#MUSICANUOVA: Mediterraneo, “Marenero”

#MUSICANUOVA: Mediterraneo, “Marenero”

La sensazione di libertà che si prova quando il peggio è oramai passato: Marenero è il nuovo singolo di Mediterraneo.

Il brano, prodotto insieme a Michelangelo, è fuori per Zefiro con Island Records / Universal.

Un tappeto sonoro tra funky e pop e un ritornello che trasporta nel mondo della synthwave anni Ottanta, Marenero è il racconto di una ritrovata libertà e della consapevolezza che anche i momenti difficili vanno accolti con la giusta leggerezza.

Ad accompagnare il singolo il video firmato da Alessandro Ressia e girato con una macchina a pellicola del 1950 e che traduce perfettamente il senso estetico e l’anima analogica di Mediterraneo.

Mediterraneo, al secolo Alessandro Casali, è un cantautore classe 1992. Dopo aver autoprodotto l’ep Sicilian tape (2021) e il suo primo album Hotel Miramare (2022), da aprile 2024 è in licenza con Island Records dando inizio a un percorso affiancato dalla band sia in studio che sul palco. Il suo brano Italia è fuori per Zefiro, il progetto nato all’interno di PDU da una collaborazione tra Axel Pani e lo stesso Mediterraneo.

BITS-RECE: Done, “Popcorn”. Ti porto al club

BITS-RECE: Done, “Popcorn”. Ti porto al club

 

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Si può dire che sia cresciuto a pane hip-hop, ma per il suo nuovo progetto Done ha scelto di sperimentare qualche nuovo sapore. O almeno, ha mischiato i gusti dell’hip-hop con le spezie della house music e del new jack swing.

Ascoltando infatti i cinque inediti di Popcorn – questo il titolo dell’EP – sembra chiaro che il ragazzo aveva una gran voglia di ritmo e per trovarlo ha guardato Oltreoceano.

I riferimenti sono quelli dell’America degli anni’80, brulicante di club e di dj, da cui partivano i suoni che avrebbero riempito le classifiche di tutto il mondo: un melting pot sonoro che faceva convivere hip-hop, r’n’b, funky e house sotto l’egida della libertà e della voglia di evadere.

Proprio come nelle croccanti tracce di Popcorn.

L’apertura con Scandalous imprime subito una luccicante impronta house, e nella testa iniziano a vorticare le luci della mirrorball; Denim Blu affetta il ritmo secondo i tipici stilemi del new jack swing (avete presente i successi di Janet Jackson tra anni ’80 e ’90?), Cielo rosso ha un sapore di hip-hop old school, mentre sul finale la carica dei bpm di Joan Mirò si riprende la pista.

Completano l’EP i dub mix di Scandalous e Denim Blu, per chi avesse ancora voglia di fermarsi un po’ sotto le luci stroboscopiche, fino all’alba.

Come in un club di tanti anni fa.

Le alchimie noir degli Apocalypse Lounge


L’esordio del collettivo Apocalypse Lounge è avvenuto sotto l’effetto delle alchimie “doom” del funky. E proprio Funky Doom è il titolo del brano con cui il trio di producer ha scelto di farsi conoscere al pubblico.
Un testo essenziale e ripetitivo, una voce che dà il suo contributo restando in disparte, una base che ricorda il periodo d’oro della Ninja Tune anni ’90: tutto questo è Funky Doom.

Giovanni Succi, già attivo nei Madrigali Magri e nei Bachi Da Pietra e che a questo nuovo progetto presta la voce, così descriveva il brano: “Affacciarsi sul baratro dell’apocalisse con animo danzereccio, rilassati e ben disposti (giusto una vena d’inquietudine), magari con una strizzatina d’occhio. E poi relax, fine del mondo. Tema spinosetto, lo riconosco, soprattutto per un pezzo funky. Eppure, eccolo: dal ‘funky mood’ al ‘funky doom’… alla fin fine sono solo quattro lettere in reverse”.
Giochi di parole, giochi di suoni, alchimie eclettiche, azzardi stilistici.

Creazioni ibride che tornano ora a manifestarsi in forma diversa con Two Guys, il secondo singolo prodotto dal collettivo. E’ sempre Succi a darne la personale visione: “Noir in pillole. Spy Story o piccola paranoia di provincia. Dove ci si conosce tutti, almeno di vista, dove prima o poi ci si incrocia, ci si orecchiano discorsi di passaggio, di sfuggita al bar. Più o meno tutti sai chi sono, hai dato loro un nome o un ruolo. Com’è possibile aver condiviso l’esistenza intera con due individui del tutto sfuggiti a qualsiasi schema, in un buco di città, senza mai intercettarne almeno un indizio, un sintomo di vita? Alieni forse? Sotto copertura? Cyborg? Replicanti? Droni umani? Ci stanno spiando, prendono nota di tutto con quegli occhi fissi. Sanno chi siamo, ci schedano. Dove corrono, senza correre per non dare troppo nell’occhio, perché fanno come se niente fosse. Domande senza risposte. Non ho idea di chi siano quei tizi, così simili che puoi confonderli. Forse siamo solo io e il mio doppio. O forse i primi due cavalieri dell’apocalisse arrivarono a piedi, passeggiando in centro”.

Oltre alla voce di Succi, sulla produzione firmata Apocalypse Lounge ci sono il sax soprano di Antonio Gallucci e gli scratch di Dj Argento.

Quando l’ansia si fa dura, i Typo Clan iniziano a giocare. Esce il singolo “Suck My Oh”


Suck My Oh 
è un dialogo con la nostra parte più ansiosa, nel momento in cui questa prende il sopravvento: perdiamo il controllo del corpo, il caldo diventa insopportabile e, messi con le spalle al muro, l’unico modo per affrontarla è cantarle in faccia “Suck my oh”!
Prodotto da Bruno Bellissimo, Suck My Oh è il nuovo singolo del Typo Clan, progetto nato nel 2015 da un’idea di Daniel Pasotti e Manuel Bonetti.
A fare da contrasto al tema c’è la musica: sexy nelle strofe, corale e liberatoria nei ritornelli.

Sin dall’inizio della collaborazione, il duo di Pasotti e Bonetti si è focalizzato su una produzione che desse spazio a rap, hip-hop, funky, neo soul e world music. Con questo spirito è nato il primo album in studio, Standard Cream, pubblicato il 5 gennaio 2018.
Nell’estate 2018 il Clan è entrato in studio con Bruno Belissimo per lavorare su nuovi brani e a inizio del 2019 è entrato nella famiglia Vulcano Produzioni e ha presentato un nuovo live, passando dai cinque elementi dei live precedenti a tre elementi.
Bonetti e Pasotti continuano a lavorare da soli ai loro pezzi, ma senza mai abbandonare il clan.

Dirty Spread, i sapori house-funky del trio Spaghetti Funky

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Dirty Spread
 è il titolo del primo EP del trio house-funky italiano Spaghetti Funky, uscito il 5 ottobre su Ogopogo Records su tutti i digital store e Spotify.

Cheese, Soup e Tomato Chill sono i titoli dei tre brani inclusi nell’EP, frutto dell’energia emessa in lavori di studio realizzati in analogico, marchio di fabbrica dei tre producers.
Dirty Spread presenta un mix di ingredienti house e funky, con vocals soul mescolati a dei riff di chitarre, fiati e bassi suonati da musicisti e registrati con banchi analogici.

Tomato Chill uscirà esclusivamente su vinile.
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Spaghetti Funky nasce dall’ incontro tra Simone Scaramuzzi, dj producer da più di 20 anni nel mondo dei vinili e dell’elettronica, e Andrea “Lausen” Cola, chitarrista e bassista professionista.
Nell’estate 2016 il progetto inizia a prendere forma grazie anche alla collaborazione di un secondo dj producer, Fabio Graziotti.
I tre si alternano in lavori di studio prettamente in analogico tra Brescia e Bergamo con l’obiettivo di catapultare l’ascoltatore in un passato/futuro attraverso sonorità disco music, funky-house e re-edit di grandi artisti di un tempo quali James Brown, tanto per citarne uno, con l’ausilio dell’ascolto in vinile accompagnato da una chitarra live.

La disco music di Nile Rodgers & Chic torna in It’s About Time

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Dopo oltre 25 anni la disco music e il funk di Nile Rodgers & Chic tornano in un nuovo album, It’s About Time.

Registrato in diverse città di tutto il mondo, il nuovo progetto del leggendario chitarrista e produttore e dell’iconica band statunitense è stato mixato e masterizzato presso gli studi di Abbey Road, dove Nile è ora Chief Creative Advisor.
It’s About Time è un’interpretazione moderna del linguaggio musicale creato da Nile Rodgers: “In questo momento il mondo si sente come quando gli CHIC hanno iniziato. La nostra musica ha promesso good times, una via d’uscita, un mondo nuovo anche quando le cose sembravano fosche, come ora. E in mezzo al caos, alcune canzoni possono farti sentire bene”.

Rodgers lavora sempre con superstar musicali e nuovi artisti. It’s About Time infatti vanta numerose ed eterogenee collaborazioni: la cantante inglese NAO, l’attrice e cantante statunitense Hailee Steinfeld, il rapper Lunch Money Lewis, Craig David e la carismatica rapper di origine giamaicane, Stefflon Don, Emeli Sandé ed Elton John. E poi lei, Lady Gaga, il cui duetto in I Want Your Love era già stato pubblicato due anni fa.

Parlando del perché ha scelto di fare un album dopo tutto questo tempo Nile ha dichiarato: “Ci è voluto molto tempo per diventare il ragazzo che sono diventato e voglio esprimerlo in un album. È la mia forma d’arte, raccontare i miei pensieri, mettermi in condizione di essere esaminato e criticato, nel bene e nel male”. Aggiunge: “Essere sopravvissuto due volte al cancro ti fa pensare alla tua mortalità. Per questo vuoi sempre essere sicuro di non essere dimenticato. Fare un album è una cosa tangibile e solida, è come fare l’intero film, non solo i trailer”.

Tracklist:
1. Till The World Falls featuring Mura Masa, Cosha and Vic Mensa
2. Boogie All Night featuring NAO
3. Sober featuring Craig David and Stefflon Don
4. Do Ya Wanna Party featuring Lunch Money Lewis
5. Dance With Me featuring Hailee Steinfeld
6. I Dance My Dance
7. State Of Mine (It’s About Time) featuring Philippe Sais
8. Queen featuring Emeli Sandé & Elton John
9. I Want Your Love featuring Lady Gaga
10. (New Jack) Sober featuring Craig David and Stefflon Don – Teddy Riley Version

Back To The Future: i Soul System presentano la loro libera repubblica dei whiteniggas

I Soul System tornano al futuro, Back To The Future, come dichiara apertamente il titolo del loro primo album omaggiando la pellicola di Robert Zemeckis. Il riferimento è nella musica che riempie le 11 tracce del disco: soul, funk, dance, reggaeton, pop, tutto miscelato con echi del passato e rivisitato con i suoni di oggi.
Un album coloratissimo, una festa in musica dalla prima all’ultima nota che fa delle differenze e della varietà un punto di forza, proprio come hanno deciso di fare i cinque ragazzi.
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Tutti di origine ghanese, ad accezione dell’italiano Alberto, e cresciuti tra Verona e Brescia, i Soul System parlano di sé come di una grande democrazia, in cui ognuno svolge un ruolo ben definito e il contributo di tutti serve per la buona riuscita del progetto.
Dopo essersi fatti le ossa con un po’ di date dal vivo e dopo la vittoria all’ultima edizione di X Factor, hanno iniziato a mettere mano al progetto del disco, arrivando ad avere tra le mani più di 20 tracce, per poi scremare eliminando tutto ciò che poteva apparire troppo azzardato a livello di contaminazione: “Non abbiamo potuto fare tutto quello che avremmo voluto, certe cose erano davvero troppo avanti e troppo alternative, per cui ci siamo affidati al nostro produttore, Antonio Filippelli, che ci seguiva già a X Factor, e che è in grado di far stare il nostro suono nel bacino commerciale senza però toglierci l’identità. Ci stiamo costruendo poco per volta e adesso era essenziale proporre al pubblico qualcosa di immediato e che facesse venir voglia di ballare. I conti con mercato discografico vanno fatti”, confessa Leslie, l’anima rap della compagnia.
I riferimenti al passato si colgono immediatamente nel singolo Liquido, che riprende il nome della band tedesca che nel 1999 è arrivata al successo internazionale con Narcotic, di cui la canzone riprende la melodia; ma echi leggendari si ascoltano anche in Single Lady, che va invece ancora più indietro nel tempo fino a What Is Love, successone dance di Haddaway dei primi anni ’90.
È infatti soprattutto dal bacino sonoro degli anni ’80 e ’90 che hanno pescato i Soul System, dalla musica che ascoltavano sui vinili i loro genitori e dalla musica che hanno ascoltato loro sulle cassette quando erano piccoli, fino a Michael Jackson, James Browne, Earth, Wind & Fire, il gospel. Un salto nel tempo di almeno un ventennio, che oltre a marcare una profonda differenza stilistica mostra anche un diverso approccio alla musica: “Prima si stava in studio di registrazione per delle ore prima di arrivare ad avere la base di un brano, si provavano e riprovavano le sequenze di percussioni, oggi la tecnologia permette di accelerare i tempi”, dice Joel. “Oggi poi è tutto molto più contaminato, basta pensare che Drake ha fatto un album intero con i campionamenti. Bisogna star dietro a questi cambiamenti per non risultare vecchi”, gli fa eco David.
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Back To The Future è un omaggio al glorioso passato, ma nello stesso tempo è un manifesto di ciò che è il gruppo oggi. Anche per questo non sono stati coinvolti ospiti, per lasciare alla band tutto lo spazio di agire in libertà e fare in modo che al centro dell’album ci fossero solo i Soul System.
Tra le parole d’ordine pronunciate con più frequenza dai membri della band ci sono naturalmente beat, groove, flow, funky. E swagga, ormai slogan abituale del gruppo. E poi c’è un titolo, Whiteniggas, ovvero “negri bianchi”: un manifesto della filosofia del gruppo, un messaggio di uguaglianza e nello stesso tempo un invito a sfruttare le differenze. Se la musica è bella, lo è dappertutto e lo è senza distinzione di colori, pur essendo pienissima di colori. E chi potrebbe spiegarlo meglio di loro, quasi tutti africani che sono cresciuti in Italia e che cantano in inglese? Ecco perché siamo tutti whiteniggas.
Ma c’è ancora qualche frangente musicale su cui i Soul System non hanno ancora messo le mani? E’ Don Jiggy a parlare: “Già in questo primo album abbiamo toccato parecchi generi, ma forse non ci siamo addentrati molto nel reggae: lo abbiamo sempre fatto dal vivo, ma nei brani ne abbiamo messo poco, anche perché oggi il reggae si è evoluto nel reggaeton e nell’afrobeat”.
Evoluzione, varietà, fusione: è questa la democrazia dei Soul System.

BITS-RECE: Kesha, Rainbow. Il suono di una nuova libertà

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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C’era una volta Ke$ha, quella che scriveva il suo nome mettendo il simbolo del dollaro al posto della S, quella che si copriva di glitter e vernici colorate sul corpo, quella che scalava le classifiche mondiali a suon di elettropop scanzonato e pestifero. Poi a un tratto tutto questo non c’è più stato: basta riflettori, basta luccichio, basta musica. Kesha è scomparsa, fagocitata nel silenzio da una brutta storia di violenze fisiche e psicologiche subite dal produttore Dr. Luke, a cui è seguita una crisi depressiva, un ricovero in rehab per disturbi alimentari e una lunga trafila legale per svincolarsi dagli obblighi che la tenevano legata al suo persecutore.

Sono serviti anni, ma oggi Kesha è tornata.
Il simbolo del dollaro nel nome non c’è più, i glitter neppure, i suoni elettronici molto meno, ma i colori sì, quelli ci sono tutti. Anzi, ce ne sono se possibile più di prima, perché dopo la brutta tempesta è comparso un arcobaleno. Rainbow, appunto, come il titolo di questo terzo album.
Il disco del ritorno, professionale certo, ma soprattutto umano.
Dal pop sporco e disubbidiente, Kesha si è spostata sul country, sul soul, sul funky, recidendo quasi del tutto ciò che è stato. I testi dei nuovi brani grondano di autoaffermazione, amore di sé (Praying, Hymn), guerra ai fantasmi e ai bastardi di ieri (Bastards), orgoglio femminile (Woman), e la speranza non è più un mezzo per sopravvivere in apnea, ma viene celebrata essa stessa come un traguardo, perché già arrivare a sperare è la prima vittoria.
La miglior manifestazione di questo messaggio è nell’intro del video di Praying, il primo, intensissimo singolo, la canzone della rinascita. Un moderno mito della Fenice, una dichiarazione di orgoglio sotto tutti i punti di vista.
Spiazzanti poi le collaborazioni, che vedono schierati i rockettari Eagles Of Dead Metal, i campioni del funky Dap-Kings Horns e Dolly Parton, la signora del country.
Un disco sorprendente per la sterzata stilistica e generoso nelle tinte sonore, che potrebbe lasciare parecchio interdetti i fan della Kesha di tempi di Tik Tok e Die Young. Un album pieno di potenziali inni e manifesti di libertà, ma privo di pezzi spaccaclassifica.

Poche volte una storia personale si riversa in musica in maniera tanto limpida e sincera come in questo album, senza sovrastrutture retoriche e sensazionalismi mediatici, e almeno per una volta senza tirare in ballo lacrimevoli amori frantumati.

Ma al di là del rock, dell’R&B, del country e del funky, dentro a Rainbow c’è qualcosa di molto più potente: il suono di una ritrovata libertà.

BITS-RECE: Elephant Claps, Elephant Claps. Una proboscide polifonica

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Cover Elephant Claps (alta ris)
Ci sono echi della “grande madre” Africa, c’è la carica funky e la libertà espressiva che esplode dall’improvvisazione del jazz. Ma non ci sono strumenti. Neanche l’ombra di una percussione, di un fiato, solo voci.
Quello degli Elephant Claps è infatti un progetto acappella, un termine che riesce però solo a indicare la tecnica, ma non l’anima di questa musica.
Elephant Claps 2 (bassa ris)
Sei componenti del gruppo per altrettanti contributi vocali: un soprano, un mezzo soprano, un contralto, un tenore, in basso e un beatboxer. Insieme, la band cavalca uno speciale “pachiderma” che attraversa diversi stili e diversi sapori musicali. Si passa dalle influenze dei ritmi africani, con i loro colori etnici, al calore del soul, alla vivacità del funky fino ad alcune memorie retrò.
Una varietà che si rispecchia bene anche nella scelta della lingua. O meglio, delle lingue, visto che anche da quel punto di vista non c’è un solo punto di fuga, pur con una prevalenza dell’inglese (ah, loro sono italiani).
A chiudere il disco è un finto brano, Warm Up, di fatto un esercizio di riscaldamento vocale eseguito dal gruppo e registrato in presa diretta, frutto di totale improvvisazione.

Hidden Figures: il funky di Pharrell dà voce alle grandi donne della NASA

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Essere donne e essere nere non era facile negli anni’60. In certi contesti non lo è neanche oggi, a dire il vero, ma negli anni ’60 era praticamente la norma.
Anche se lavoravi alla NASA al più importante progetto spaziale mai realizzato prima. Katherine Johnson fu una delle menti che presero parte alla missione che nel 1962 portò nello spazio John Glenn, il primo uomo lanciato in orbita, e poi alla missione Apollo 11, che nel 1969 fece approdare il genere umano sulla luna.
Eppure il nome della Johnson è sconosciuto ai più e quasi del tutto assente nei libri di storia, anche se il suo apporto si dimostro fondamentale, insieme a quello delle colleghe Dorothy Vaughan e Mary Jackson.
A ridare un po’ di giustizia alle tre scienziate statunitensi arriva Hidden Figures, pellicola cinematografica che in Italia esce proprio l’8 marzo con il titolo di Il diritto di contare. Al centro, le vicende di queste tre donne, impegnate nel dare il loro contributo alla buona riuscita dell’impresa.
Diretta da Theodore Melfi, e con Taraji Henson, Octavia Spencer e Janelle Monae nei ruoli delle protagoniste, la pellicola si arrichisce delle musiche di Pharrell, con la produzione di un gigante come Hans Zimmer e di Benjamin Wallfisch.
Un trionfo di funky e r’n’b in cui, al fianco del genietto della musica Pharrell, sguazzano interpreti come Mary J Blige, Kim Burrell, Lalah Hathaway e la stessa Janelle Monae. Una colonna sonora orgogliosamente black, zeppa di ritmi e di voci nerissimi.
Un entusiastico omaggio al girl power… prima del girl power.