BITS-RECE: Anohni, Paradise EP. Un paradiso infernale

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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A meno di un anno dalla pubblicazione di Hopelessness, il suo angoscioso album di debutto sotto il nome di Anohni, l’artista britannica non placa i suoi tormenti e completa il cerchio con Paradise, EP di sei tracce figlie legittime delle precedenti per testi e sonorità.
Un progetto dedicato al mondo femminile, come si può subito notare dalle immagini di copertina (che vanno poi a riempire le pagine interne del booklet dell’edizione fisica), in cui compaiono i volti – anzi, i “ritratti”” – delle eroine scelte da Anohni, oltre ad Anohni stessa, a cui si aggiungono i nomi di altre “combattenti” nella pagina dei ringraziamenti. Due su tutte, Shirin Neshat e Naomi Campbell.

Il mondo dovrebbe essere nelle mani di una donna, di questo Anohni è più che convinta, perché millenni di potere maschile hanno portato la Terra sull’orlo della rovina.
Se con Hopelessness la cantante si era scagliata con rabbia sulla società e la politica, andando a colpire anche un bersaglio di solito immune come Obama, qui il suo sentimento si fa ancora più disperato e la sua rabbia verso il genere umano ancora più collerica.
I brani raccontano di un mondo impregnato di dolore, tragedia, un paradiso ribaltato dalle angosce e privato di ogni senso di umanità; viene chiamata in causa la religione e le violenze perpetrate suo nome (Jesus Will Kill You), si dice che i nemici si annidano ovunque (You Are My Enemy) e nel brano di chiusura sembra profilarsi uno scenario apocalittico per tutta la Terra (She Doesn’t Mourn Her Loss).

Archiviati ormai i tempi di malinconia e idillio di Antony & The Johnsons, la voce di Anohni resta balsamica, confermandosi come una delle più indipendenti e disturbanti della scena internazionale, mentre i suoni oscillano tra l’inquietudine nera e sinfonica del pezzo di apertura, contorni quasi liturgici, fino a episodi volutamente ruvidi e cacofonici.
Là dove di solito il pop e l’elettronica si soffermano sulla bellezza e restano spesso in superficie, la musica di Anohni scava nella coscienza e si fa portatrice di denuncia e disillusione, nel nome di un femminismo che non resta confinato alla richiesta di parità tra i sessi, ma grida battaglia per la salvezza di tutti.

A completare il progetto, un settimo brano, I Never Stopped Loving You, non inserito nel disco e disponibile solo inviando alla stessa Anohni una mail (anohni@rebismusic.com) contenente “un cenno anonimo di fragilità, una frase o due che racconti ciò che vi sta più a cuore, o delle vostre speranze per il futuro”.

BITS-RECE: Arcade Fire, Everything Now. Come se gli ABBA facessero indie

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Se un compito di un artista è quello di sorprendere e cogliere in contropiede, gli Arcade Fire hanno fatto un ottimo lavoro. Parlando dell’ultimo album della band canadese, Everything Now, non c’è infatti recensione che non si soffermi – in maniera più o meno scomposta – sulla virata sonora dei nuovi brani.
Da eroi dell’indie-rock a nuove stelle del dancefloor, questo è il riassunto generale del giudizio della “critica”, dopodiché i pareri si dividono tra quanti inorridiscono come alla vista dell’Anticristo e quanti affermano che non è poi così malaccio. Nessuno o quasi però sembra fare salti di gioia, segno che forse la sterzata è stata un po’ troppo brusca e ardita oltre misura.
In effetti, ciò che colpisce di Everything Now sono le bordate elettroniche che riversa addosso, i tappeti di sintetizzatori, tutta quella valangata di memorie di anni ’70 e ’80 che saltano fuori da ogni accordo senza possibilità di controllo.
Un situazione che si spiega bene se si leggono i crediti del disco, dove alla voce produzione compare anche il nome di Thomas Bagaalter, cioè una delle due metà dei Daft Punk.
Ci sono echi fin troppi spudorati degli ABBA (il paragone lo hanno fatto tutti, ed è in effetti impossibile da ignorare), omaggi alla disco music, melodie ipnotiche di synthpop che sembrano prese in prestito direttamente dall’epoca di Moroder.
Si balla, si canta, e si trova anche il tempo di scherzare un po’ su questa bislacca società tutta concentrata sui social e sull’autopromozione.
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Se poi sia stata una scelta davvero così disgraziata non saprei dire: a me basta ascoltare la titletrack (prima e seconda parte) o Put Your Money On Me (il vero pezzone da salvare in playlist) per sapere che questo album è molto più onesto di tanta altra roba seriosamente indie.

BITS-RECE: Raniss, A due passi dalla fine. Burrasca rock

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Nuvoloni plumbei e vento di burrasca all’orizzonte dei Raniss.
Dopo l’EP Niente di positivo, la band toscana si affaccia al primo album tra le acque turbolente di un indie rock sanguigno e violento, minaccioso già dal titolo, A due passi dalla fine.
Un album che paga un grande ed evidente tributo al grunge, e che potenzia (a volte fin troppo) voci e chitarre per dar vita ad atmosfere claustrofiche e disperate. Un universo in burrasca e tormentato, come testimoniano anche i testi di pezzi come la title track, Mantide, Tempesta, Senza sogni.
Storie di disillusione, amori malati, presentimenti quasi apocalittici, in cui si inserisce, perfettamente coerente con l’animo dell’album, la personale rivisitazione di Something In The Way dei Nirvana.
I riferimenti sonori corrono diretti alla band di Kurt Cobain, a certi momenti degli Smashing Pumpkins e a tanta produzione dei nostrani Verdena.
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Un disco con gambe robuste, ma forse non ancora abbastanza lunghe per correre lontano: quello che manca davvero è un pezzo che dia la spinta decisiva verso l’alto, quel pugno allo stomaco che ci si aspetta da un momento all’altro e che almeno per ora resta sospeso a mezz’aria.

BITS-RECE: Angelo Sava, Miasmi. Disperazione e estasi

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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I progetti indipendenti – in qualunque modo vogliate considerare questo termine – sono quasi sempre quelli che riservano le sorprese più grandi, perché nella loro immensa libertà hanno la possibilità di spaziare come matti, andando a dissotterrare sensazioni inaspettate.
Prendere Miasmi, ultimo lavoro di Angelo Sava. Sei brani, ognuno con un titolo di una sola parola che già da sola la dice lunga sulla tensione visionaria del suo autore – Merlo, Disagio, Miasmi, Circe, Brusio, Carestia -.
Dentro c’è un magma sonoro fatto di chitarra stirate, distorte, accartocciate, graffiate, al punto che il confine tra suono e rumore sembra sempre sul punto di perdersi. E poi eccola prendere forma poco a poco come un fluido, la melodia, e con lei il canto, disperatissimo e allucinato farsi strada sotto strati di corde di metallo.
Miasmi è un disco soffocante come il più caldo dei tramonti d’estate, è pauroso come la notte più delirante, oscuro come il labirinto più intricato, violento come il più forte dei pugni nello stomaco. Un progetto che non si lascia intrappolare da nessuna catena di genere e – ovviamente – di mercato, ma vaga libero, liberissimo, e quando ti incontra ti si butta addosso senza pietà.
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Ci sono dischi fatti per far sentire bene chi li ascolta, e dischi fatti per sconvolgere. Miasmi sembra meravigliosamente fatto per quest’ultimo scopo.
D’altronde, l’estasi non deriva forse dal caos?

Pumarosa, tra impegno e suggestioni

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Tra i progetti più interessanti su cui porre lo sguardo nei prossimi mesi c’è sicuramente quello dei Pumarosa, band inglese capitanata dalla carismatica Isabel Munoz-Newsome.
Nei mesi scorsi hanno rilasciato un primo EP di quattro brani, ottima anticipazione di quello che sarà il primo vero album, a The Witch, atteso per il prossimo 19 maggio.
Il sound dei Pumarosa si piazza proprio al centro di quel pop che prende un po’ dall’elettronica e un po’ dall’indie-rock, e che sul profilo Facebook ufficiale la band definisce “industrial spiritual”: una musica che non indulge troppo a giri armonici eccessivamente accessibili, ma che non si dimentica nemmeno di essere in fondo pop. Una miscela oscura, onirica, ipnotica, sensuale, che – assicura chi li ha visti all’opera – la band sa trasferire molto bene nei live.
Nei loro testi, i cinque ragazzi di Londra – che hanno però affinato il loro suono in Italia, pare all’interno di un cinema abbandonato – pescano anche da tematiche di carattere politico e sociale, come la difesa delle donne, celebrata nel quasi liturgico e imponente singolo Priestess.
Con buona speranza, The Witch potrebbe essere uno di quei debutti capaci di dare un bel scossone a tutta l’aria intorno.


BITS-RECE: Sarah Stride, Schianto EP. Magnifico incantesimo

BITS-RECE: radiografia di un disco n una manciata di bit.
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Tremate, tremare, le streghe sono tornate! Anzi, la strega, visto che qui ce n’è una sola, ma pronta a lanciare un incantesimo potentissimo.
Lei è Sarah Stride, e il nuovo filtro magico è miscelato nei quattro brani che formano Schianto EP. Un’alchimia di suoni che mescola la tradizione italiana con il cemento delle chitarre distorte e di derivazione quasi industrial.
Un incantesimo che non lascia scampo, ti afferra con le sue mille mani tra atmosfere caotiche, ossessive, rumorose, oscure a tratti goticheggianti.
A intonare questo sabbah è Sarah, con la sua voce greve, secca, arsa, che non può non rimandare i ricordi a quella di Nada.
Una danza violenta, paurosa e anche, indiscutibilmente, ammaliatrice.

BITS-SANREMO: "Scusa, ma… Ermal chi??"


di Francesca Binfarè
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Non c’è spazio più adatto delle pagine virtuali di BitsRebel per scrivere di Ermal Meta, che con il brano Vietato morire ci ricorda la necessità di disobbedire e di ribellarci alla violenza.
La sua canzone è un inno alla vita e alla ricerca della felicità, e sta piacendo molto. Ermal ha vinto la serata dedicata alle cover del Festival di Sanremo, con un’emozionante interpretazione di Amara terra mia di Domenico Modugno. Sommerso di complimenti da ogni parte, immaginiamo cosa si è scatenato sui social.
Bene, ho pensato, adesso non mi chiederanno più “Ermal chi?”. Invece poi ho cambiato idea: visto che lo chiedono in tanti, vuol dire che molte persone l’hanno notato, che la sua musica è arrivata (Simona Ventura e la ‘pancia’ della gente insegnano). Non che fosse mai stato un problema spiegare chi fosse e cosa avesse fatto, anzi. L’ho considerato bravissimo fin dagli inizi e – per un certo periodo – sottovalutato, quindi ne ho parlato sempre volentieri. E poi, se c’è un senso profondo in questo lavoro io lo trovo nel proporre quello che sento di bello e nel cercare di farlo conoscere: io e gli amici di BitsRebel, che così gentilmente mi ospitano in questo spazio, abbiamo l’opportunità di vivere la musica quotidianamente, e possiamo assicurarvi che di cose belle e persone interessanti ce ne sono. Come Ermal Meta, che adesso sta su un palcoscenico importante, forse il più importante. Vi assicuro che questa platea il ragazzo con il fiore all’occhiello che ci ricorda di ribellarci, se l’è sudata.
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Grazie a Sanremo, dicevo, in tanti mi chiedono “Bravo, ma chi è?”. Rispondo qui:
• La fame di Camilla era una band conosciuta, che ha calcato palchi importanti (Heineken Jammin’ Festival, per dire), ma non così famosa – eravamo dalla parte dell’indie pop. Potrei aggiungere purtroppo, ma comunque il succo è che quando nominavo Ermal Meta quasi nessuno sapeva che fosse il cantante del gruppo, e autore principale delle canzoni.
La Fame di Camilla ha partecipato a un Festival: 2010, con Buio e luce. Per Ermal era il secondo Sanremo, dopo quello come chitarrista degli Ameba 4.
• “Ermal chi?” è continuato anche quando si è affermato come autore. Ha scritto canzoni per Marco Mengoni, Patty Pravo, Chiara Galiazzo, Elodie, Lorenzo Fragola, Francesco Renga – e qua mi fermo. Vi assicuro che queste canzoni le conoscete. Negli ultimi due anni le sue canzoni hanno guadagnato 6 dischi di platino e 4 d’oro… Visto che lo conoscete?
Ermal ha scritto le canzoni che hanno vinto The Voice (per Alice Paba) e Amici (per Sergio Sylvestre).
• L’anno scorso ha partecipato al Festival di Sanremo, con Odio le favole. Arrivando terzo tra le Nuove Proposte, pubblicando l’album Umano, facendo un tour. Mettetevi in ginocchio sui ceci: è arrivato terzo tra le Nuove Proposte a Sanremo 2016, e oggi chiedete “Chi è?”. Si scherza, ma questo vuoto di memoria non sarà più concesso: si è ‘carneadi’ una volta sola nella vita, dai.
Ermal Meta è al suo quarto Festival e finalmente è entrato di nome oltre che di fatto nella categoria dei Campioni.
Il suo nuovo album si intitola Vietato morire, come la canzone che ha presentato al Festival. La perla è Piccola anima, che canta in duetto con Elisa.
I suoi fan sono I lupi di Ermal.
Ah, visto che mi è stato chiesto: sì, il nome è suo, è quello vero (è nato in Albania). Ecco chi è Ermal Meta. Per il resto, andatelo ad ascoltare: potreste scoprire che quelle che scrivete in giro, su Facebook, sui diari, qualcuno anche nei tatuaggi, sono frasi sue che senza fatica sono diventate nostre.
Foto: Luis Condrò

BITS-RECE: The xx, I See You. Tra il metallo e il cristallo

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Si fa presto a parlare di indie rock, rock elettronico, indie electronic. Quando ti trovi davanti a un album come I See You dei The xx non che restare spiazzato è incantato, soprattutto perché questo terzo lavoro prende molta distanza – non solo temporale – dal precedente Coexist, uscito ben cinque anni fa.
Quando sono arrivati, della loro musica si diceva in giro che avesse suoni minimali, e lo si diceva così tanto che loro stessi, per diretta ammissione, hanno finito per crederci portando il concetto quasi all’esasperazione con il secondo album.
Con I See You però il passo cambia un po’, e le ambizioni si fanno sentire.
Dentro al nuovo album ci sono brani con percussioni è basso che fanno tremere la carne e le ossa, come Dangerous, messa in apertura, ci sono interventi brillanti come il singolo Say Something e A Violent Noise, momenti trasognanti come Lips, e poi il nocciolo dell’album, con la terna di Performance, Replica e Brave For You che ti lasciano lì imbambolato ad ascoltarle nel loro incanto su sfondi metallici e decori di cristallo.
Un incanto che dopo le nuove vibrazioni danzerecce di On Hold e I Dare You, si ritrova nella chiusura perfetta, epica e gelida di Test Me.
Non so se è più rock, più indie o più elettronico: di certo, I See You è gran bel disco.

BITS-CHAT: Una fotografia con Tiziano. Quattro chiacchiere con… Emanuele Dabbono

BITS-CHAT: Una fotografia con Tiziano. Quattro chiacchiere con… Emanuele Dabbono

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Con la musica ha iniziato ad averci a che fare molto prima, ma probabilmente la maggior parte di noi ha conosciuto Emanuele Dabbono nel 2008, quando ha partecipato alla prima edizione italiana di X Factor, quella di Giusy Ferreri per capirci, classificandosi terzo.
Poi in televisione lo abbiamo visto pochissimo, anche se lui la musica non l’ha mai lasciata. Da allora di cose ne sono successe tante: cinque album, due libri e una nuova esperienza, quella di autore, arrivata dall’invito di una persona molto speciale, che di nome fa Tiziano e di cognome Ferro.
Un sodalizio iniziato nel 2013 con un brano scritto per Michele Bravi, e proseguito con un contratto in esclusiva che ha portato a Incanto, fino a Valore assoluto, Il conforto e Lento/Veloce, tre brani di Il mestiere della vita, ultimo album dell’artista di Latina.
Un percorso incredibile insomma.

Quello che manca adesso è solo una cosa, una piccolissima cosa: una fotografia, che però va meritata.
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Partiamo dall’inizio: come nasce la collaborazione con Tiziano Ferro?

È una storia abbastanza singolare, forse è la prima volta che la racconto: io e Tiziano ci conosciamo dal 1998, quando abbiamo partecipato entrambi al concorso dell’Accademia di Sanremo, che avrebbe poi portato al palco dell’Ariston tra le Nuove proposte del Festival. Siamo arrivati in finale, ma nessuno dei due è stato selezionato: siamo però stati contattati da Alberto Salerno (produttore discografico e marito di Mara Maionchi, ndr) e da quel momento abbiamo preso strade diverse. È capitato poi di incontrarci di nuovo qualche volta, come nel 2008, quando io arrivai in finale nella prima edizione di X Factor e presentai il mio inedito, Ci troveranno qui, mentre lui aveva scritto con Roberto Casalino l’inedito di Giusy Ferreri, Non ti scordar mai di me. Era già una superstar, io invece continuavo la mia gavetta nell’indie rock. Mi fece un sacco di complimenti e mi disse che non mi avrebbe perso di vista: al momento non ci ho dato troppo peso, mi sembrava una di quelle frasi di circostanza che si dicono, invece nel 2013 mi ha contattato per dirmi che gli avrebbe fatto piacere se avessi scritto un brano per Michele Bravi (vincitore della settima edizione di X Factor, ndr), perché gli piaceva la tenerezza che mettevo nella scrittura. Da lì è nata Non aver paura mai, e da quel momento lui ha deciso di mettermi sotto contratto come autore. Lo conosco da quasi vent’anni, e mi fa quasi sorridere pensare che non ho nemmeno una foto insieme a lui: non l’ho mai considerato come “vip”, ma ho sempre ammirato la sua dimensione umana. Credo sia anche per questo che mi apprezza e mi fa piacere che quando mi cita non mi definisce un suo autore, ma un suo amico.
Una storia davvero singolare, e molto bella!
Mi sembra un po’ una storia romanzesca di una volta, quando l’interprete aveva il suo autore di riferimento: un po’ come Vasco Rossi con Gaetano Curreri, io vorrei essere la sua firma. Se mai un giorno faremo una foto insieme, mi piace pensare che sarà lui a chiedermela, e allora vorrà dire che me la sono proprio meritata.
Di fatto, Tiziano Ferro è stata quindi la prima persona per cui hai scritto un brano.
Esatto: dopo il brano per Michele Bravi, Incanto è stata la seconda canzone che gli ho mandato ed è il mio primo vero successo, un po’ inaspettato tra l’altro, perché è un brano in tre quarti dalle atmosfere irlandesi. Il primo giorno di programmazione, su RTL dissero “Ecco il nuovo singolo di Tiziano Ferro, a metà strada tra i Tazenda e i Modena City Ramblers”, e in quel momento ho subito pensato che lo avrebbero tolto il giorno dopo dalla programmazione, invece il pubblico l’ha scelto e lo ha amato.
I tre brani che hai scritto per Il mestiere della vita sono stati composti pensandoli già per Tiziano?
Essendo il mio editore, devo fargli leggere tutto quello che scrivo: ogni volta che mi sembra di aver scritto qualcosa di buono glielo mando sperando che gli piaccia, ma finora non ho mai scritto pensando al destino della canzone, perché la strada che prende un brano è imprevedibile. Io so solo che devo fare del mio meglio, devo cercare qualcosa che abbia il germe della bellezza, che possa essere cantato in uno stadio e duri alle mode e al passare del tempo. La bellezza è l’unico diktat che ci siamo imposti, con la libertà di spaziare dal pop al rock, al soul al jazz. Dobbiamo schiacciare play e sentire noi per primi il brivido.

So che Il conforto non era stata pensata come un duetto.
È stato Tiziano a trasformarla: quando quest’estate ho sentito la versione finale del brano, in duetto con Carmen Consoli, è stata un’emozione indefinibile. Carmen è la prima artista femminile che canta qualcosa scritto da me: sono partito decisamente dall’alto!
Come nasce di solito un tuo brano? Da cosa parti quando scrivi?
Negli ultimi tre anni ho modificato drasticamente il mio modo di lavorare: sono un amanuense, scrivo tantissime canzoni, tutte catalogate in maniera forse un po’ maniacale, e oggi sono a quota 1571 brani. Una mole impressione, ma solo di una trentina vado davvero fiero. Da Capricorno, mi serve una “palestra enorme” per raggiungere un risultato minimo che mi soddisfi. Se agli altri bastano due o tre tentativi, a me ne servono almeno trenta. Scrivo da quando avevo 12 anni e mi piace mantenere la componente ludica: non ho orari o schemi prefissati, mi piace variare ogni volta, partendo dalle parole oppure da un giro di accordi di chitarra o basso, oppure usando Pro Tools, lo stimolo arriva sempre inaspettato. In genere, mi piace comunque avere un titolo da cui partire, come un chiodo a cui poter appendere un quadro.
Il conforto si chiude con troppo, troppo, troppo amore. Ma quand’è che l’amore diventa”troppo”?
L’amore è un’arma a doppio taglio, ci fa sentire migliori e in armonia con tutto ciò che ci circonda, ma è anche capace di toglierci il fiato e di farci sentire mancanti in qualcosa. Esiste un amore totalizzante e un amore destabilizzante, che diventa possesso, gelosia. Il conforto è anche una canzone sul coraggio di ammettere che una storia è finita, prendere in mano il proprio cuore significa prendere le distanze da una situazione che ci ha fatto soffrire.

A proposito del tuo lavoro, tu parli di “compito vitale” e il titolo del tuo ultimo libro è Musica per lottatori: come inquadri oggi la figura del cantautore all’interno della società?
Lottiamo sempre, fin dai primi istanti di vita, si viene al mondo tirando fuori i muscoli. Nel libro, la musica di cui parlo non è fatta di note, ma di parole. Penso che oggi il potere della musica non sia legato solo alle note, agli accordi, alla leggerezza o alla drammaticità che quelle note possono suscitare: oggi le canzoni devono trovare forza nelle parole, devono essere riscoperti i testi, perché se c’è una cosa che abbiamo ereditato dalla tradizione musicale e culturale italiana è proprio il bagaglio dei nostri cantautori, che sceglievano come spendere le proprie parole. Fossati ha detto che il futuro sarà di quella persona che un giorno userà una parola che nessuno ha ancora usato e la farà suonare come una cosa semplice per tutti. Credo molto nel potere curativo delle parole, unite alla musica possono fare del bene.
Negli ultimi anni hai suonato spesso all’estero, soprattutto in America, e hai anche inciso due album in inglese, Vonnegut, Andromeda & the tube heart geography e Songs For Claudia: mai avuta la voglia di tentare la strada fuori dall’Italia?
No, l’ho sognato, ma non ci ho mai davvero pensato. Sono abbastanza conscio dei miei limiti: suonare all’estero mi ha aiutato ad approcciarmi in maniera diversa alla scrittura e al pubblico e soprattutto mi ha fatto aprire la mente eliminando i paletti tra i generi, proprio come fa Tiziano, che passa dallo swing all’r’n’b al soul. Dovremmo imparare a farlo di più qui in Italia, perché spesso anche dai nostri grandi nomi arrivano tentativi un po’ provinciali di approcciarsi a generi diversi, si fatica ad uscire dal seminato. Per me suonare a Central Park o ad Harlem è servito soprattutto come esperienza personale, che ripeterei se ne capitasse l’occasione, ma senza cercare qualcosa di più.

In futuro su cosa vorresti concentrarti?
Sulla carriera da autore, senza per questo interrompere il lavoro da cantautore: come autore però sto provando un senso di libertà che prima raramente avevo vissuto. E poi veder arrivare nella vita delle persone qualcosa che hai scritto tu è una soddisfazione immensa: fa impressione sentire il pubblico di San Siro cantare qualcosa nato in una stanzina.
A questo punto, ho una curiosità da togliermi: che effetto fa sapere che il pubblico spesso non sa chi sia l’autore di un brano ma attribuisce le parole del testo solo all’interprete?
Io sono la persona sbagliata per rispondere, dovresti chiederlo a quegli autori che non vengono mai nominati dai loro interpreti. Posso dire di essere un privilegiato, perché Tiziano non perde occasione di fare il mio nome, addirittura lo ha fatto a Sanremo, roba che quando capita caschi dal divano. Mi sento totalmente appagato per quello che faccio.
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Per chi ti piacerebbe scrivere?
Purtroppo quelli per cui vorrei scrivere lo sanno fare benissimo da soli! (ride, ndr) Se dovessi pensare a una collaborazione, mi piacerebbe moltissimo lavorare con Niccolò Fabi, persona che stimo molto, e Francesco Gazze, il fratello di Max e autore dei suoi testi. Mentre dormi è una delle canzoni più belle scritte negli ultimi anni, che non ha nulla da invidiare a Il cielo in una stanza.

Hai già fatto programmi con i Terrarossa, la tua band?
L’anno prossimo dovremmo tornare con un nuovo album, abbiamo già scelto le canzoni e mi piacerebbe che fosse un disco acustico: ho un sacco di influenze che arrivano da quel mondo, Damien Rice, Counting Crows, ho suonato per le strade in Irlanda e mi piacerebbe far sentire un po’ di quell’esperienza, lontano dai featuring e dai tentativi di avvicinarmi alle radio. Vorrei fare un disco onesto, un piccolo gioiellino, magari registrato tra la sala e la cucina con i microfoni aperti.
Cosa ti resta oggi di X Factor?
Un’esperienza che mi ha dato popolarità e la possibilità di far diventare lavoro una passione, ma anche un’esperienza violenta, lontana dal mio modo di essere e di vivere la musica, perché mi sono dovuto confrontare con le cover ed è stato un po’ limitante. Essendo la prima edizione, non sapevo bene cosa mi aspettava e dopo la prima puntata volevo venir via, invece sono arrivato in finale. Considerando tutto, oggi non so se lo rifarei.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
La ribellione più grande oggi è essere se stessi: può sembrare una frase fatta, ma il più grande anticonformista è chi non guarda tanto fuori per vedere come sono o cosa chiedono gli altri, ma scava molto di più dentro se stesso. In tutti gli ambienti, musica compresa, si resta incanalati in parecchi schemi, e solo quando si va alla ricerca della propria essenza si fanno cose veramente originali, vale a dire uguali a ciò che si è. E essere uguali a se stessi è il più grande atto di “fanculo” che si può gridare al mondo.

BITS-CHAT: Una chiavetta e un mistero. Quattro chiacchiere con… Honor

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Di lei si sa poco, anzi pochissimo.
Si sa che per fare musica ha scelto di chiamarsi Honor, è svizzera, ha la passione per i cavalli e l’arte, ha iniziato a scrivere per tirar fuori il dolore che aveva dentro e ha iniziato a fare musica per un autentico colpo di fortuna.Tutto è partito nel 2015, quando la ragazza si trovava in vacanza in Inghilterra e ha smarrito una chiavetta su un treno. Tutto si sarebbe potuto fermare lì se la chiavetta non fosse stata recuperata dal vlogger LukeIsNotSexy, che non ha resistito all’idea di sbirciarne i contenuti e ci ha trovato dentro una canzone. Colpito dalla voce dell’interprete e senza avere altri riferimenti, Luke ha fatto l’unica cosa in suo potere: un appello sul web, #namethegirl, presto balzato tra i trend di Twitter e che per un’altra casualità è capitato proprio sotto gli occhi della diretta interessata.

Da quel momento si è aperto nella vita di Honor un nuovo, inaspettato capitolo: è arrivato il primo contratto discografico, il primo singolo, Never Off, ha visto la luce riscuotendo un certo interesse tra i media e le classifiche Oltremanica. Fino ad arrivare alla pubblicazione del primo EP anche in Italia.
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Cosa c’era su quella chiavetta da cui è partito tutto?
C’era dentro di tutto e di più, come succede in genere con gli archivi USB: immagini mie, foto prese da internet, e poi c’era una versione ancora abbozzata di Never Off. Era l’unica canzone presente, tutte le altre sono venute dopo.
Prima che la chiavetta venisse persa è ritrovata, c’era già il sogno di dedicarti alla musica?
Mah, non proprio. Forse era un po’ nascosto, non lo volevo ammettere, non mi sarei certo aspettata che potesse succedere tutto questo è il mondo della musica lo vedevo troppo lontano da me. La musica la tenevo solo come passione personale, una cosa solo mia, intima.
E quali progetti avevi fatto per il tuo futuro?
Mi occupavo e mi occupavo tuttora di una galleria d’arte: mi muovo nell’ambito dell’arte contemporanea e mi piace andare alla scoperta di nuovi artisti. Il mio futuro lo immaginavo lì.
Il progetto dell’EP come si è sviluppato?
Dopo la vicenda della chiavetta, sono stata contattata da Spaceship, un’agenzia di Management che si è incuriosita del caso. Da lì è iniziato il lavoro con i produttori dell’etichetta NEXT3. Mi piace scrivere, e avevo già da parte alcuni testi. Musicalmente abbiamo seguito la strada dell’indie pop straniero che è l’ambiente in cui mi sento più a mio agio.
La scrittura in inglese si deve a questo?
Mi viene più spontaneo scrivere in inglese, i pensieri sono più precisi, senza troppi giri di parole.
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Sei riuscita a vedere come lavora il mondo discografico inglese?
In Inghilterra i musicisti sono molto “artisti”. In Italia la discografia si sta sviluppando soprattutto intorno ai talent, che ci sono anche in Inghilterra, ma forse non hanno la stessa centralità. Le possibilità sono aperte anche per chi sceglie altre strade.
Tu la strada del talent non l’hai mai considerata?
No, non sarebbe la mia strada: io vivo tutto in maniera personale e il talent sarebbe un’esposizione in cui non mi sentirei a mio agio. La competizione nella musica può essere stimolante, ma non è quello che cerco.
Mi sembra che tutto l’EP sia attraversato da un contrasto di luci e ombre: è così?
Ho voluto dare un’aura di mistero ai brani, così come ho scelto di non parlare molto di me, e in effetti di Honor non si sa molto, non mi sono voluta mostrare, a livello personale e di immagine. Fa tutto parte di un’idea precisa del progetto, così come quella dei video.
La mia traccia preferita è You And My Nightmares.
L’idea è partita da una storia d’amore, ma può essere letta in senso più ampio: tutti abbiamo degli incubi nella vita, per qualcuno può essere una persona, per altri una situazione. Mi piace pensare che tutti possano ritrovarsi in quel brano.
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Honor: da dove arriva questo nome?
Tempo fa, una persona a me molto cara mi ha detto che qualunque cosa avessi scelto di fare, avrei dovuto farla con onore. Una frase che mi è rimasta nel cuore, e mi è sembrata una buona scelta per il mio nome.
Dopo questo EP c’è in previsione un album?
In realtà ci sono tante opzioni: oggi la soluzione dell’EP sembra funzionare, per cui non è escluso che l’anno prossimo arrivi un altro singolo con un altro EP.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
La ribellione può avere tanti significati: per me è far proprio un obiettivo e portarlo avanti per farlo diventare realtà, senza guardare in faccia a nessuno.