All’inizio di quest’anno erano tornati con Un luogo sicuro, il lavoro più ambizioso della discografia de L’orso, che ha permesso loro di calcare palchi celebri come quello dell’Alcatraz di Milano e dello Sziget di Budapest.
E visto che la festa va abbandonata finché c’è gente, la band ha deciso di fermarsi…per un po’. Non prima però di aver lasciato ai fan un motivo per continuare a festeggiare.
Mattia Barro, voce e leader del gruppo, ha dato la notizia con queste parole:
“Non c’è modo migliore di finire, se non dando una festa. Chiama gli amici, aumenta il volume e i BPM, stappa qualche bottiglia. Un luogo sicuro REMIXES è questo. Dopo sei anni, quattro EP e tre dischi, L’orso si ferma per un tempo indefinito.
Questo ultimo EP è un lungo eco, una festa che non finirà. Fare una festa, chiamare gli amici, bere qualche bottiglia. Con L’orso è ciò che abbiamo fatto per sei anni, quattrocento date, tre dischi. Abbiamo messo tutto quello che potevamo, per questo – ora – è il momento corretto per fermarsi. Abbiamo lavorato sulla nostra strada con l’ambizione di migliorarci ed evolverci disco dopo disco, live dopo live. Zitti, a testa bassa. Ce l’abbiamo fatta, ed è l’unica cosa che conta. Realizzare un sogno è una fortuna per pochi, e noi siamo stati dei privilegiati. “Indefinite hiatus” è il termine migliore per dire cosa accadrà a partire dal 2017. Non ci saranno concerti di addio, non dipingeremo storie struggenti per far un’ultima foto. Vi lasciamo alla musica, l’unica cosa che ci è piaciuto fare in questi anni. Grazie a tutti quelli che ci hanno aiutato in questo sogno. Sapete chi siete, sappiamo chi siete. Ci vediamo da qualche altra parte, con la musica in mano.
PS. Un abbraccio ai miei fratelli Francesco, Omar, Niccolò e Ian. Tra noi non finisce qua, ed è l’unica cosa che conta.
Love ya raptors.
Vostro, forever,
Mattia.”
Una pausa che ha però tutto il sapore dell’addio… Io comunque spero di risentirli presto.
BITS-RECE: Gaika, Spaghetto EP
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Per lui i magazine internazionali hanno speso parole di elogio, arrivando a paragonare la forza della sua arte alle opere di Basquiat. Quello che è certo è che il mondo Gaika è quanto di più personale ed estremo ci possa essere.
Producer da dancefloor e performer inglese, Gaika ha da poco pubblicato Spaghetto, un EP di otto brani stilisticamente piuttosto indefinibili, fluttuanti tra il grime e l’r’nb. Ciò che però rende peculiare, e molto interessante, la musica di Gatika al di là della definizione di genere è la coltre di petrolio di che la avvolge.
Tutto nelle sue canzoni è deformato, febbricitante, sognante, o meglio onirico, perché più che di sogni sarebbe meglio parlare di incubo; una musica dall’atmosfera alterata, tra suoni notturni e ritmi trascinati. A tratti, la sensazione che si prova stando immersi in questi flutti oscuri è claustrofobica. Per sua stessa dichiarazione, quelle contenute nell’EP sono otto lettere d’amore metaforicamente indirizzate a persone che lui ha perso e amato.
A tutto ciò, va poi aggiunto un amore di Gaika per le arti visuali, che lo porta ad accompagnare i suoi brani con clip di forte suggestione e impatto ruvido, talvolta al confine con la violenza visiva.
Pensato come una trilogia in atti separati, a completare il progetto di Spaghetto, Another Hole In Babylon, un mini film che condensa le emozioni dei brani, e Glad We Found It.
“Non puoi separare gli spaghetti dalla salsa. Non puoi separare le emozioni dal mondo. Non puoi separare l’arte dalla società”.
Benvenuti nel mondo secondo Gaika.
BITS-CHAT: Una chiavetta e un mistero. Quattro chiacchiere con… Honor
Di lei si sa poco, anzi pochissimo. Si sa che per fare musica ha scelto di chiamarsi Honor, è svizzera, ha la passione per i cavalli e l’arte, ha iniziato a scrivere per tirar fuori il dolore che aveva dentro e ha iniziato a fare musica per un autentico colpo di fortuna.Tutto è partito nel 2015, quando la ragazza si trovava in vacanza in Inghilterra e ha smarrito una chiavetta su un treno. Tutto si sarebbe potuto fermare lì se la chiavetta non fosse stata recuperata dal vlogger LukeIsNotSexy, che non ha resistito all’idea di sbirciarne i contenuti e ci ha trovato dentro una canzone. Colpito dalla voce dell’interprete e senza avere altri riferimenti, Luke ha fatto l’unica cosa in suo potere: un appello sul web, #namethegirl, presto balzato tra i trend di Twitter e che per un’altra casualità è capitato proprio sotto gli occhi della diretta interessata.
Da quel momento si è aperto nella vita di Honor un nuovo, inaspettato capitolo: è arrivato il primo contratto discografico, il primo singolo, Never Off, ha visto la luce riscuotendo un certo interesse tra i media e le classifiche Oltremanica. Fino ad arrivare alla pubblicazione del primo EP anche in Italia.
Cosa c’era su quella chiavetta da cui è partito tutto?
C’era dentro di tutto e di più, come succede in genere con gli archivi USB: immagini mie, foto prese da internet, e poi c’era una versione ancora abbozzata di Never Off. Era l’unica canzone presente, tutte le altre sono venute dopo.
Prima che la chiavetta venisse persa è ritrovata, c’era già il sogno di dedicarti alla musica?
Mah, non proprio. Forse era un po’ nascosto, non lo volevo ammettere, non mi sarei certo aspettata che potesse succedere tutto questo è il mondo della musica lo vedevo troppo lontano da me. La musica la tenevo solo come passione personale, una cosa solo mia, intima.
E quali progetti avevi fatto per il tuo futuro?
Mi occupavo e mi occupavo tuttora di una galleria d’arte: mi muovo nell’ambito dell’arte contemporanea e mi piace andare alla scoperta di nuovi artisti. Il mio futuro lo immaginavo lì.
Il progetto dell’EP come si è sviluppato?
Dopo la vicenda della chiavetta, sono stata contattata da Spaceship, un’agenzia di Management che si è incuriosita del caso. Da lì è iniziato il lavoro con i produttori dell’etichetta NEXT3. Mi piace scrivere, e avevo già da parte alcuni testi. Musicalmente abbiamo seguito la strada dell’indie pop straniero che è l’ambiente in cui mi sento più a mio agio.
La scrittura in inglese si deve a questo?
Mi viene più spontaneo scrivere in inglese, i pensieri sono più precisi, senza troppi giri di parole.
Sei riuscita a vedere come lavora il mondo discografico inglese?
In Inghilterra i musicisti sono molto “artisti”. In Italia la discografia si sta sviluppando soprattutto intorno ai talent, che ci sono anche in Inghilterra, ma forse non hanno la stessa centralità. Le possibilità sono aperte anche per chi sceglie altre strade.
Tu la strada del talent non l’hai mai considerata?
No, non sarebbe la mia strada: io vivo tutto in maniera personale e il talent sarebbe un’esposizione in cui non mi sentirei a mio agio. La competizione nella musica può essere stimolante, ma non è quello che cerco.
Mi sembra che tutto l’EP sia attraversato da un contrasto di luci e ombre: è così?
Ho voluto dare un’aura di mistero ai brani, così come ho scelto di non parlare molto di me, e in effetti di Honor non si sa molto, non mi sono voluta mostrare, a livello personale e di immagine. Fa tutto parte di un’idea precisa del progetto, così come quella dei video.
La mia traccia preferita è You And My Nightmares.
L’idea è partita da una storia d’amore, ma può essere letta in senso più ampio: tutti abbiamo degli incubi nella vita, per qualcuno può essere una persona, per altri una situazione. Mi piace pensare che tutti possano ritrovarsi in quel brano.
Honor: da dove arriva questo nome?
Tempo fa, una persona a me molto cara mi ha detto che qualunque cosa avessi scelto di fare, avrei dovuto farla con onore. Una frase che mi è rimasta nel cuore, e mi è sembrata una buona scelta per il mio nome.
Dopo questo EP c’è in previsione un album?
In realtà ci sono tante opzioni: oggi la soluzione dell’EP sembra funzionare, per cui non è escluso che l’anno prossimo arrivi un altro singolo con un altro EP.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
La ribellione può avere tanti significati: per me è far proprio un obiettivo e portarlo avanti per farlo diventare realtà, senza guardare in faccia a nessuno.
20 anni di Placebo
Quando una band taglia il traguardo dei 20 anni di carriera (dove per carriera si intende l’essere artisticamente viva e vegeta, e non tirare a campare tra tristi amarcord) vuol dire che qualcosa da dire ce l’aveva davvero e che piccolo o grande il suo segno nella storia della musica e nella memoria del pubblico l’ha lasciato.
In questo 2016, tra chi arriva a questa tappa ci sono i Placebo: era infatti il giugno del 1996 quando uscì il loro primo, omonimo album. Potevano essere una delle tante band per giovincelli rabbiosi e pieni di voglia di rivalsa, e scomparire nel giro di qualche mese (a quanti è capitato di fare questa fine?) e invece no. Il progetto di Brian Molko è andato avanti diffondendosi in tutta Europa e raccogliendo consensi anche Oltreoceano.
Quello dei Placebo è sempre stato un rock acido, abrasivo, a volte provocatorio (ve la ricordate la chitarra spaccata in diretta TV a Sanremo nel 2001, sotto gli occhi increduli della Carrà?), guidato dal carisma androgino e ribelle del leader della band, che con la sua voce spigolosa ha fatto delle canzoni del gruppo un tratto di forte riconoscimento.
20 anni di musica trascorsi tra melodie agrodolci, nostalgiche, arrabbiate, ma anche bellissimi episodi struggenti e sensuali, brani sbattuti da venti freddissimi e colate di amore crudele; ma anche 20 anni passati senza dimenticarsi che dopotutto il musicbiz non si accontenta solo della musica, ma pretende ed esige pure un’attenzione alla presentazione, alla “copertina”, insomma, all’immagine. E i Placebo la loro immagine l’hanno dipinta con tonalità ombrose, con le tinte dei grigi e dei neri, mettendo in primo piano il volto da ambiguo angelo peccatore (ma mai davvero da demonio) di Molko, il suo colore pallido, le sue unghie nere. Emblema dei Placebo resterà forse per sempre il fortissimo video di Pure Morning, il pezzo che ha dato alla band la vera notorietà, con Brian sul ciglio di un cornicione, pronto a buttarsi nel vuoto.
Per celebrare e riassumere questo importante anniversario, escono in contemporanea due lavori. Da una parte l’EP Life What You Make It, che include 6 tracce tra cui il nuovo singolo Jesus’ Son, due recenti versioni live di Twenty Years e tre cover, dall’altra parte la maxi raccolta A Place For Us To Dream, che in due CD racchiude in 36 brani tutta la storia del gruppo, dal primissimo singolo Bruise Pristine fino all’ultimo inedito.
Curioso che, tra le poche canzoni rimaste escluse, ci sia proprio Twenty Years, l’inedito pubblicato in occasione del decennale e che proprio in questa occasione sarebbe stato il perfetto coronamento.
#MUSICANUOVA: Klune, Tetris
“Tetris è il primo brano che abbiamo scritto per il nostro album, musicalmente rappresenta la fase di passaggio tra le sonorità dell’ep e ciò che abbiamo prodotto quest’anno.
Il pezzo parla di relazioni sentimentali brevi e occasionali nella mondanità di una metropoli, non ci sono precisi riferimenti e luoghi affinché chi ascolta sia libero di interpretare, è una fotografia di chi vive di rapporti umani che si consumano in fretta, uno stile di vita affascinante e malinconico. Il mood del brano riflette questo stato d’animo, abbiamo ricercato un’intenzione delicata nella voce che funzionasse con il ritmo incalzante e a tratti tribale del brano.”
Giovanni Solimeno, Alberto Pagnin e Giulio Abatangelo, alias Klune si formano in un piccolo studio fuori Padova nel 2015. A novembre dello stesso anno esce il loro primo EP omonimo, con i primi cinque brani inediti della band.
BITS-RECE: Makai, Hands. Il suono del naufragio
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Il progetto Makai prende vita nel 2000 ed è un “processo in divenire, in bilico tra l’elettronica nordica e il songwriting più intimista e mediterraneo”. Così lo definisce Dario Tatoli, l’anima creativa che vi si cela dietro.
Ora, a 16 anni dalla nascita, arriva Hands, il primo EP, cinque tracce che sicuramente molto hanno di nordico, umido, nebbioso ed elettronico, mentre un po’ di fatica si fa nel trovare la componente “mediterranea” della scrittura.
Senza dubbio, Hands è un disco notturno, che sembra essere stato concepito nelle ore più scure del giorno, perché si muove in una notte nera, e in piena tempesta. Sì, in piena tempesta in mare aperto: Hands ha in sé il suono del naufragio, il gorgoglio dei flutti, l umore della superficie d’acqua rotta dal vento e dalla pioggia.
L’elettronica di Hands, a partire dalla title track, per proseguire con Last Days, Missed e Sofia è inquieta, graffiata, talvolta soffocata, quasi provenisse dal fondo dell’abisso a turbare le linee melodiche della voce, limpide ed eteree. L’unico momento di quiete lo si trova in Summer, tutt’altro che un brano solare, ma almeno (vagamente) onirico, uno squarcio di stelle in questo cielo plumbeo.
Una valida prova d’esordio per un progetto a cui forse manca ancora un tratto veramente caratterizzante.