Si chiamerà PUNK il secondo atteso disco di inediti del cantautore romano Gazzelle, in uscita il 30 novembre.
Questa la tracklist: 1. Smpp 2. Punk 3. Sopra 4. Tutta la vita 5. Sbatti 6. Non c’è niente 7. OMG 8. Scintille 9. Coprimi le spalle
Il disco, prodotto da Federico Nardelli, è stato anticipato dai singoli Tutta la vita e Sopra.
Dopo il grande successo dei live nei due club più importanti d’Italia (all’Atlantico Live di Roma e al Fabrique di Milano) prodotti da Vivo Concerti a marzo 2018 e andate interamente sold out settimane prima degli show, Gazzelle è pronto a tornare sul palco nel 2019 con due date esclusive nei palazzetti più importanti d’Italia: venerdì 1 marzo 2019 al Mediolanum Forum di Milano e domenica 3 marzo 2019 a Roma, al PalaLottomatica.
Biglietti disponibili su Ticketone.it e in tutte le rivendite autorizzate.
Fanno un indie pop sul “deprimente andante”. Anzi, lo hanno definito loro stessi “PresammalepoP”. Sono i Geller, un duo romano emergente che da qualche settimana si sta facendo conoscere con Pausa, il singolo d’esordio: un racconto di serate ordinarie, tra serie TV, chiacchiere su Whatsapp e qualche sano bicchiere.
Per conoscerli un po’ di più abbiamo chiesto a Valerio, una delle due anime del progetto.
Partiamo dalle basi: chi sono i Geller? Siamo Valerio e Dario, siamo di Roma, quartiere Centocelle, e scriviamo canzoni.
Come avete deciso di iniziare a fare musica insieme? Sulla vostra pagina Facebook si parla di una festa in una casa che “fluttuava”… Sì, è stato uno di quei momenti in cui sei un po’ per aria e ti arrivano idee brillanti. E niente, io avevo dei testi scritti e altri da scrivere, li ho fatti leggere a Dario e lui li ha messi in musica. Sintetizzando molto, è andata così.
È quella stessa sera che è nata Pausa? È nata qualche giorno dopo. È stata la prima canzone che abbiamo scritto e che ha dato il via al disco.
Sempre sulla vostra pagina Facebook, alla voce “genere” si legge PresammalepoP 90’s. Cosa vi piace ascoltare? Tante cose, dall’indie al pop, dagli Arctic Monkeys agli 883, così tanto per dire.
Prima di diventare i Geller quali erano i vostri progetti? Abbiamo avuto altre band, ma di tutt’altro genere. Suoniamo comunque da quando abbiamo quattordici anni, forse anche da prima. Di esperienze ne abbiamo fatte.
Da dove avete preso il nome? DaRoss Geller, un personaggio della serie Friends.
Dopo Pausa cosa aspetta i Geller? Uscirà il video fra pochissimo, e poi il nuovo singolo il 23 ottobre.
Ruberai per me una barca di carta Un Boeing 737 fatto di Scottex Per i tuoi oceani di Fanta Per i disastri che ho in testa
Con Giorgia, singolo che anticipa l’uscita del nuovo album Zero Glitter, Maru visita un universo fanciullesco e quasi fantastico, come quello dipinto nei quadri di Chagall o raccontato nelle pagine di Calvino. Il brano è nato in seguito alla lettura di una fiaba per bambini scritta da un precedente amore della cantautrice siracusana, ed è un invito ad accettarsi e a rivelare quello che si è, senza paura.
“Inizialmente immaginavo questo brano in modo molto romantico e lo portavo in giro solo con l’ukulele, strumento che mi ha sempre permesso di comporre in modo semplice e delicato, ma col tempo mi sono lasciata alle spalle quel tipo di composizione”. E grazie all’esperienza e alla complicità di Fabio Grande, lo strumento hawaiano non è più il protagonista, ma regala un tocco di solarità accanto ai sintetizzatori, alle tastiere e alla batteria suonata da Francesco Aprili, in un’atmosfera squisitamente indie.
Nata a Siracusa, trasferita a Bologna per dedicarsi alla musica e con studi di liuteria a Cremona, Maria Barucco, in arte Maru, scrive canzoni dal 2012 e ha già alle spalle un primo album omonimo. Nonostante la giovane età, ha diviso il palco con Motta, Canova, Colapesce, Ex-Otago. A novembre è attesa l’uscita del suo secondo album, Zero Glitter.
Il 5 ottobre uscirà 2008-2018, tra la via Emilia e la Via Lattea, il doppio album che raccoglie il meglio de Le luci della centrale elettrica, il progetto fondato da Vasco Brondi nel 2007. Ma per il cantautore ferrarese questa sarà l’ultima pubblicazione sotto questo nome. Con un lungo post su Facebook Brondi ha infatti annunciato, e motivato, la fine di un’avventura musicale che in questi pochi anni di attività si è rivelata una delle più promettenti della nuova scena italiana.
Non un vero addio alle scene, ma la voglia di cambiare e di guardare altrove, non prima di aver salutato il pubblico.
Anticipata dall’inedito Mistica, la raccolta 2008-2018, tra la via Emilia e la Via Lattea racconta il viaggio delle Luci della centrale elettrica seguendo un percorso musicale e diviso in due parti: sul primo disco trovano posto quindici canzoni scelte tra quelle contenute nei dischi pubblicati in questi anni, l’inedito Mistica e la rilettura, anch’essa inedita, di Libera, canzone scritta da Vasco Brondi e data in prestito agli amici dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Sul secondo disco c’è invece spazio per una rilettura molto particolare ed attuale di quindici canzoni del repertorio impreziosite dalla presenza di due cover, una di Francesco De Gregori e una dei CCCP.
Un “live in studio” che nasce dal lavoro fatto negli ultimi sei mesi con la band formata da Rodrigo D’Erasmo (violino), Andrea Faccioli (chitarre), Daniel Plentz e Anselmo Luisi (percussioni), Daniela Savoldi (violoncello), Gabriele Lazzarotti (basso) e Angelo Trabace (pianoforte).
Nei dieci anni di attività, Le luci della centrale elettrica ha pubblicato cinque album e un EP, a cominciare da quel primo lavoro omonimo autoprodotto che ha portato all’attenzione del pubblico la scrittura libera e visionaria di un giovane artista proveniente veronese di nascita ma cresciuto a Ferrara, fino ad arrivare ai piani alti delle classifiche nazionali con Costellazioni e Terra. Ma accanto alla musica ci sono stati anche due libri e una graphic novel.
Da novembre, Vasco Brondi partirà poi per il suo primo tour teatrale: dopo dieci anni e centinaia di concerti, dai piccoli bar dei primi tempi ai grandi spazi degli ultimi tour, la scelta di spostarsi negli spazi teatrali è sembrata la più logica e coerente, assecondando proprio quell’evoluzione che riguarda anche la poetica delle canzoni e l’attenzione per l’aspetto musicale.
Questo il calendario: 17 novembre – FOLIGNO, Auditorium San Domenico 19 novembre – FIRENZE, Teatro Obihall 23 novembre – ROMA, Auditorium Parco della Musica 1 dicembre – BARI, Palamartino 2 dicembre – PESCARA, Teatro Massimo 7 dicembre – ROMA, Auditorium Parco della Musica 8 dicembre – TORINO, OGR Torino 10 dicembre – MILANO, Auditorium di Milano 11 dicembre – BOLOGNA, Teatro Duse 15 dicembre – GENOVA, Teatro della Corte 16 dicembre – FERRARA, Teatro Comunale Abbado 20 dicembre – REGGIO EMILIA, Teatro Valli
Poi Le luci delle centrale elettrica si spegneranno per sempre, lì, tra la via Emilia e la Via Lattea.
Angelo Zanoletti, Emanuele Santona e Filippo Arganini sono tre ragazzi di Parma che nel 2013 hanno dato vita al progetto I segreti. A fine 2015 il gruppo si è autoprodotto in acustico il primo omonimo EP e nei due anni successivi ha aperto i concerti di alcuni degli artisti di riferimento della scena indie italiana come L’officina della camomilla, Selton, Giorgio Poi e La Rappresentante di Lista.
Il 12 ottobre esce il loro primo album di inediti, Qualunque cosa sia, anticipato nei mesi scorsi da Vorrei soloeTorno a casa e soprattutto L’estate sopra di noi, il brano che nelle ultime settimane sta facendo conoscere la band come una delle realtà più in vista del nuovo panorama indie italiano.
I Geller sono nati durante un home party, “mentre tutta casa fluttuava”, o almeno questo è quello che sembrava ai loro occhi. Hanno sentito nello stesso momento la voglia di raccontare la loro vita e quella degli altri, di serate con la testa per aria passate a mandare messaggi su Whatsapp finchè I Giga di internet non finiscono, di amori straziati e del futuro che fa paura.
Non avevano nient’altro di importante da fare, nient’altro da dire che non fossero semplicemente i Geller.
Per presentarsi al pubblico hanno scelto Pausa, un brano di “PresammalepoP 90’s”, come lo chiamano loro. Sonorità IT-pop chiaramente e candidamente in minore, un po’ di elettronica indie e un testo che parla di confessioni davanti a un bicchiere, una pizza, serie TV e una fissa per Damien Rice.
Non so se sia proprio un caso che i Thegiornalisti, uno dei gruppi italiani di punta degli ultimi anni, arrivi proprio adesso a intitolare un album LOVE, cioè AMORE, cioè il termine più pop e più abusato da sempre nella storia della canzone. Mi spiego meglio. Tutti gli artisti, dal più becero esponente del tunz tunz al più ermetico rappresentante dell’indie, hanno parlato d’amore: ognuno a suo modo, ma l’hanno fatto tutti. Nessuno però, o quasi, lo ha dichiarato in modo così palese come fa ora il gruppo di Tommaso Paradiso, mettendo anche il titolo in capslock su texture arcobaleno. Senza esagerare nell’attribuire a questa scelta chissà quale missione ideologica, sembra però significativo che uno degli album più attesi dell’anno – quello che dovrebbe dare alla band la consacrazione definitiva – arrivi portando un messaggio d’amore proprio nell’era del web-bullismo, e proprio quando uno dei temi più scottanti nell’attualità è quello dell’integrazione, mentre dall’altra parte dell’oceano si pensa ad alzare muri.
Ripeto, non voglio dare al titolo di un album pop un significato che forse non ha nelle intenzioni originali, ma la sensazione è che l’amore in questione non sia solo quello che ti fa palpitare il cuore e arrossire le guance. Un amore, questo, che trova tra l’altro una perfetta incarnazione nella titletrack del disco, cantata e raccontata con quello spirito innocente che di solito si perde dopo l’adolescenza. L’amore di cui c’è più bisogno e di cui Paradiso ha parlato nelle prime interviste per presentare il disco ha più a che fare con qualcosa di universale, fraterno, umano nel più ampio senso del termine. Forse un disco non può fare molto, ma è almeno uno spunto in più per ragionarci sopra. E ben venga.
Dopo Ufficialmente sold out, i Thegiornalisti erano attesi al varco: a loro spettava solo decidere come arrivarci, e la scelta qualche piccola sorpresa l’ha riservata.
Nel nuovo album c’è – e questa è la più grande conferma – la scrittura di Paradiso, quella fin troppo chiara, quella che si sofferma sulle piccole cose di tutti i giorni, quella che riesce a essere un po’ scazzata (Felicità puttana) e un po’ gigiona e tenerona (Love). C’è l’ironia amara (Zero stare sereno) e la poesia spiazzante (il paragone incisivo con “la Nazionale del 2006” in Questa nostra stupida canzone d’amore è destinato a lasciare strascichi, e in chiusura con Dr. House arriva un’insapettata carrellata di celebrità ed eroi televisivi).
Musicalmente invece, l’apertura è affidata nientemenoche a un’epica sinfonia orchestrale, che lascia poi subito spazio alle sfaccettature del pop, da quello alla Coldplay dei primi tempi di New York a quello che ha il volto dell’indie o la scattante allegria elettronica (Milano Roma, L’ultimo giorno sulla terra). Nel finale di Dr.House , dopo un inizio di solo pianoforte e un salto elettronico, si sconfina addirittura nel gospel, e funziona.
Questa è la definizione dell’amore, secondo i Thegiornalisti almeno.
Come il pennello per il pittore, anche la penna di ogni cantautore ha un suo tratto diverso e per questo riconoscibile. Quello con cui Riccardo Sinigallia firma la sue canzoni è un tratto sottile, a volte solo accennato, tratteggiato, che sa diventare così lieve da quasi scomparire.
La poesia, perché alla fine di poesia si tratta, di Sinigallia procede per accenni, evoca, racconta ritratti di vita senza mai alzare troppo il tono, usa l’ironia quando può e malinconia dove serve. E non si preoccupa di essere “di moda”.
A quattro anni da Per tutti, il cantautore romano torna con un nuovo lavoro di inediti, Ciao cuore, titolo che riprende una verace espressione romanesca con cui “ci si saluta e con una punta di cinismo e di ironia si vuole comunicare l’idea che ciò che serviva dire lo si è detto”. Ciao core. Nove brani che sono in realtà ritratti di umanità, fatti di rabbia, leggerezza, denuncia, tenerezza, memoria, slegati da forme prestabilite, canonizzate o standardizzate, per sperimentare le “infinite potenzialità che una canzone può avere”. L’apertura dell’album è affidata a So delle cose che so, che ha per testo una poesia di Franco Buffoni intercettata per caso su Facebook; c’è il ricordo di Dudù, la tata di Capo Verde, privo però di quella malinconia che ci si aspetterebbe; c’è la vena schietta che celebra la bellezza vuota in Le donne di destra; c’è il pensiero amaro per la morte di Federico Aldrovandi in Che male c’è, scritta a partire da una lettera di Valerio Mastandrea, attore e amico di lunga data del cantautore. E’ in questa voglia a uscire dagli schemi che Sinigallia parla della “serendipità” che ama trovare nella musica: “Alla base di tutta la mia produzione riconosco l’involontarietà, perché, come diceva Carmelo Bene, la volontà è nefasta nell’arte. L’unica mia volontà sta nella disponibilità a cogliere l’attimo creativo, quel flash che possiamo chiamare ispirazione, e che guida anche le scoperte della scienza. E’ quello che Calvino ha riassunto bene: ‘Stavo attraversando la strada e ho capito tutto'”.
Nonostante questa voglia a non farsi ingabbiare nei canoni dello schema-canzone, alla base della sua formazione non può esserci però che la lunga e solida tradizione del cantautorato italiano: “Il cantautorato ha smesso di offrire contenuti negli anni ’80, e il suo spazio è stato occupato dall’indie, che quando è nato, negli anni ’90, era semplicemente la musica che funzionava bene nei locali e non interessava alle case discografiche. Oggi la tendenza è quella di esasperare i piccoli dettagli, e anche il nostro cantautorato si è un po’ cristallizzato nei cliché. ‘Il dentificio è finito e lei mi manca’, è un po’ tutto così: una formula che all’inizio poteva essere interessante, ma che poi è stata portata all’esasperazione”. Un’evoluzione (o involuzione?) che Sinigallia ritrova anche nella trap, l’altro genere che attualmente va tanto di moda insieme all’indie: “All’inizio la trap ha portato un linguaggio nuovo, perché il rap aveva stancato. I primi lavori della Dark Polo Gang erano interessanti ed erano onesti: forse è stato il fenomeno più onesto dopo i Sangue Misto. Poi però anche la trap ha iterato gli stessi contenuti e si è trasformata in un cliché. Oggi è un’epidemia, una moda da cui sono fuori, per fortuna”. Trap e indie imperanti nella musica, ma non solo: “Se guardiamo la scena politica, li ritroviamo anche lì: Salvini non è forse la trasposizione della trap? Per i toni che usa potrebbe essere il Young Signorino. E Di Maio non è forse l’esponente indie della politica? Musica, calcio, politica, tutti sono collegati”.
Da sempre attento a preservare l’equilibrio tra il testo e la musica, Sinigallia non può che guardare con un po’ di rammarico la situazione attuale del pop italiano, in cui il rapporto tra le due componenti si è sbilanciato a favore del suono, lasciando al testo un ruolo secondario: “La musica pop italiana ha generato un grande equivoco culturale, perché è diventata una sorta di franchising di un marchio statunitense o inglese: gli americani portavano da noi i loro prodotti, che per come erano stati costruiti stavano in piedi benissimo, funzionavano. L’errore è stato voler trasferire quelle stesse strutture e quei suoni nella nostra lingua, che però è molto diversa dall’inglese: le parole sono state incastrate a forza dentro a strutture che non erano adatte, arrivando a produrre contenuti che non vogliono dire assolutamente niente, ma che i discografici hanno appoggiato. Anzi, se qualcuno provava a proporre qualcosa che avesse un minimo di contenuto veniva guardato quasi con spavento. E’ un equivoco letterario portato avanti per 20 anni e tipicamente italiano, perché nel pop francese questo non succede. L’indie ha per fortuna interrotto questa tendenza, anche se poi si è chiuso nei cliché di cui parlavo prima”. Pur avendo sempre rispettato il gioco tra testo e suono, Sinigallia riconosce che negli anni qualcosa è cambiato nella sua produzione: “Ho sempre avuto una consapevolezza istintiva per rispettare questo rapporto, ma negli anni ho maturato più consapevolezza. Da dopo il mio primo disco penso di aver affinato l’aspetto letterario, ho colto un elemento che prima invece mi sfuggiva, la poesia”.
Rapper, ma con non poche somiglianze a un cantautore, di stanza a Bologna, Friz nasce pochi giorni dopo il crollo del muro di Berlino. Dopo essersi interessato di antropologia, aver girato le cucine di mezza Italia e aver superato le fisiologiche fasi dei primi progetti musicali in gruppo, decide di fare da sé, dando vita a qualcosa di personale che riuscisse a mescolare le metriche del rap e della slam poetry alle sue cicatrici. Nel 2015 l’EP, Rose Sélavy?, nel 2016 nuove canzoni con l’amico, produttore e polistrumentista Fed Nance (Mezzosangue, Andrea Mirò, Lorenzo Kruger, Crista, altri). Proprio da qui nasce un sodalizio artistico tra i due che porta alla creazione di canzoni dal sapore analogico, simili a fotografie strappate che raccontano i drammi di tutti i giorni. Caratterizzate dal grande utilizzo di echo a nastro, chitarre storte e tastiere 8bit.
Un esempio eloquente di questa scrittura è Subaffitto, l’ultimo singolo di Friz, in uscita per INRI. Il video, dice, “è stato girato in qualche ora occupando una stanza in subaffitto a Bologna. Una cassa di birre da mezzo in lattina, una amatriciana sui piatti di plastica, qualche dito di gin e un tot di amici che cazzeggiano. Dove i poster si staccano da soli”.
Orietta Berti è un genio del male. Abituati a vederla nelle ridanciane vesti di opinionista al tavolo di Fabio Fazio o a sentirla intonare le note cristalline di Fin che la barca va, pensavamo tutti di averla inquadrata come una delle più rassicuranti icone della musica pop italiana, nel senso più ampio che l’aggettivo “pop” possa assumere. E invece Orietta, oltre a essere una delle cantanti nostrane più intonate, è anche un genio del male, e in totale spirito sperimentale ha duettato con Mara Redeghieri, figura centrale dell’indie italiano, nonché voce degli Üstmamò. L’occasione dell’incontro è stata la riedizione di Cupamente, brano già inciso nel 2017 dalla Redeghieri per il suo ultimo album Recidiva uscito nel 2017, e ora reinterpretato in duetto.
Un incontro inconsueto, ma che in un certo senso aveva già un precedente: la band aveva infatti inciso Finkela barkava, personalissima rivisitazione del più celebre successo di Oriett. Lo scorso ottobre Mara ha quindi deciso di proporre alla collega una collaborazione per Cupamente: “Orietta Berti è un pezzo della mia terra, una stagione politica sana di un’Emilia ancora semplice e diretta. Lei è tutto quello che io non sono, ha la tecnica del bel canto, è una voce che vorrei avere, una delle grandi interpreti, invulnerabile. E’ una presenza che assicura semplicità e franchezza. E’ meglio di come sono abituata ad immaginarla: dolcissima, sicura, imperturbabile, sincera. La stimo molto e mi piacerebbe che ascoltasse le mie canzoni e se ne incapricciasse un poco”, ha spiegato Mara, motivando anche la scelta del brano: “Sembra una ballata per bambini grandi e penso che il timbro di lei e le sua presenza approfondiscano una sfera onirica, sognante, legata a leggende e favole di lupi cattivi”.
Dal canto suo, Orietta non si è fatta ripetere due volte l’invito: “Prima di questo duetto non avevo mai incontrato Mara personalmente. Ho scoperto una brava cantante, una brava autrice e una collega con un suo mondo musicale molto interessante da raccontare: chiaro, sagace ed immediato. Mara parla dei tempi che stiamo vivendo. Tempi duri, tempi cupi. E lo fa con uno sguardo attento e mai banale, avvolgendoti con ironia e senso della realtà. Sul piano umano è una creatura speciale. È emiliana come me, quindi legata alle tradizioni, con radici salde. Mi è sembrato come se ci conoscessimo da sempre. Mara è un simpatico folletto, capace di stupirti ogni volta. È stata una bella esperienza ma anche una piacevole sorpresa perché con questa collaborazione oggi ho un’amica in più”.