra sensibilità e le nostre radici italiane possano comunque venir fuori.  
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Che taglio avete voluto dare ai brani?
Alex: Un rock molto diretto, potente, senza fronzoli, con aperture melodiche all’ambient. Entrambi arriviamo da esperienze prog, ma abbiamo voluto alleggerire il nostro bagaglio da tutti i fronzoli e i virtuosismi. Non è stato facile dire tutto con pochi elementi, perché viene più semplice aggiungere tanti ingredienti e poi mescolare i vari sapori. L’intento era quello di proporre qualcosa di nuovo, di diverso, e se il pubblico se ne accorgerà sarà il miglior riconoscimento: fare qualcosa di derivativo oggi è perfettamente inutile.

Siete un “trio power”, ma senza chitarra, anche se si fa fatica a capire che la chitarra non c’è.
Gigi: Lavorando al disco ci sono venute in mente diverse possibilità, da quella di utilizzare una band a quella di prendere un chitarrista. Arrivati a definire il suono che volevamo dare al progetto, abbiamo iniziato a togliere, come diceva Alex. Qualche chitarra c’è, ma poi i suoni sono stati presi da Alex, che li ha rimanipolati, filtrati, trasformati, destrutturati, al punto che non ci si rende conto quando c’è la chitarra elettrica. È stato un lavoro di corrosione dei suoni.
Alex: Inoltre dal vivo abbiamo scelto di non avere un chitarrista, così come di non avere un tastierista, perché io non suono tastiere orizzontali.
Gigi: Un apporto importantissimo è stato dato anche dal nostro fonico, Daniele Bagnoli, un giovane collaboratore che si è innamorato da subito del nostro progetto ed è riuscito a rendere perfettamente il suono che volevamo.
Alex: Ha 26 anni ed è un fonico straordinario, capace di lavorare sia studio che sul palco, due situazioni molto diverse.
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Il concept che lega le canzoni del disco è quello della comunicazione e dell’esplorazione. Come pensate che si sia evoluto il modo in cui l’uomo va alla scoperta dell’altro?
Alex: Intesa verso l’esterno, l’esplorazione fa pensare alla ricerca di altri mondi da scoprire per spostare in là i propri confini di conoscenza. In questo, lo spazio, la cosmonautica e l’avventura spaziale ci ha aiutato molto, soprattutto dal punto di vista iconografico ed estetico, perché piace a entrambi e lo abbiamo tradotto nella parte grafica. I testi invece affrontano di più il tema dell’esplorazione interiore e dell’incomunicabilità dell’uomo moderno: siamo tutti perennemente connessi, eppure siamo tutti abbandonati a noi stessi, soli. Nel disco si parla di persone che si parlano e si innamorano e di persone che si sfiorano e non si incontreranno mai, perché passano veloci attraverso non-luoghi in cui nessuno lascerà alcun segno.
Gigi: Esplorazione è soprattutto evoluzione: l’uomo che esplora l’universo compie un’evoluzione nella storia, ma poi c’è anche l’esplorazione all’interno di noi stessi per portare in evidenza quello che siamo. Riuscire a riproporre quello che siamo senza nessun filtro e nessuna maschera è il punto massimo a cui potremmo ambire, la nostra massima evoluzione. Non so se ci riusciremo mai.

Il titolo dell’ultima traccia dell’album, Kepler-186F, prende spunto da un pianeta scoperto nell’universo con caratteristiche simili alla Terra, e che potrebbe ospitare la vita. Possiamo considerarlo come una metafora di una seconda possibilità?
Gigi: Assolutamente, è come l’altra faccia della medaglia di tutto ciò che salta subito all’occhio, di tutto quello che possiamo vedere subito davanti a noi. È la nostra seconda chance.
Alex: Vuole un po’ essere la chiusura del cerchio del messaggio lanciato nel disco.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
Gigi: È la capacità di vivere al di fuori degli schemi prestabiliti. Qualcuno ha detto che il compromesso è il lubrificante della convivenza: ecco, mi piacerebbe evitare di oliare continuamente la nostra vita, per poter fare esattamente quello che vogliamo senza limitare la libertà altrui. Poter arrivare a una convivenza di ribellioni e all’accettazione della ribellione altrui.
Alex: La ribellione è un moto dell’animo, ed è necessaria, prima di tutto a se stessi. Bisogna capire quando non è utile soccombere alla pigrizia, ai propri limiti, alle proprie paure per poter andare avanti. E poi il moto di ribellione deve indirizzarsi all’esterno contro le ingiustizie, per esempio: deve associarsi al dolore e allo shock, perché solo quando qualcosa ci colpisce e ci fa male noi facciamo in modo di stare meglio.

Ligabue: l'inizio del tour slitta al 14 febbraio

Il debutto del tour Made In Italy – Palasport 2017 di Ligabue, inizialmente previsto per venerdì 3 febbraio al Palalottomatica di Roma è stato rinviato a martedì 14 febbraio al Pal’Art Hotel di Acireale (CT).
Tutti i concerti romani, previsti per il 3, 4, 6, 7 e 10 febbraio al PalaLottomatica di Roma, saranno posticipati nel modo seguente:
12 aprile – NUOVA DATA a recupero del 3 febbraio 
13 aprile – NUOVA DATA a recupero del 4 febbraio 
19 maggio – NUOVA DATA a recupero del 6 febbraio 
20 maggio – NUOVA DATA a recupero del 7 febbraio 
21 maggio – NUOVA DATA a recupero del 10 febbraio 
I biglietti acquistati restano validi per le nuove date corrispondenti.
Coloro che desiderano in ogni caso richiedere il rimborso del biglietto possono procedere come segue:
Biglietti acquistati presso i punti vendita: il rimborso dei biglietti potrà essere richiesto presso il Punto Vendita in cui è stato effettuato l’acquisto entro e non oltre il 15 febbraio 2017.
Biglietti acquistati on line sul sito TicketOne.it o tramite call center con modalità “ritiro sul luogo dell’evento”: Il rimborso dei biglietti potrà essere richiesto scrivendo all’indirizzo email ecomm.customerservice@ticketone.it entro e non oltre il 15 febbraio 2017.
Biglietti acquistati on line sul sito TicketOne.it o tramite call center con modalità “spedizione tramite corriere espresso”: il cliente dovrà spedire i biglietti, tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, entro il entro e non oltre il 15 febbraio 2017 (farà fede la data del timbro postale) all’indirizzo: TicketOne S.p.A. – Via Vittor Pisani 19 – 20124 Milano (C.a. Divisione Commercio Elettronico).

BITS-CHAT: Gli #Spostati, l'indie e l'elettrorock. Quattro chiacchiere con… i REMIDA

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Hanno fatto idealmente da colonna sonora al viaggio della coppia degli #Spostati durante l’ultima edizione di Pechino Express, l’adventure game di Rai2 giunto quest’anno alla quinta edizione.

I REMIDA, band pop-rock della scena indipendente modenese, hanno infatti raccolto l’invito di un amico e hanno realizzato Gli #Spostati, un brano dedicato proprio a Tina Cipollari e Simone Di Matteo, da molti considerati i vincitori morali del programma.
Un brano vivace, dalle sonorità latin e con un testo colorato come i personaggi di cui parla. Un progetto che la band considera come un ritorno al passato e una felice parentesi nel suo cammino musicale, in futuro diretto verso territori più elettronici, come spiega Davide Ognibene, cantante del gruppo.
Perché arrivati a un certo punto, non si può continuare a fare quello che il mercato vorrebbe da te, ma bisogna seguire musica che ti faccia venire i brividi.
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Come, quando e perché i REMIDA hanno deciso di dedicare una canzone agli Spostati?

Partiamo proprio dall’inizio: è nato tutto quest’estate da un’idea di Simone Pozzati, un autore con cui avevo già lavorato in passato e che lavorerà anche ad alcuni progetti futuri della band. Mi ha detto che una coppia di suoi carissimi amici stava per partire per un’avventura e voleva dare una musica a un testo che aveva scritto per loro. Io, con il classico mood da musicista che spesso mi contraddistingue, quando ho scoperto chi erano e di quale avventura si trattava, ho accantonato la cosa. Poi durante un giorno di pausa del tour ho riletto il testo e ho visto che in effetti aveva delle immagini molto divertenti, era assortito tanto quanto lo è poi stata la coppia. La melodia mi è quindi uscita quasi da sola, a Simone è piaciuta e noi REMIDA l’abbiamo incisa, prendendola con grande leggerezza, come un gioco.
Quindi tu non conoscevi Tina e Simone Di Matteo?
Esatto. Ci siamo conosciuti personalmente e professionalmente solo in seguito: ci hanno manifestato un grande apprezzamento per il brano e per noi è stato un motivo di orgoglio.
I tuoi dubbi iniziali sono spariti?
Come dico sempre, lo snobismo da musicisti andrebbe cancellato, ma non è facile, soprattutto oggi che l’ambiente televisivo è sempre più legato a quello musicale. Una vicinanza che paradossalmente porta molti artisti ad assumere atteggiamenti di chiusura, anche se in fondo stiamo facendo la stessa cosa, spettacolo. È un atteggiamento che ogni tanto riconosco in me, ma di cui non mi vanto assolutamente.
Come va considerato questo brano all’interno del percorso musicale dei REMIDA?
C’è un imprinting musicale completamente diverso: come band, negli ultimi due anni abbiamo cercato di fare quello che il mercato intorno a noi chiedeva, ma adesso abbiamo tagliato il traguardo dei 30 anni e non possiamo più permetterci di continuare a seguire questi meccanismi. Abbiamo scelto di fare quello che ci va, e già quest’estate con il singolo Luce delle stelle abbiamo intrapreso una strada con molta più elettronica, un sound internazionale che si rifà un po’ a One Republic e Coldplay, sempre in italiano. Con Gli Spostati abbiamo ripreso quel suono un po’ latino con cui abbiamo iniziato, e ci ha fatto quindi piacere realizzarlo.

Un nuovo corso per il futuro quindi?
Stiamo lavorando a un nuovo disco che uscirà forse l’anno prossimo e c’è già l’idea per il prossimo singolo: si intitolerà DeLorean, come la celebre automobile, e il testo farà fare un tuffo nel passato. Tutto il progetto sarà elettropop, con filo di rock.
La storia dei REMIDA è partita ormai dieci anni fa: come hai visto cambiare il panorama musicale in questo periodo?
Quando abbiamo iniziato, l’indie era davvero indie e nasceva dalla volontà di proporre qualcosa di diverso. Oggi l’indie è quasi più pop del pop, non c’è più ricerca: per carità, nulla di male, tutti lavorano e lo fanno per ottenere risultati, ma è evidente che oggi gli artisti ragionano molto pensando più a quello che può piacere all’esterno più che a se stessi. Per sfondare pare che si debba per forza fare un talent, che altro non è che un karaoke amplificato in cui ti impongono pure l’inedito, gli uffici stampa sembrano decidere per te quali brani far uscire, la radio hanno pochissima libertà di movimento, insomma tutto è piuttosto standardizzato. Fino a sei, sette anni nel circuito underground si trovavano ancora artisti che proponevano cose diverse, oggi lo riesce a fare solo qualcuno che si fa strada attraverso il web: non mi riferisco però al web alla maniera di Benji e Fede, ma al lavoro di artisti come Calcutta, Ermal Meta, Marta sui tubi, tutto quel panorama che in questi anni s è mosso sul web e ha fatto sentire qualcosa di bello.
Mai nessuna tentazione di fare un talent?
Sarei ipocrita a dire di no: come tutti i treni, abbiamo provato a prendere anche quello, senza però concretizzare niente. Non voglio giustificare il fatto di non essere mai stati presi, ma non eravamo davvero convinti e quando ci veniva chiesto dove ci sentivamo più fuori luogo, la nostra risposta era “qui”, il che ci escludeva direttamente dai giochi. Probabilmente non siamo il prodotto più adatto per quel mondo, abbiamo idee molto chiare su quello che vogliamo e non vogliamo fare: anni fa, quando dovevamo fare le selezioni per X Factor, il nostro vecchio produttore ci ha chiesto se riuscivamo a immaginarci Ligabue che cantava cover di Ramazzotti. Ecco, quella riflessione mi ha fatto capire tanto.
Ma allora perché uno come Manuel Agnelli ha scelto di metterci la faccia come giudice?
Per lui c’è convenienza: prima ho fatto un po’ di demagogia, ma non escludo che se fossi al posto forse accetterei anch’io di partecipare. La mia critica è verso il sistema che regge quei programmi e probabilmente lui ha trovato il modo giusto per starci. D’altronde, nessuno fa questo mestiere per suonare in cantina, tutti vogliamo arrivare al maggior pubblico possibile. Inoltre, gli Afterhours sono partiti dall’underground, ma con gli anni sono diventati la band più popolare di quel settore, i più pop dell’indie, non sono certo diventati famosi con X Factor. Dopo più di vent’anni di attività, per loro può essere un modo di trovare professionalmente nuove strade.
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Con chi ti piacerebbe lavorare tra gli artisti italiani e stranieri?
Tra gli italiani sarebbe una bella lotta: soprattutto però, Ligabue ha una bellissima penna, è vero in quello che fa, e poi Cesare Cremonini, che ultimamente ci ha incantati. Poi, come dicevo, c’è tutta una serie di artisti che apprezziamo molto, da Calcutta ai Marta sui tubi, i Tre allegri ragazzi morti, I ministri… A livello internazionale, un nome su tutti è quello dei Coldplay.
Una curiosità: perché REMIDA?
È nato da un insieme di tre note di uno dei nostri primi pezzi, re, mi e do, ma suonava male, così abbiamo cambiato il finale è l’abbiamo scritto in maiuscolo e tutto attaccato, pensando che nessuno lo avrebbe ricollegato al personaggio mitologico, invece è la prima cosa che ci chiedono.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Domanda “marzulliana”, perché ribellione può voler dire tutto e nulla. Per me, vuol dire riuscire a tirar fuori la vera natura senza cadere negli estremismi, e vale in tutto, musica, politica, vita quotidiana. La ribellione, quella vera, richiede intelligenza: non serve mettersi a strillare per far sentire le proprie ragioni, ma la rivoluzione va portata nel silenzio. Purtroppo, è il contrario di quello che sta accadendo oggi, con tutta quella “cagnara” che c’è lì fuori a cominciare al mondo politico.

BITS-RECE: Ligabue, Made In Italy. C'era una volta Riko…

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Si fa presto a dire Ligabue. Dopo più di 25 anni di canzoni, uno pensa di conoscerlo, almeno per un po’, per il suo modo di usare la voce, la scrittura, la stesura degli accordi. E lui invece ti spiazza pubblicando un disco al di fuori degli schemi, quantomeno i suoi, e lo intitola semplicemente Made In Italy. Roba che prima di ascoltarlo, uno si immaginava un album che raccontava l’Italia nelle sue vette e i suoi abissi, ma pur sempre nello stile “del Liga”. Invece…
Invece Ligabue è arrabbiato, forse come non lo era mai stato prima, neanche con Mondovisione, dove pure una certa rabbia veniva fuori. La sua è però una rabbia mista alla delusione per un paese “che fa finta di cambiare e intanto resta a guardare”, come canta in La vita facile, il pezzo che apre il disco. E poi c’è comunque l’amore per questa terra.

Una foschia di sensazioni che Luciano ha riversato in quello che, per sua stessa dichiarazione, si può considerare un concept album, il primo della sua carriera.
Il collante è proprio quello del racconto delle piccolezze e dei drammi italiani, non però dal punto di vista del cantautore Ligabue, ma di Riko, una sorta di suo alter ego, un uomo pressato dalla vita, quello che lui sarebbe diventato se la sua sorte non gli avesse riservato la vita che ha avuto. Quello arrabbiato che racconta è quindi idealmente questo Riko, è lui a prendersela con la superficialità dilagante, i politici che promettono “più figa e meno tasse”, ed è ancora lui quello che al venerdì intima agli altri di non rompergli i coglioni.
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E proprio in questo gioco di specchi viene il bello. Perché in Made In Italy, del Ligabue che eravamo abituati a sentire c’è poco. Non proprio nulla, ma molto, molto meno rispetto al solito. Già G come giungla avrebbe dovuto darci qualche sentore, perché un pezzo con quei suoni il Liga non lo aveva mai fatto.

Ci sono un po’ di suoni muscolari, potenti, molto belli tra l’altro, che avevano riempito la scena con Mondovisione, e ci sono alcuni pezzi classici “alla Ligabue”, come appunto La vita facile, Vittime e carnefici e anche il pezzo che dà il titolo all’album, ma in mezzo ci sono riferimenti molteplici, come The Who e il loro Quadrophenia. Ma non ci sono pezzi d’amore e mancano le rapide pennellate di parole con cui Ligabue era solito descrivere scene di realtà.
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La storia di Riko passa attraverso un matrimonio comatoso, un linguaggio duro come mai prima, la frustrazione per la politica e il mondo del lavoro sempre più precario, e poi una brutta avventura con un poliziotto che gli procura qualche punto in testa e qualche minuto di celebrità mediatica, fino al lieto fine di Un’altra realtà, questo sì in perfetto stile Ligabue: “non ho dormito / ma ho visto l’alba / ecco che spunta / un’altra realtà”.
Non so dire se tutta questa impalcatura del concept e di Riko mi ha davvero convinto, forse lo spaesamento è troppo grande e forse Made In Italy non è il lavoro di presa più immediata di Luciano Ligabue, ma suona piuttosto come un disco di passaggio.
Certo è che quando Ligabue “fa Ligabue” la stoffa del fuoriclasse torna fuori.

A febbraio Ligabue torna nei palazzetti

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Mentre si scalda l’atmosfera per l’arrivo di Made In Italy, il prossimo 18 novembre, Ligabue ha annunciato il Made In Iitaly – Palasport 2017, in partenza da Roma il 3 febbraio.

3 e 4 febbraio al PalaLottomatica di Roma
14 febbraio al Pal’Art Hotel di Acireale (CT)
20 febbraio al Palasport di Reggio Calabria
24 febbraio al PalaFlorio di Bari
27 febbraio al PalaSele di Eboli (SA)
3 marzo al PalaMaggiò di Caserta
6 marzo al PalaEvangelisti di Perugia
10 marzo al Modigliani Forum di Livorno
13 e 14 marzo al Mediolanum Forum (Assago) di Milano
17 marzo al PalaTrieste di Trieste
20 marzo all’Adriatic Arena di Pesaro
22 e 23 marzo al Nelson Mandela Forum di Firenze
28 e 29 marzo al Pala Alpitour di Torino
1 aprile alla Fiera di Brescia
7 e 8 aprile all’Unipol Arena di Bologna
10 aprile al 105 Stadium di Rimini
19 aprile al Palaonda di Bolzano
21 aprile all’Arena Spettacoli Fiera di Padova
24 aprile al Palaprometeo di Ancona.

I biglietti per il Made In Italy – Palasport 2017 saranno disponibili in prevendita su www.ticketone.it dalle ore 11.00 di domenica 9 ottobre e acquistabili nei punti vendita abituali a partire dalle ore 11.00 di martedì 11 ottobre.