“Fiume Sand Creek”, la versione live firmata Hotel Monroe tra synth e chitarre distorte
Gli Hotel Monroe, band alt rock di base a Parma, hanno rilasciato sul proprio canale Youtube una personalissima versione live di Fiume Sand Creek .
Il brano è stato registrato in sala prove durante una delle session di Prove live, eventi esclusivi aperti a pochissimi intimi, prenotabili attraverso i canali social della band.
Un omaggio a questo capolavoro del cantautorato italiano firmato da Fabrizio De Andrè e Massimo Bubola, riproposto dal gruppo in un’originale versione in cui sintetizzatori e chitarre distorte la fanno da padroni.
La versione in studio sarà inclusa nel nuovo album della band, in uscita a fine anno.
Lo scorso maggio gli Hotel Monroe hanno rilasciato il loro ultimo singolo inedito, Aria.
Non a tutti i musicisti capita di fare un esordio come quello di The Leading Guy: nel 2015 il suo primo album Memorandum è stato infatti accolto con pressoché unanime entusiasmo da tutta la critica, inaugurando così il suo personale percorso cantautorale.
Quattro anni dopo, per il bellunese Simone Zamperi è arrivato il momento di un nuovo lavoro, Twelve Letters, un album che ha attirato anche l’attenzione di una major come Sony Music e di un’artista come Elisa, che lo ha personalmente voluto per aprire i concerti del suo ultimo tour.
Un disco che ha lo spirito verace del folk e del rock, ma anche i contorni un po’ romantici di una lettera intima scritta a cuore aperto con carta e penna e indirizzata a un destinatario che forse non la riceverà mai o sceglierà di lasciare in sospeso la sua risposta. Partiamo dall’inizio: chi è The Leading Guy?
Sono nato a Belluno e ho trascorso un lungo periodo in Irlanda, per poi fare ritorno in Italia a Trieste, la città che mi ha adottato. Musicalmente parlando arrivo da un disco d’esordio, Memorandum, molto diverso dal nuovo album.
Che cosa ti ha portato verso una nuova direzione?
Volendo avrei potuto fare un album simile al precedente, ma sentivo che sarebbe stato sbagliato, per cui mi sono preso il tempo per capire cosa volevo davvero comunicare. Quando ho avuto tra le mani i brani in versione chitarra e voce mi sono reso conto che erano molto diversi dagli altri nella struttura e ancora di più nel messaggio. Forse un po’ egoisticamente, le canzoni di Memorandum parlavano molto di me, erano come un’analisi, queste invece sono proiettate verso l’esterno, creano quasi un confronto, un dibattito. Da qui è arrivata anche la decisione di circondarmi di musicisti e di riempire il disco con molto suono: dopo tre anni passati a fare concerti sempre da solo avevo voglia di avere accanto qualcuno. Quello che ne è venuto fuori è un disco molto vario, in cui a ogni canzone è stato messo un vestito diverso.
Un disco molto vario che hai scelto di aprire con un brano cupo come Black: perché?
Suona molto bene come prima canzone di un disco: schiacci play e rimani colpito. Dura poco, ma è tuonante: può essere considerata come le tredicesima traccia di Memorandum, è il modo per riallacciarmi a dove ero rimasto con l’altro album e da lì ripartire. Metterla in mezzo avrebbe spezzato il racconto. E poi mi piaceva l’idea che la prima parola dell’album fosse proprio “black”, è un richiamo al mondo delle mie influenze. Qualcuno potrebbe magari spaventarsi, ma il resto del disco va verso la positività.
Non hai paura che qualcuno possa invece fermarsi lì e farsi un’idea sbagliata dell’album?
Ammetto che è una canzone abbastanza catastrofica, c’è un messaggio ambientale un po’ apocalittico, ma alla fine arriva anche la speranza. No, di paura non ne ho: in Memorandum non c’era nessun brano che potesse essere scelto come singolo, ma l’ho fatto lo stesso, per cui posso fare anche una canzone così.
Il titolo e la copertina dell’album mettono al centro il concetto della lettera “come si faceva una volta”: per te che significato ha?
Quando mi son ritrovato il disco finito tra le mani ho capito che il filo conduttore dei brani era quello di una lettera indirizzata a un destinatario, reale o simbolico: ad alcuni ho anche inviato davvero in anteprima la canzone in forma di lettera. Quando in passato si scrivevano le lettere, si aveva il tempo di pensare, correggere, e magari alla fine si decideva di non spedirla, ma le parole restavano lì. Credo che dovrebbe essere così per chi scrive canzoni: prendersi il tempo di scrivere, cancellare, rifare. Una lettera non è una mail che si può cestinare con un clic, la si può bruciare, ma il messaggio arriva comunque in modo diverso. E anche chi ascolta una canzone dovrebbe leggerla come si legge una lettera, tornarci su per capire se si è davvero capito tutto quello che c’è scritto. L’ultimo brano dell’album, Can You Hear Me Now?, è una richiesta d’aiuto, ma anche un modo per chiedere di ascoltare e capire bene quello che sto dicendo.
Tutti i brani hanno un destinatario preciso?
No, sono messaggi che possono essere rivolti a chiunque, ma tutti hanno alle spalle una lunga riflessione e tutti hanno uno stile diverso. Free To Decide può essere per esempio le lettera che invieresti a un amico, mentre Black è la lettera incazzata che invieresti al sindaco del tuo paese per dirgli che le cose non vanno. Un paio hanno invece dei destinatari eali, amici che non ci sono più.
Da quanto tempo non scrivi e non ricevi una lettera?
Almeno 13 anni, se si parla di una lettera vera e propria, scritta e imbucata con il francobollo. L’idea di portare la lettera nei brani mi è venuta proprio facendo questa riflessione. Ho 32 anni, sono cresciuto quando le lettere si scrivevano. Ho provato anche a fare un sondaggio tra i miei fan, e ho scoperto che alcuni di loro le spediscono ancora.
L’introspezione sembra essere un elemento che ti caratterizza. E’ così?
Nella vita sono un tipo abbastanza “caciarone”, posso avere molte maschere, ma nella musica non lascio entrare la confusione, tutto deve essere pensato e ponderato: solo quando suono e soprattutto quando scrivo riesco a trovare un’introspezione vera. Scrivere non è un hobby, è qualcosa che esige rispetto.
Metti molti filtri tra i tuoi pensieri e la tua scrittura?
Sì, c’è parecchio filtro tra quello che mostro e quello che scrivo, e spesso le persone si confondono ascoltando la mia musica. Succedeva soprattutto con Memorandum, dove svelavo molto di più del mio passato, cose di cui non avevo mai parlato. Forse è sbagliato, perché ci deve essere somiglianza tra ciò che sei e quello che scrivi, ma tutti abbiamo un lato oscuro da nascondere. Le mie canzoni sono solo una parte di me, una parte che cerco di esorcizzare. Se fossi solo quello che metto nelle canzoni forse mi sarei già impiccato! (ride, ndr) Metto la tristezza nella musica per trovare gioia nella vita.
Ma anche nel disco si vede la gioia…
Sì, e me ne sono stupito anch’io. Penso che sia dovuto alla voglia che avevo di condividere: forse per un periodo l’avevo dimentica e ora ho ritrovato la gioia di fare le cose insieme agli altri.
Tu ed Elisa come vi siete conosciuti?
Ho conosciuto prima suo marito, Andrea Rigonat, che è anche il suo chitarrista: eravamo entrambi giudici in un concorso per giovani musicisti, e sono riuscito e fargli sentire Black, e lui non si spaventato! (ride, ndr) Sapevo che Elisa stava per partire con il tour e sono riuscito a far sentire il brano anche a lei: le è piaciuta, e non era scontato, e così ha deciso di portarmi con lei per aprire i suoi concerti. Sarò impegnato per tutto il mese di maggio e penso che solo alla fine di questa esperienza riuscirò a realizzare meglio quello che è successo, ma sono sicuro che sarà una grande lezione per il futuro.
Un altro progetto in cui sei stato recentemente coinvolto è quello di Faber Nostrum, al quale hai partecipato con la cover di Se ti tagliassero a pezzetti. Quella che esperienza è stata?
Ci è stata lasciata grande libertà sulla scelta del brano, anche perché sarebbe stato crudele ritrovarsi a interpretare un brano di De Andrè imposto da altri. Ne ho provati molti, finché ho capito che con Se ti tagliassero a pezzetti mi sentivo più a mio agio, mi ritrovavo di più. Cantare in italiano è stato uno choc, non è stato facile convincermi che ci sarei riuscito, soprattutto con De Andrè, ma ho pensato che era meglio di iniziare con una bella canzone. Credo inoltre che progetti come questo sono importanti perché fanno conoscere De Andrè alle nuove generazioni: non è scontato che oggi un ventenne sappia chi è, ma mi fa piacere quando in rete leggo i commenti alla mia cover da parte di ragazzi molto più giovani.
Potrebbe quindi essere uno spunto per iniziare a scrivere e cantare in italiano?
Non è che non abbia voglia di farlo, ma credo di non essere pronto, tecnicamente più che umanamente. Cantare in italiano sarebbe come ripartire da zero, non basta traslare la parole: la tecnica e la respirazione sono completamente diverse, e l’italiano è una lingua molto difficile. Ci ho messo 14 anni a imparare a scrivere bene canzoni in inglese, adesso voglio farle ascoltare un po’. Per l’italiano posso aspettare.
Concludo con una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di “ribellione”?
La vera ribellione è smettere di vedere i propri sogni irrealizzabili: ho iniziato a vivere bene e stare meglio quando ho capito che non ci stavo riuscendo con la musica perché avevo paura di buttarmi. Non so nuotare, ma in estate lavoravo come tuttofare in uno stabilimento balneare, tenendomi l’inverno per la musica: il mio gesto di ribellione è stato mollare del tutto il lavoro e investire nella musica, che oggi è la mia vita. Spesso ci si lamenta per come vanno le cose e si dà la colpa agli altri, invece bisognerebbe iniziare a prendersi la responsabilità dei propri insuccessi e uscire dalla propria tranquillità. E a volte non sono neanche insuccessi, semplicemente non ci si prova nemmeno.
Quattro dischi per raccogliere oltre 40 anni di carriera, segnati da una costante e folle spinta verso il futuro. TVB – The Very Best è la nuova raccolta pubblicata da Sony Legacy dedicata alla PFM – Premiata Forneria Marconi, una delle realtà più innovative della musica italiana. Non è forse un caso se dopo tanti anni di attività, la band si è portata orgogliosamente a casa il premio come Band internazionale dell’anno ai Prog Music Awards UK 2018. Tante cose sono cambiate da quel 1970 che ha decretato la nascita ufficiale del gruppo: diversa era la società, diverso era il clima politico, diversa era la musica, e diversa era la PFM, che poi uguale a se stessa non lo è mai stata. “All’inizo la PFM era come un tir lentissimo, procedeva per tentativi, un passo alla volta: un giorno si imparava un passaggio, il giorno dopo un altro, poi si dimenticava tutto e si doveva ricominciare fino a quando non si arrivava alla frase completa. Però questo ci ha permesso di restare nel tempo, perché oggi la musica va molto più veloce, come le macchie da corsa. Gli artisti però non sono tutti Hamilton e alla prima curva molti sbandano”, spiega Patrick Djivas, che dopo aver fondato gli Area, nel 1973 è entrato nella PFM diventandone una colonna portante insieme a Franz Di Cioccio.
Nei quattro dischi del cofanetto nessuno degli album della PFM viene trascurato, dal Storia di un minuto all’ultimo Emotional Tattoos, pubblicato lo scorso anno: la tracklist di quasi 50 brani è arricchita di chicche e il booklet curato da Sandro Neri racchiude commenti, aneddoti e un’intervista a Di Ciocco e Djivas, mentre la parte fotografica porta la firma di Guido Harari.
Parlando di questa nuova raccolta (“è una storia di vita”), Di Cioccio e Djivas lo ripetono più di una volta: se c’è qualcosa che è rimasto costante nella storia della PFM è proprio l’incapacità di restare ferma, uguale, perché era troppo forte la voglia di scoprire: c’era “l’intrigo“, come lo definisce Di Cioccio, quella spinta a continuare a ricercare, sperimentare, magari partendo da una semplice improvvisazione sul palco durante un concerto. Mai un live uguale all’altro, e mai una canzone riproposta nello stesso modo: anche la celeberrima Impressioni di settembre è stata incisa e riproposta in tante versioni, una diversa dall’altra. “Per arrivare a quel suono abbiamo fatto un po’ di tentativi”, spiega Djivan. “Ervamo arrivati a superare la forma-canzone, ma mancava il suono giusto, e alla fine l’abbiamo trovato con il moog. All’apoca però non esisteva la strumentazione digitale, non c’erano i computer che si potevano programmare e che potevano riproporre lo stesso identico suono, per cui tutte le volte che suonavamo la canzone il suono era sempre un po’ diverso. La versione del singolo, che in origine era il lato B di La carrozza di Hans, è diversa da quella dell’album. Ancora oggi ci rifiutiamo di suonare con i computer durante i concerti, perché dovremmo essere noi a loro servizio: noi invece vogliamo essere liberi di improvvisare e di far durare una canzone anche 10 minuti”. “Ecco perché noi non facciamo ‘serate’, ma sempre dei ‘concerti’, non ce n’è uno uguale all’altro”, gli fa eco Di Cioccio, che definisce l’ultima raccolta la “storia di una vita”.
Continua Djivas: “Una volta la musica era un mezzo di aggregazione e di libertà. In casa mi ricordo che per poter parlare a tavola dovevo chiedere il permesso a mio padre, così come per prendere un pezzo di pane: la musica invece permetteva a tutti di esprimersi, ognuno a suo modo. Anche per questo non mi piacciono molto i talent show, perché mettono gli artisti in competizione tra loro”. “All’epoca dei Festival di Re Nudo la musica non aveva barriere: chi faceva rock frequentava chi suonava il blues, mentre oggi se fai rap non puoi essere amico di chi fa rock. Ci sono molti artisti con cui avremmo magari voglia di lavorare per sperimentare e fare qualcosa di folle, un salto nel buio come quello che abbiamo fatto insieme a Ivan Cattaneo o Alberto Fortis, che all’epoca era un ragazzo molto vitale e un po’ sperduto, ma vorremmo che siano gli altri a farci la proposta. Noi siamo sempre qua, non chiudiamo nessuna porta: se qualcuno si sente pronto a fare una follia deve solo chiedercelo. Con De Andrè questo salto nel buio lo abbiamo fatto: l’unica cosa che chiediamo è di lasciarci lavorare in totale libertà. Se quello che proponiamo non piace, lo possiamo cambiare, ma non nessuno deve metterci dei vincoli”.
E a proposito di Faber, a vent’anni dalla morte del cantautore genovese e a quaranta dalla pubblicazione del live Fabrizio De Andrè e PFM in concerto, la band ha annunciato un nuovo tour teatrale dedicato interamente al repertorio di De Andrè e in partenza da Bologna il 12 marzo: “Non sarà una rievocazione, ma una celebrazione, con una parte tutta dedicata a La buona novella e qualche novità. Per l’occasione abbiamo anche allargato la formazione con Flavio Premoli alle tastiere e Michele Ascolese, storico chitarrista di Fabrizio”.
I biglietti e le informazioni per PFM canta De Andrè – Anniversary sono disponibili a questo link.
Dal 4 al 9 febbraio inoltre la PFM è stata invitata per la terza volta a prendere parte alla Cruise To The Edge, una speciale crociera che partirà da Tampa, in Florida, per concludersi a Gozumel, in Messico: durante il viaggio la band, unica italiana presente, suonerà a bordo della nave insieme ad alcuni dei più importanti nomi del prog mondiale.
L’occhio sulla copertina sembra voler guardare in faccia l’ascoltatore, scrutare i suoi pensieri, cercare di capire se ha compreso davvero il significato dei brani, se ne ha colto i riferimenti. Perché quando si parla di Ernia si può star certi che nulla – soprattutto le parole – non sono buttate a caso. Dopo l’uscita del doppio Come uccidere un usignolo/67, avvenuta solo lo scorso settembre, per il milanese Matteo Professore è arrivato il momento della prima vera release ufficiale. Il nuovo album si intitola 68 (e non perché segue 67, che invece si intitolava così proprio in vista dell’uscita successiva), come la linea di autobus che collega Bonola, dove Matteo è cresciuto, con via Bergognone, vicino a Porta Genova, decisamente più in centro e soprattutto centro di una nuova movida modaiola. Un viaggio (anche metaforico) dalla periferia al centro, ma che poteva essere compiuto anche in senso opposto, in una sorta di regressione: fuori dal significato simbolico, significa che questo per Ernia è il disco del grande riscatto e della conferma, ma potrebbe anche essere la causa della sua caduta, ed è proprio lui il primo a esserne consapevole. E poi c’è, in minima parte a dire il vero, un riferimento al ’68 dei movimenti rivoluzionari, di cui oggi ricorrono i 50 anni.
Sulla doppia direzione si muove anche la tracklist di 68, che può essere ascoltata anche dalla fine all’inizio, e in questo senso diventerebbe una carrellata cronologica della carriera del rapper fino ad oggi, dal buio di La paura alla luce di King QT (e qui il riferimento è al quartiere milanese di QT8, oltre a King Kunta di Kendrick Lamar). Con Ernia ogni stereotipo legato alla figura del rapper cade: non ha la faccia da cattivo ragazzo, non ha il corpo ricoperto da tatuaggi d’ordinanza, non ostenta elogi al denaro e alle donne, ma anzi non di rado infila nei testi citazioni colte, riferimenti letterari, e si ritaglia spazi di riflessione. Per questo viene considerato uno degli esponenti del conscious rap italiano: “Fino a non molto tempo fa il conscious rap rimandava all’immagine di uno studente fuori sede sfigato, che non amava molto lavarsi e beveva birra calda. A riabilitare il genere sono stati in America artisti come J Cole e Kendrick Lamar, che è forse il miglior rappresentante della corrente: grazie a loro oggi il conscious rap ha trovato legittimazione, si è reso appetibile per le radio e le classifiche ed è considerato cool. I loro numeri lo dimostrano. In Italia invece il rap cita pochissimo, e quando accade spesso il pubblico non riesce a cogliere i riferimenti o li usa in modo sbagliato: c’è una sorta di sofisticata ignoranza. L’obiettivo è farlo diventare solo sofisticato”.
Ma non si pensi che con 68 Ernia si sia rinchiuso in un circolo vizioso alla strenua ricerca dei “contenuti”, perché scorrendo le tracce dell’album non si possono non cogliere i riferimenti alla disco dei Flaminio Maphia della titletrack (“Lo considero il mio brano migliore perché non è una marchettata, ma il giusto equilibrio tra quello che vuole ascoltare il pubblico dell’hip-hop e quello che passano le radio”), o le influenze black, r’n’b, persino i campionamenti di classici jazz e le atmosfere old school. Il pazzo nasce addirittura dall’ascolto di Non al denaro, non all’amore né al cielo di De André, mentre No pussy è un pezzo “cafone” di puro divertimento: “In Italia il rap ha avuto il filtro del centro sociale, e oggi tutti sembrano cercare solo i contenuti, come se la musica fatta per divertimento fosse un male, invece il rap nasce anche con questo spirito e in America le diverse correnti convivono e si accettano tranquillamente. Da noi se riesci a svoltare e a guadagnare facendo rap diventi subito un venduto, mentre ci si dimentica che negli anni ’80 non si contavano i titoli di album che avevano la parola businness nel titolo. Spesso inoltre chi sui forum online critica il rap di oggi accusandolo di superficialità, negli anni ’90 ascoltava Gigi D’Agostino o si piastrava i capelli per andare alle serate del Diabolika: lì il contenuto dov’era? Quale messaggio si veicolava?” Non sfugge però, proprio in No pussy, un riferimento politico: “Un quindicenne conosce il rap meglio di me e capisce subito se gli stai proponendo un pezzo impegnato o di contenuto politico, e non lo ascolta perché non gli interessa. Con quel riferimento a Salvini ho voluto indorare un po’ la pillola, mettendo una nota di impegno in un pezzo che è tutto l’opposto”.
Anche per quanto riguarda l’ondata della trap, le idee di Ernia sono molto chiare: “Mi piace la trap, la ascolto, anche se non sono un artista trap. Sono convinto che sia un trend destinato a finire, e quando succederà saranno in moltissimi a cadere. Sfera Ebbasta resterà, perché lui in quello è il numero uno, e anche se ha un vocabolario molto ristretto è stato quello che ha focalizzato l’attenzione dei media e dei discografici su un genere che in Italia non era ancora arrivato. E’ divisivo, certo, ma per lui è un valore aggiunto. Ma non esistono carriere infinite, e anch’io posso cadere domani, ma quando succederà non sarà per colpa della fine della trap, ma per causa mia“.
Anche nell’epoca del dominio dei social, al live resta un ruolo di fondamentale importanza: “Potrai fare tutte le visualizzazioni che vuoi, ma i risultati si vedono sotto al palco, nel mondo reale. Il live è il momento massimo del nostro lavoro”.
Dal 7 settembre Ernia sarà impegnato nel “68 instore tour” per la presentazione del nuovo album d’inediti. Gli appuntamenti partiranno partiranno venerdì 7 settembre con un doppio appuntamento prima a Varese presso Varese Dischi e poi a Milano presso il Mondadori Megastore di Piazza duomo per poi proseguire sabato 8 settembre a Monza e poi a Brescia, il 9 settembre a Padova e Bologna, il 10 settembre a Genova e Torino, l’11 settembre a Firenze e Roma, il 12 settembre a Napoli e Salerno, il 13 settembre a Bari e Lecce, il 14 settembre a Mestre e Verona, il 15 settembre a Modena e Forlì, il 16 settembre a Lucca e Massa, il 17 settembre a Frosinone e Caserta, il 18 Settembre a Palermo, il 19 settembre a Messina e Catania, il 20 settembre a Como e Arese e il 21 settembre a Cagliari.
Era il 1977 quando Fabrizio De André iniziò un fruttuoso sodalizio con un giovane cantautore, Massimo Bubola. Con lui De André scrisse tutte le canzoni originali di Rimini, album che venne pubblicato nel maggio 1978. Sono trascorsi 40 anni dall’uscita di quel disco e la città di Rimini lo celebra con un evento speciale il 21 luglio.
È stato Bubola a raccontare, nel libro di Riccardo Bertoncelli Belìn, sei sicuro?, la genesi dell’album: “Decidemmo di dedicare il disco ad analizzare i difetti di questa piccola borghesia italiana, così anemica e gretta? La nostra è una piccola borghesia di ex bottegai, molto limitata, molto ignorante, basta guardare lo specchio della sua TV odierna”.
Il 21 luglio la città di Rimini dedicherà una giornata a questo album con una serie di eventi: – ore 18,00 presso il Cinema Fulgor, C.so d’Augusto presentazione del libro Lui, io, noi? di Dori Ghezzi, Giordano Meacci, Francesca Serafini (Einaudi 2018), alla presenza degli autori. A seguire verrà presentata al pubblico l’edizione speciale del libro dedicato al disco Rimini, con allegato il cd dell’album omonimo. É previsto un saluto del Sindaco di Rimini Andrea Gnassi
– ore 21,00, nello scenario della Corte degli Agostiniani di Via Caroli, all’interno della rassegna musicale Percuotere la mente, concerto Rimini canta Rimini. L’orchestra Rimini Classica, 26 elementi, diretta dal maestro Federico Mecozzi risuona per intero tutte le canzoni del disco Rimini. Ad accompagnare l’orchestra si alterneranno sul palco, nell’interpretazione dei brani, i cantanti riminesi: Andrea Amati, Dany Greggio, NicoNote, Massimo Marches, Massimo Modula e Giuseppe Righini.
A seguire dal vivo e in brevi set, renderanno omaggio a Rimini e a Fabrizio De André: Federico Braschi, John De Leo, Andrea Appino (Zen Circus), I Ministri (in acustico), e il duo Petra Magoni e Ferruccio Spinetti, Musica Nuda. Presenterà la serata il giornalista Pierfrancesco Pacoda.
Arriverà al cinema il 23 e il 24 gennaio, e poi su Rai 1 in due puntate il 13 e 14 febbraio, Fabrizio De Andrè. Principe libero, film ispirato all’esistenza di uno dei più influenti poeti della canzone italiana. Non un documentario e neppure una biografia, la pellicola, diretta di Luca Facchini e prodotta da Angelo Barbagallo, è una rilettura delle vicende legate alla vita di De Andrè, con particolare attenzione agli anni e agli eventi più significati, dall’infanzia e la giovinezza tra i vicoli di Genova, al matrimonio con Puny e la storia d’amore con Dori Ghezzi, passando per i mesi drammatici del rapimento in Gallura. Realizzato sotto la costante supervisione e consulenza di Dori Ghezzi, il film vede nel ruolo di protagonista uno straordinario Luca Marinelli, che è riuscito nella spaventosa impresa di restituire non solo il volto e le movenze, ma anche la voce e lo spirito di De Andrè, mentre Valentina Bellè si è ritrovata a vestire i panni di Dori, con il suo personaggio ad osservarla in carne e ossa dall’altra parte del set, ed Elena Radonicich quelli della prima moglie Puny. Da segnalare la partecipazione straordinaria di Ennio Fantastichini nel ruolo del padre, Giuseppe De Andrè. Il progetto non nasce tanto con l’intento di raccontare la storia di Faber, quanto piuttosto di mettere in luce la sua costante ricerca della libertà, fin da bambino, contro le imposizioni sociali, culturali, morali, e contro i conformismi. Una spinta alla libertà che è stata violentemente schiacciata quando il cantautore è stato rapito con Dori Ghezzi tra i monti della Sardegna. Quello di Fabrizio De Andrè. Principe libero non è un racconto sempre fedele alla realtà, perché – come sottolinea il regista insieme agli sceneggiatori Giordano Meacci e Francesca Serafini – è stato talvolta necessario sacrificare il vero per andare incontro alle necessità della drammaturgia. Il che ha comportato, non senza qualche dolore da parte di Dori Ghezzi, la rinuncia alla presenza di personaggi significativi nella vita di Fabrizio, tra amici, collaboratori e persone che in modo diverso hanno attraversato la sua esistenza lasciandovi un segno. Non potevano però mancare Paolo Villaggio, con il volto di Gianluca Gobbi, Luigi Tenco, interpretato da Matteo Martari, e Fernanda Pivano (Orietta otari), che talvolta assumono i caratteri dei personaggi non presenti. La colonna sonora è composta quasi interamente dalle canzoni di Faber, talvolta reinterpretate con grande credibilità da Marinelli.
Quello che emerge dal film è prima di tutto l’uomo-Fabrizio, con le sue virtù, i suoi vizi (fumo e alcool su tutti) e le sue debolezze, talvolta distante dall’aura celebrativa del cantautore, mentre l’artista resta sullo sfondo, quasi schiacciato dalla volontà di un individuo che desiderava prima di tutto essere libero e mantenere vivo il suo spirito anarchico: non vivendo senza regole, ma dandosene di proprie. “Forse qualcuno si sentirà tradito da questo ritratto di Fabrizio”, ha dichiarato Dori Ghezzi, “ma chi lo ha conosciuto davvero lo ritroverà”. Fabrizio De Andrè. Principe libero sarà proiettato in 300 sale in tutta Italia. L’elenco completo è disponibile a questo link.