Sfera Ebbasta, l’importanza di (non) essere rapper

Ciabatte di gomma e calze bianche, un paio di (finti) denti d’oro, capelli rossi e occhiali Gucci: Sfera Ebbasta non è un rapper e quello che fa non è rap. Lo ripete lui stesso più volte durante l’incontro con la stampa tra le pareti della Universal per presentare il suo nuovo lavoro.

O meglio, magari rapper lo è per quelli che ascoltano “quella musica”, perché in fondo è più semplice parlare di rap e rapper, ma lui in quella figura non ci si sente. Il nuovo album, che poi in realtà è il primo disco ufficiale, perché il precedente XDVR era stato rilasciato in free download sul suo sito, arriva sul marcato sotto i marchi della più potente major mondiale e di Def Jam, label americana specializzata in hip hop e r’n’b che da poco si è aperta anche al mercato italiano (se si esclude una breve parentesi intorno al 2000).

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Il disco si intitola semplicemente Sfera Ebbasta e come in passato vede la produzione del compagno di avventure Charlie Charles: “Il lavoro tra me e Charlie è diviso perfettamente a metà: le sue basi senza i miei versi non sarebbero un cazzo e i miei versi senza la sua musica non sarebbero un cazzo”.

Tra le note di prestigio del progetto, il featuring con SCH in Cartine Cartier, superstar del rap francese: “È stato lui a contattare me, e faccio fatica a rendermi conto che tutto questo stia succedendo”.

Sfera Ebbasta racconta tanto della periferia di Cinisello Balsamo (si veda alla voce Ciny), grande comune a nord di Milano dove Gionata Boschetti è nato e cresciuto, ma parla anche d’amore, naturalmente secondo la visione di un ragazzo di 24 anni che non si dedica esattamente al pop.
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Il motivo per cui Sfera non si sente fino in fondo parte della scena rap italiana è che lui non fa semplicemente rap, ma trap, un sottogruppo del genere che in Italia non è mai stato particolarmente seguito o comunque non ha mai raggiunto certi livelli di notorietà: “La scena rap italiana era ormai tutta fatta da copie di copie di copie, tutti i rapper erano indistinguibili uno dall’altro. Poi siamo arrivati noi, siamo esplosi, e adesso tutti vogliono fare quello che facciamo noi, diventando così nostre copie. La nuova scena di cui faccio parte non rientra nel rap perché non ha quelle ideologie, non cerchiamo la rima a tutti i costi nei testi e anche nel look non cerchiamo una determinata immagine, tutto cambia: anni fa chi faceva rap si distingueva perché andava in giro ci i pantaloni larghi, oggi saranno 10 anni che non vedo un rapper vestirsi così”. 

Qualcuno vedendo la tracklist si è chiesto come mai nel disco non ci sono i featuring con i grandi nomi dell’hip hop italiano – primo fra tutti Marracash, fondatore di Roccia Music, il collettivo di cui Sfera fa parte – e come mai vi sia un numero così ridotto di canzoni, un po’ anomalo per un album rap: “Questa è la tipica mossa del rapper medio italiano: ti guadagni un po’ di notorietà e allora per far vedere che sei arrivato nel disco ci metti i featuring con quelli più grandi. Questo forse era quello che il pubblico si aspettava, e proprio per questo non l’ho fatto. Non sono un rapper, sono un’altra cosa. I featuring con i grandi arriveranno, adesso voglio che chi compra quest’album lo faccia perché sono io, non per il nome dell’ospite. Per quanto riguarda il numero delle tracce, ho preferito pubblicare meno canzoni piuttosto che fare un disco di cui non fossi davvero soddisfatto. Questo è il mio disco, sono io che decido, nessuno può dirmi cosa devo fare”.

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Certo il coraggio e la sicurezza di sé sono virtù che non gli mancano, come quando ammette candidamente di non essere portato per lavorare, doversi alzare ogni mattina e sentirsi dire cosa fare, ma di aver considerato la musica il suo unico obiettivo.

Ma oggi che ha pubblicato un album con una major, che i ragazzi per strada lo riconoscono, che i suoi video fanno milioni di visualizzazioni su YouTube, nella sua vita va tutto liscio? Non sono arrivati anche nuovi problemi?
“Beh, more money, more problems, come dice Jay Z. O forse non era lui?”
“Era Notorious”, lo corregge una giornalista in sala.
“Ah già, Notorious! Ecco, lo vedete che non sono un rapper?”

AVANTGUARDIA: il 15 settembre uno speciale live show tra suoni e immagini

Si svolgerà giovedì 15 settembre alla Santeria Social Club di Milano (Viale Toscana 31) la presentazione live ufficiale di AVANTGUARDIA, avveniristico ed innovativo progetto audio – visivo ideato dal noto produttore e musicista Shablo insieme a Mace e ai director Ok Rocco e Pepsy Romanof.

Un progetto totalmente made in Italy che affianca suoni e immagini in un mondo di suggestioni liquide e oniriche.
Nato dalla sinergia collaborativa di tre differenti entità produttive (Thaurus, Except ed Hello Savants!) e sotto l’attenta guida dei tre suoi padri fondatori, Avantguardia è un’incubatore crescente di idee in cui il connubio sensoriale di video e musica rappresenta il presupposto creativo e fondativo dell’intero progetto.
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Al fine di raccontare a fondo la musica degli artisti coinvolti, il team futuristico di Avantguardia ha viaggiato in tutto il mondo per più di tre anni tra Alaska, Giappone, Stati Uniti, Korea del Sud e Islanda, raccogliendo immagini, sensazioni ed emozioni per poi convergerle in piece visive che completano i brani.

Dall’hip hop all’elettronica, il roster artistico di Avantguardia si avvale della collaborazione di numerose personalità contraddistinte da percorsi differenti: per la prima volta produttori e musicisti si riuniscono così per far sentire la loro voce con l’intento di dare massima espressione alla libertà musicale in ogni sua forma.
Dai veterani Shablo e Mace sino a Luca Dimoon, Nko Drumz, Izi e ai producer più influenti della nuova generazione internazionale, sono già oltre 30 gli artisti, tra produttori e musicisti della migliore scena musicale contemporanea, che hanno deciso di aderire con entusiasmo al collettivo Avantguardia.
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Per lo speciale Audio Cinema Live Show alla Santeria Social Club saranno moltissimi gli artisti e gli ospiti presenti che si alterneranno sul palco per sorprendere il grande pubblico con esplosive e inedite performance live.

Ai live farà seguito un lungo aftershow fino alle prime luci del mattino: a calcare il palco saranno inoltre gli eccezionali dj set di Polezsky, Not For Us e degli Ackeejuice Rockers, duo veneto reduce dal successo delle aperture del “Lorenzo Negli Stadi Tour” che attualmente si sta preparando per affrontare il nuovo “USA Tour 2016”.

Disponibile in free dowload e in streaming su Spotify, Apple Music, Soundcloud e anche sul canale video Youtube, Avantguardia ha fin ora all’attivo due compilation, Apogeo e Perigeo e nei prossimi mesi il progetto continuerà pertanto ad arricchirsi di inediti e nuovi contenuti audio – video che trasporteranno l’utente in una dimensione quasi onirica.

Tutte le info sul progetto sono disponibili a questo link.

La serata del 15 settembre è a ingresso libero
Inizio show ore 22:00

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Un nuovo Slogan per Moreno

C’è una cosa di cui a Moreno non si può non rendere meriti: la sincerità.

In un mondo in cui si fa tanto in fretta a dare dei venduti agli altri rivendicando per sé una purezza di stile e un’onestà intellettuale pressoché assoluta, lui torna sulle scene con un album che si intitola Slogan e lo dice chiaro e tondo, “sono un cantante, ma anche un prodotto”.
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Sua massima priorità, afferma, è oggi quella di allargare il proprio pubblico e far girare al massimo raggio la sua musica, senza preoccuparsi di dividere tra cosa sia pop e cosa sia rap, e soprattutto senza il peso di dover dare spiegazioni alle eventuali critiche di colleghi. Perché tra rapper, o presunti tali, che si concedono alle lusinghe della pubblicità o dei talent, il mondo dell’hip hop “brutto e cattivo” in Italia sembra latitare. E come potrebbe non saperlo lui, che si è guadagnato la vittoria ad Amici, primo in assoluto tra i praticanti di hip hop?

Ed eccole allora qui queste nuove 12 canzoni prodotte da Big Fish per ritornare di moda, come recita lo slogan – ça va sans dire – in copertina, mentre il booklet è un tripudio di simil spot pubblicitari in cui il prodotto-Moreno viene venduto e celebrato come miglior detersivo/salsa di pomodoro/marca di cereali. Ironia, certo, ma anche la consapevolezza che oggi fare musica implica dover rendere conto alla major, forse prima ancora che ai fan. È il marketing bellezza, verrebbe da dire.
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Per questo terzo disco, più di quanto non avesse già fatto, il ragazzo ha messo da parte i cliché del rapper puro in favore di un’apertura verso le melodie e i ritornelli pop (se quest’estate vi siete imbattuti in Un giorno di festa potete capire di cosa si parla) e ha rinunciato a ogni collaborazione per lasciare spazio alla sua scrittura. Unica eccezione, Deborah Iurato, che vinse Amici nell’anno in cui Moreno partecipò al talent in qualità di coach.

Enorme punto di orgoglio, la produzione firmata dal gigante Big Fish, che si è fatto carico dell’intero progetto.

BITS-CHAT: La mia semplice complessità. Quattro chiacchiere con… Nesli

BITS-CHAT: La mia semplice complessità. Quattro chiacchiere con… Nesli
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“Ma se io mi ricopro di tatuaggi e mi faccio fotografare in copertina mezzo nudo, voi la mia musica la ascoltate?”

Nesli questa domanda l’ha buttata lì così, nel bel mezzo della chiacchierata. Una domanda che ha posto direttamente lui e che non può non lasciare stupiti, sorpresi, interdetti per la sua schiettezza. In effetti che i tatuaggi sul corpo di Nesli siano prolificati a dismisura negli ultimi due anni non è certo un dettaglio, lo si era già visto l’anno scorso a Sanremo, e lo si vede oggi sulla copertina del nuovo album, Kill Karma, dove Francesco Tarducci si è fatto ritrarre sfacciatamente a torso nudo, con il torace completamente ricoperto di inchiostro e i due medi alzati con le mani che tengono ben aperta la giacca rossa.

Ma come – direte – non era lui il rapper buono, quello che “il bene genera bene”? E adesso ci si presenta così spudorato? Sì, è lui, e che il bene genera bene lo crede ancora, oggi come ieri. E allora perché questa copertina? Narcisismo? Mah, forse un po’, dopotutto a Nesli si possono muovere tutte le critiche di questo mondo, tranne quella di non essere un brutto figliolo e di non potersi permettere di fare bella mostra del proprio corpo. Ma il gioco sta proprio qui, nel voler fare quasi mercificazione del “contenitore” per far arrivare la musica. Una verità che governa le regole del pop da sempre – quasi alla pari tra uomini e donne – ma che molto raramente viene rivelata con tanta limpidezza.

Nesli però è così, ti spiazza: tu credi di avere davanti un qualsiasi cantante piacione e ti ritrovi invece a parlare con un sorta di un animaletto selvatico. Come quando ti dice che il suo album precedente (Andrà tutto bene) era un disco che aveva quasi “dovuto” fare, perfettamente consapevole che non lo rappresentasse fino in fondo, perché nella sua testa c’era già l’idea di Kill Karma, il secondo capitolo di una trilogia che si concluderà verosimilmente l’anno prossimo: in Kill Karma Nesli ha voluto uccidere se stesso (il suo karma), togliere ti mezzo definitivamente il rapper per far posto al cantautore. Ma per arrivare a questo punto ha dovuto passare per la strettoia di Andrà tutto bene, con la partecipazione a Sanremo.
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Cosa è successo tra Andrà tutto bene e Kill Karma? Il cambiamento è evidente…
In passato ho sempre scritto con gli occhi degli altri, in questo caso invece ho scritto con i miei occhi, tutto è riconducibile a un fatto, un giorno, un nome. Mi piace far credere di fare tutto a caso, ma in realtà niente è lasciato al caso: ho voluto che questo album arrivasse dopo il libro perché già nel libro mi ero raccontato attraverso la scrittura, ora lo faccio attraverso la musica. Ho anche già pensato al prossimo disco, quello che chiuderà la trilogia: sarà molto visivo, fumettistico, ho già pensato alla grafica e alla copertina, e ci sono almeno sei o sette pezzi pronti. Lo lancerò in maniera particolare: mi sono inventato un alter ego che ucciderà definitivamente Francesco Nesli Tarducci, che da quel momento non esisterà più. Ho una visione molto dark e maledetta di questo progetto, e ho dovuto renderla pop il più possibile.

In un’epoca in cui si ragiona per singoli, tu pensi a una trilogia?
Io sono nato in un periodo in cui si pensava per trilogie, basta pensare al cinema. Oltre alla musica non ho altri impegni o altri passatempi, per cui passo il mio tempo a immaginarmi tutti i dettagli dei dischi, penso alla pubblicazione. Oggi invece mi sembra che tutti siano interessati alle visualizzazioni su YouTube, come se quello fosse il metro per capire se sei un artista di successo: ma se un giorno YouTube si spegnesse, cosa resterà di questi giovani artisti illusi di fare successo in questo modo? Io scrivo tutto su carta e registro subito dopo con un giro di piano. Di tutto quello che faccio resta traccia, non dipendo dai server: vivo nell’era digitale, ma sono passato dall’analogico.
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Nel 2013 avevi già portato un cambiamento forte: mentre tutti andavano verso il rap, tu con Un bacio a te e poi con l’album Nesliving vol. 3 facevi il percorso opposto. Perché allora hai sentito il bisogno di cambiare ancora?
Il karma del titolo indica un cambiamento fisico: non si tratta di un cambiamento musicale, ma di un cambiamento di materia e di materiale, perché il cambiamento musicale c’era già stato.

Ultimamente sul tuo corpo sono comparsi numerosi tatuaggi: anche questo fa parte del cambiamento?
È una provocazione: sapevo che avrei fatto questo disco con questa copertina. Non mi sono tatuato perché mi piacessero i tatuaggi, sono rimasto della stessa idea che ne avevo prima. Di solito chi si tatua lo fa per abbellirsi: io invece mi sono ricoperto di nero in maniera quasi indecente, mi sono rovinato. L’ho fatto a 35 come follia: per avere attenzione serve un bel contenitore. E allora se io mi tatuo tutto e mi metto mezzo nudo, mi ascoltate? Vi accorgete di me? Dentro di me la risposta è stata sì, la nostra società vuole questo. Volete questo da me per ascoltare il mio contenuto? Benissimo, lo faccio.

Una considerazione un po’ amara…
Amarissima.
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E se tra 10 anni ti guardi allo specchio e ti penti di questa scelta?
Mi sono pentito di tante cose che ho fatto. Questa è stata una scelta drastica, ma in fondo ogni scelta lo è: in questo caso è molto visibile perché mi sono deturpato il corpo, ma ogni scelta implica un cambiamento, un non poter tornare indietro. Potrei pentirmi di questi tatuaggi, così come potrei pentirmi di molte altre decisioni che ho preso, si tratta sempre di un sentimento, una sensazione. Per me i tatuaggi sono come le uniformi militari: chi sta in esercito ha una divisa, chi sta in marina ne ha un’altra. Anch’io ho cambiato guerra: nel 2013 dovevo portare un cambio a livello musicale, oggi cambio rotta in un altro senso. Sono un artista, un folle, e come tale faccio delle scelte folli, radicali.

Una forma di follia che io stesso non avevo colto molto bene ascoltando le tue canzoni, ma che emerge ora dalle tue parole….
Ho sempre dovuto e voluto tenerla a bada, non potevo propormi così fin dall’inizio. Dentro di me vive una schizofrenia che mi fa avere davvero tante personalità: per me essere bipolare è una specie di antipasto, io di personalità ne ho molte più di due, tutte distorte, diverse, e nel tempo non ho voluto fare niente per aiutarmi. Anche nella musica mi vedo come un prisma con tante facce, e non mi sono mai venduto per qualcosa di diverso da ciò che sono. Cantante, cantautore, rapper: sono tutto, e forse non sono niente, ma questo per me è un dono del cielo.

In questa schizofrenia sta anche la scelta di aver messo come prima traccia dell’album una canzone come Anima nera? Tu eri quello che fino all’anno scorso cantava che “andrà tutto bene”, che “il bene genera bene”. Spiazzante, direi!
In realtà sono due aspetti complementari, non possono esistere uno senza l’altro. Il mio “bene genera bene” passa attraverso le tenebre: in questo sono abbastanza un darkettone ottimista. I miei amici dicono che sono il principe delle tenebre e quando c’è troppo sole scherzano e mi chiedono di concentrarmi per far venire il brutto tempo. Sono un po’ come Carletto, il personaggio del cartone animato. Ma non potevo presentarmi da subito in questa veste “diabolica”, doveva esserci un percorso. Sono partito dal rap senza avere neanche un tatuaggio, adesso faccio pop e mi sono tatuato come uno che fa punk: un percorso affascinante direi. Sono io, nella mia semplice complessità.

 

Prima parlavi del terzo album della trilogia come di un progetto molto grafico: a livello fisico invece ti spingerai ancora oltre?
Il cambiamento radicale dei tatuaggi c’è già stato, ormai restano poche parti del mio corpo che potrei riempire, e vorrei evitare di tatuarmi le mani, il collo e la faccia: sarebbe davvero troppo e darebbe fastidio anche a me. Al di là dei tatuaggi però, il prossimo album sarà il mio paradiso dantesco, con una libertà espressiva che non mi sono mai preso finora. Ho anche un pezzo da presentare a Sanremo: ditelo a Conti!

In Kill Karma quanta libertà ti sei preso rispetto ad Andrà tutto bene?
Nel disco precedente mi sono auto inflitto una non-libertà: era una tappa obbligata che dovevo attraversare. Per me cantare è una passione, ma è anche un lavoro che implica delle dinamiche. Sapevo dove volevo arrivare, ma per farlo sapevo anche di dover passare per gradi, e non aggirare gli ostacoli come è mio solito: una di queste tappe è stato Sanremo, dove ho mostrato il primo cambiamento, mi sono staccato definitivamente dal pubblico di prima e dalla scena rap. Arrivavo da Carosello, un’etichetta indipendente, Universal mi aveva ripreso dopo avermi licenziato nel 2008, per cui per la major era come ammettere  un errore e tornare sui propri passi. La pressione che avevo addosso era altissima. Con Sanremo dovevo limitare il Nesli maledetto: Andrà tutto bene è stato realizzato in otto mesi con una squadra che non conoscevo e al cui interno c’erano delle incomprensioni, sentivo che una parte dei collaboratori non credeva in me. Dalla mia parte avevo il mio produttore, Brando, che mi spronava a continuare il lavoro perché avevamo tempi strettissimi prima di Sanremo: avrei voluto sparire, morire. Sentivo gli occhi di tutti addosso, sapevo che molti aspettavano il mio fallimento. Inoltre, Buona fortuna amore l’ho provata pochissimo prima del festival, in studio non avevamo tempo e a casa non riuscivo: la prima prova sul palco è andata malissimo perché a Sanremo si usano gli ear monitor e io non ero abituato, poi in qualche modo mi sono arrangiato e l’ho cantata, non bene come avrei potuto, ma è andata. Per Kill Karma è stato tutto diverso, non avevo i fucili puntati, non c’era Sanremo come tassello obbligato e il disco è stato fatto come volevo io. 

Se pensi alla tua vita fino ad oggi, qual è stato il più grande errore che hai compiuto?
Ne ho fatti davvero tanti: quando c’era da scegliere, io sceglievo puntualmente di fare una cazzata, non saprei dirti perché. Non so neanche se non li rifarei, forse semplicemente li affronterei in maniera meno istintiva. Una cosa che dico sempre ai ragazzi è quella di portare avanti le proprie idee, mi piacciono le persone con le idee chiare, anche a costo di intestardirsi su un unico pensiero. Non penso che per forza si debbano fare mille esperienze: non è facile trovare persone che sanno quello che vogliono senza sentire il bisogno di aver provato tutto.

Che opinione hai dei ragazzi di oggi?
Quasi tutti i giovani se ne vogliono andare all’estero, e a me viene da dire “ma dove andate tutti? Perché ve ne andate? E qui chi resta? Solo i disillusi, quelli che non votano?”. Se mi dicono di andare all’estero, io dico no, resto qua: se andare via significa evoluzione, io preferisco l’involuzione. Non ho nemmeno il passaporto! Ho viaggiato pochissimo, e mi sembra che i ragazzini di 14 anni abbiano viaggiato più di me, eppure del mondo non sanno nulla, non conoscono più di quanto non potrebbero conoscere attraverso le foto di Instagram. Nelle situazioni, il segreto non è esserci, ma starci. Mi piacerebbe vedere giovani che imparano i veri mestieri, a fare gli artigiani, a restare legati alla vita vera.
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Ti riferisci anche all’ambito musicale?
Non dobbiamo pensare di avere tutti il sacro fuoco dell’arte che ci brucia dentro. Tutti vogliono fare i cantanti, gli attori, le modelle, i broker, mentre nessuno vuole più fare il macellaio o il panettiere: e come mangiamo? In questo sono molto estremo, non si può instillare nei giovani l’idea che tutti possono fare gli artisti. Stiamo costruendo un mondo finto: tra cinque anni i social saranno modificati profondamente, tutto si sarà trasformato unicamente in business. E i ragazzi non lo sanno, nessuno glielo dice.

Se nella tua vita non ci fosse stata la musica, come l’avresti riempita?
Sarei stato un viaggiatore.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: cosa significa per te il termine “ribellione”?
Ribellione è stare fermi e riuscire a cambiare ciò che sta intorno. Ribellione è qualcosa di solido, silenzioso, fermo in una piazza, capace però di creare una manifestazione esterna.

Moreno torna (di moda) con Slogan

“Il mio terzo album è il frutto di una crescita artistica che ha il sapore di maturità. Per me rappresenta un traguardo importante: con passione mi sono impegnato a trovare slogan per far si che anche tu che mi conosci o che non mi conosci nemmeno, ti puoi rispecchiare nella storia di Moreno.”
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Così Moreno presenta il suo terzo album, Slogan, in arrivo il prossimo 2 settembre dopo essere stato anticipato dal singolo Un giorno di festa.
12 nuove canzoni “per ritornare di moda”, recita la dicitura in copertina, lasciando leggere tra le righe forse la voglia di tornare in gran forma dopo i risultati non proprio esaltanti dell’ultimo album. A produrre il tutto è nientepopoimenoche Big Fish, e questo potrebbe essere davvero il gran colpo.

Ancora qualche settimana e ne sapremo di più….

#NUOVAMUSICA: Luana, Scripta manent

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Dopo MTCPM, Luana esce con un nuovo singolo, e ancora una volta lo rende disponibile in free download sul sito luanacorino.it

Il nuovo brano si intitola Scripta manent ed è un’autentica immersione in sonorità hip hop che strizzano l’occhio all’America.

A fare il resto ci pensa il video, che porta la talentuosa firma di Luca Tartaglia: esagerato, tamarrissimo e stupendamente “versacesco”. Se strizzate bene gli occhi, forse riconoscerete tra gli ospiti del banchetto anche Romina Falconi…

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Tenete d’occhio questa ragazza, perché potrebbe darci delle gran belle soddisfazioni. Io ve l’ho detto.

BITS-CHAT: Un rap violento, che parla (anche) d’amore. Quattro chiacchiere con… Luchè

BITS-CHAT: Un rap violento, che parla (anche) d’amore. Quattro chiacchiere con… Luchè

“Un disco molto personale, con momenti introspettivi e dark: ho voluto trovare un suono che mi distinguesse da quello che c’è in giro. Ho lavorato tanto sui ritornelli. Ci sono pezzi più forti, altri più intensi, parlo anche d’amore. Non ci sono invece pezzi crudi, O’ Primmo ammore in questo senso è un’eccezione, perché non voglio ripetermi: ho voluto parlare di me, ma in modo diverso dal passato, ho messo davanti la mia persona rispetto al contesto.”

Così Luchè parla del suo ultimo album, Malammore, il terzo lavoro solista da quando nel 2012 il progetto Co’ Sang, di cui faceva parte con il collega ‘Ntò, ha cessato di esistere. Da allora sono arrivati gli album L1 e L2.

O’ Primmo ammore è stato uno dei primi brani che il pubblico ha ascoltato del nuovo disco, essendo stato inserito nella colonna sonora della serie TV Gomorra.
Già, Gomorra, proprio quella “di Saviano”, quella di Napoli, la città di Luchè, anche se ormai vive da parecchi anni a Londra.

“Spesso mi capita di spiazzare le aspettative: non sono per forza il rapper del ghetto di Napoli. Sono anche quello, ma non solo, e mi piace cambiare direzione ogni volta, far venire fuori qualcosa di nuovo, anche se all’inizio chi mi ascolta potrebbe non capire.”

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Perché scegliere Che Dio mi benedica come singolo di lancio?
Quella è una canzone che difficilmente ci si aspetta da me. Parla di un ragazzo che non si piace, ha dei complessi, sta uscendo da una relazione. Una situazione che ho vissuto sulla mia pelle, ma ognuno di noi ha delle insicurezze, tutti almeno una volta ci siamo odiati, ecco perché ho voluto scriverla.

E la scelta del titolo dell’album? Che cos’è il Malammore?
Non potevo continuare la serie L3, L4, L5… Forse in futuro ci tornerò. Malammore è stato il mio primo tatuaggio, fatto a 17 anni, ma è anche il nome di uno dei personaggi di Gomorra. E’ una parola che indica l’amore, la passione, il dramma, racchiude il mood del disco: è un amore dannato, una passione che ti annienta, come la musica per me. Rimettermi in gioco ogni volta, cercare di superarmi mi distrugge, anche se io amo la musica: amo la canzone finita, non amo il processo di creazione. Malammore è questo, un compromesso di amore e sofferenza.

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Questa sofferenza si combatte?
Sì, ma non so bene come: si combatte e basta. Io continuo a fare musica perché mi sento spronato da quelli che mi ascoltano, so che ci sono loro che aspettano le mie canzoni, e questo mi fa continuare a scriverne di nuove.

In Violento fai riferimento al fatto che alle major non piaceva la tua musica: resta il fatto però che questo album esce per Universal. Cos’è successo? Ti sei censurato per poterlo pubblicare?
No, no, la libertà che mi sono preso è stata totale. Ho firmato con Universal a disco già chiuso: negli incontri che ho avuto con i discografici per definire l’accordo, mi hanno dimostrato di aver capito che esiste un mercato hip hop fatto da un determinato numero di persone, e che quel mercato se lo dividono i vari rapper, ognuno con la propria fanbase. Quindi non è tanto importante avere un singolo radiofonico, ma è l’artista che tira: se c’è un singolo forte a disposizione meglio, ma insieme siamo arrivati alla considerazione che il pubblico segue il rapper indipendentemente dal passaggio in radio. Ecco perché non mi hanno imposto nulla. Nella canzone dico che alle major non piaccio perché il mio sound è violento, ma è sempre stato così.

Tra le collaborazioni ci sono Gue Pequeno, Baby K e CoCo: perché hai scelto di coinvolgere loro?
Con Gue Pequeno abbiamo fatto Bello, un pezzo forte, pieno di punchlines, “spaccone”, tamarro, come ama fare lui. Baby K invece l’ho coinvolta per un pezzo d’amore, Quelli di ieri: ho fatto io il beat e ho chiamato lei per la parte cantata, sapendo già che le sarebbe piaciuto. CoCo lo seguo dagli inizi, è il mio migliore amico: insieme stiamo creando il movimento “black Friday”. Per il resto, ho lavorato con il gruppo di lavoro che già mi seguiva.

Malammore è un album piuttosto lungo, con 19 pezzi: avevi tanto da raccontare?
Dopo due anni dall’ultimo album, non volevo tornare con un disco di 11 pezzi, sarebbe stato incompleto: inoltre, 3 tracce erano già uscite, per cui di fatto gli inediti sono 16. Volevo bilanciare i vari stili, le influenze. Quando scrivo, di solito scarto pochissimo: se non mi sento sicuro di un pezzo, non lo finisco neanche.

Pensi che l’hip hop sia cambiato in questi ultimi 3-4 anni di grande esposizione mediatica?
E’ cambiato molto: la nuova generazione di rapper strizza molto l’occhio all’America, molto più di quanto non facessimo noi. Tra le cose che vedo e che non mi piacciono c’è la ricerca della canzone trash, fatta per una comicità “alla Pierino e Bombolo”, come se fossimo un pubblico di cretini. Dall’altra parte, ci sono però dei rapper che hanno sonorità internazionali, che si richiamano alla Francia o, come dicevo, all’America: sono giovani, per cui magari devono crescere, ma ci portano fuori da quel fastidioso “rap all’italiana”. Il pubblico cerca dei messaggi, cerca dei leader, dei punti di riferimento, e i rapper possono essere in questo senso dei modelli.

Una domanda di rito per BitsRebel: cosa significa per te il termine “ribellione”? 
La ribellione non la definisci, la provi. In questa società, la più grande forma di ribellione è essere se stessi: oggi i ragazzi si muovo in massa, non ragionano da soli, ma per schemi. La ribellione è importante se ha uno scopo, non se è fine a se stessa: penso a Napoli, una città dove la ribellione è necessaria, perché siamo stati strumentalizzati e spesso viviamo credendo che questa sia la situazione che ci meritiamo. Per Napoli, ribellarsi vuol dire opporsi a un destino che sembra già scritto: dobbiamo ritrovare la dignità, meritiamo di avere degli input, meritiamo un sistema che funzioni, meritiamo di non sentirci inferiori. Perché in Italia quasi nessuno ha parlato dell’evento di Dolce&Gabbana che si è svolto a Napoli, mentre i media stranieri sì? Perché Napoli serve per essere strumentalizzata, per farci Gomorra: c’è razzismo, dà fastidio vedere Napoli capitale della moda, anche solo per qualche giorno. Apprezzo Saviano soprattutto quando parla di politica, meno quando analizza l’attualità: le sue denunce sarebbero state utilissime se poi fosse cambiato qualcosa, ma nella sostanza la rivoluzione sociale non c’è stata.

Nell’assopimento delle coscienze, la musica ha delle colpe?
La musica no, sono gli artisti ad averle: dipende da come si usa la musica, e oggi molti la sfruttano solo per diventare famosi. La musica potrebbe fare tantissimo, ma deve scontrarsi con queste situazioni, e con una grande ignoranza del pubblico.

Brooke Candy. La più cattiva delle popstar

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Per questione di sintesi, nel titolo di questo articolo ho scritto “popstar”, ma il mondo di Brooke Candy ruota in realtà attorno tanto al pop quanto all’hip hop, e non è raro leggere per lei la definizione di “rapper”. Resta comunque il fatto che il suo è il volto più perverso e più cattivo tra quelli attualmente in circolazione nel pop e nell’hip hop: un volto sfrontato, provocatorio e provocante, distorto, assolutamente affascinante.

Pensate alla Lady Gaga di qualche anno fa (diciamo il periodo Bad Romance/Alejandro), prima cioè che decidesse di vestire i panni di dama del jazz: outfit estremi, e un deciso gusto per il “non bello”, il blasfemo, persino il macabro (vi ricordate i teschi, i litri di sangue finto, l’abito di carne cruda?). Ecco, pensate a quella Lady Gaga e poi ripensatela al quadrato o al cubo, e avrete un’idea più o meno precisa di quello che è Brooke Candy.
Probabilmente, se non fosse arrivata Lady Gaga a buttare sul pop quella secchiata di vernice color petrolio, oggi non avremmo Brooke Candy (così come non avremmo mai avuto Gaga se non ci fosse stata prima Madonna, che a sua volta deve molto a icone come Debbie Harry, e via così all’indietro, con buona pace di tutti): questo non perché Lady Gaga abbia davvero inventato qualcosa, ma è stato il personaggio che è riuscito a dare enorme visibilità a certe scelte di stile.
Ecco, la giovane Brooke si è messa su questa strada: nonostante il confronto inevitabile, pare però che non ami essere accostata alla Germanotta, ma piuttosto ha dichiarato di ispirarsi a un’altra diva del music biz, Lil’ Kim.

Nata a Oxnard, in California, nel 1989, Brooke è figlia del direttore finanziario della rivista a tinte porno Hustler. I primi passi nella musica li ha mossi nel 2012, quando i suoi primi video sono apparsi su Youtube: fra questi c’era Das Me, che la vedeva in versione cyber con capelli fucsia e mega zatteroni. Sono arrivate le prime collaborazioni (Charlie XCX, Grimes), le prime citazioni su magazine di musica e di moda e il suo nome ha iniziato a girare.

Il primo punto di svolta è però arrivato nel 2014, quando Brooke ha fatto il colpaccio aggiudicandosi la regia dell’arcipatinato Steven Klein per il video di Opulence, il singolo – firmato anche da Sia e prodotto da Diplo – che avrebbe dato il titolo al primo EP: scenario violentissimo, atmosfere claustrofobiche, distopiche, visionarie, un’orgia di delirio e sesso. In poche hanno osato così tanto, Brooke Candy si è spinta ben al di là delle bistecche crude di Gaga, ci ha mostrato il lato più malato e perverso a cui può arrivare il pop.
Ad oggi il video conta solo 2 milioni di visualizzazioni, il disco non ha lasciato segno in classifica e il nome di Brooke Candy è rimasto nel limbo dell’underground o poco più.
Forse ci si aspettava un altro riscontro…

La ragazza non si è comunque fermata, ma anzi si è legata sempre di più al mondo del fashion, seguendo la stessa ricetta delle colleghe più celebri, ma facendo le cose a modo suo: come aveva fatto Lady Gaga nel periodo Born This Way, ha lavorato a stretto contatto con lo stylist Nicola Formichetti, un altro a cui piacciono molto le bizzarrie noir, e si è fatta splendidamente immortalare – tra gli altri – da Klein, Terry Richardson, Richard Burbridge, in servizi fotografici che difficilmente hanno lasciato indifferenti. Tra il 2015 e il 2016 ha collaborato con il colosso M.A.C. per lanciare sul mercato due linee di cosmetici.
Non bisogna certo essere Madonna per sapere quanto sia fondamentale per una popstar vendere bene la propria immagine: Brooke Candy lo fa portando il gioco all’estremo, con un’immagine potente e sfacciata, eppure bellissima. Restando perfettamente a metà strada tra pop e hip hop, Brooke li concentra anche nel suo universo visivo: più patinata di Lil’ Kim, più cattiva di Lady Gaga, molto più sporca di Nicki Minaj, ancora più eccessiva di Rihanna. 

Se volete fidanzarvi con lei, sappiate che si definisce “pansessuale”, mentre se entrerete a far parte della schiera dei suoi fan, sarete dei #FagMob.

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Nell’ultimo anno Brooke Candy ha pubblicato diversi singoli (quasi tutti accompagnati dai relativi video), molti dei quali quali finiranno probabilmente in The Daddy Issues, il suo primo album, che dovrebbe arrivare entro la fine del 2016: uscirà per la Sony e si parla di una produzione curatissima, in cui è stata coinvolta anche Sia.

Insomma, sembra arrivato anche per lei il momento del grande salto.
E io lo aspetto, con una certa impazienza.

#NUOVAMUSICA: Cecile feat. Kuerty Uyop, AfroFunky

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Dopo le barre arrabbiatissime, di N.E.G.R.A. con cui l’avevamo conosciuta a Sanremo, Cecile torna con un pezzo decisamente più solare.
Il nuovo singolo, lanciato proprio per l’estate, si intitola AfroFunky (Musica per l’Africa) ed è una commistione di leggerezza e impegno sociale: con questo brano Cecile sostiene infatti Amref, società no-profit che si occupa da 60 anni dell’Africa e che celebrerà nel 2017 una campagna dal nome “Musica per l’Africa”, mentre musicalmente si sposta su territori dancehall.

AfroFunky vede la partecipazione del duo i DJ Kuerty Uyop, mentre il video, firmato da Cosimo Alemà, è stato girato tra Piazza Vittorio a Roma (una vera kasbah multirazziale), una farmacia, la spiaggia… e una location segreta.

“Sono pigro, torno alle cover”: Giuliano Palma torna con Groovin’

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Dagli Aristogatti a Elton John, passando per Vasco Rossi.

Dopo Old Boy, uscito due anni fa, per il nuovo progetto discografico, Giuliano Palma torna al mondo delle cover,e lo fa con Groovin’. Il motivo di questa scelta è lui stesso a rivelarlo, tra il serio e il faceto: “Sono pigro, di una pigrizia che a volte rasenta l’accidia: inizialmente volevo tornare con un album di inediti, poi ci sono state delle vicissitudini personali e professionali che mi hanno tenuto lontano dalla scrittura, e la pigrizia ha preso il sopravvento: non volevo pubblicare un disco di cui non fossi convinto, così ho scelto le cover”.
Per la prima volta nella sua carriera, durante la lavorazione di Groovin’ non ha curato personalmente tutti i dettagli – a cominciare dai fiati -, ma si è affidato alle mani del nuovo team, di cui fanno parte Fabrizio Ferraguzzo, Riccardo “Deepa” Di Paola e Riccardo “Jeeba” Gibertini, perché – confessa – aveva capito di potersi fidare e di aver trovato in loro il giusto feeling, il “groove” che dà il titolo all’album.

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E lui il groove è uno che ce l’ha sempre avuto, a differenza di altri che si sono persi, distratti, e che il groove non hanno saputo mantenerlo: sono proprio queste persone quelle che, metaforicamente, compaiono sulla copertina del disco girate di spalle, mentre lui prosegue per la sua strada guardando dritto l’obiettivo (“Dicono che sono un crooner, e quindi croono“), sempre attraverso gli immancabili occhiali neri.
E proprio parlando di groove e del nuovo gruppo di lavoro, Giuliano non riesce a trattenersi dall’esprimere il rammarico e la rabbia per la fine del rapporto professionale con il suo storico collaboratore e amico Fabio Merigo: “Insieme avevamo una missione, e dopo tanti anni non avrei immaginato che finisse così, invece l’ho visto perdersi per strada per una donna. E’ stato come un tradimento”.

Nelle 13 cover dell’album non mancano le partecipazioni, come quella di Cris Cab nella versione italiana di Bada Bing, scelta come primo singolo (“Per la versione italiana la casa discografica si è rivolta a me: è la prima volta che metto in un mio album un pezzo di cui sono solo ospite”), Fabri Fibra per Splendida giornata di Vasco Rossi, riletta in chiave reggae, Clementino in I say I’ sto cca di Pino Daniele (“La presenza di Fabri Fibra e Clementino mi aiuta ad avvicinare a miei suoni un pubblico che altrimenti ne resterebbe distante: sono felice che Fibra abbia accettato, perché è un artista per nulla mondano, Clementino ha spaccato rappando in slang”), e Chiara in Don’t Go Beaking My Heart, portata al successo a Elton John e Kiki Dee (“Chiara l’ho conosciuta perché abbiamo lo stesso management: per questo pezzo è perfetta”).
Tra gli altri brani, menzione speciale meritano Eternità dei Camaleonti, You’ll Never Walk Alone, scritto nel 1945 dal duo statunitense Rodgers/Hammerstein e così popolare da divenire l’inno ufficiale del Liverpool (“Quando ci sono le partite è bellissimo vedere tutto il pubblico, dal bambino alla vecchietta con la sciarpa della squadra, intonare la canzone”), Qui e là di Patty Pravo, e Alleluja! Tutti jazzisti, tratta dal cartone animato Gli Aristogatti e già presente in We Love Disney (“Questo era il pezzo che tutti gli artisti coinvolti nel progetto volevano fare, ed è stato affidato a me!”).

A chiudere l’inedito Un pazzo come me (“Parla degli inquieti”).

Groovin’ è dedicato a Carlo Ubaldo Rossi, musicista e produttore scomparso nel 2015 in un incidente: “La sua perdita è uno strazio, non saprei definirla diversamente”.