BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Groove. Incessantemente groove. Instancabilmente groove.
Groove come una religione, una legge non scritta, ma ovviamente suonata.
Nell’universo interspaziale dei Vertical, popolato da afro-alieni, l’aria pulsa di groove in ogni angolo tra beat, giri di basso e squilli di fiati. Un groove che prende ora le forme del funk, ora quelle dell’afrobeat, ora quelle del blues, ora quelle di un pop psichedelico figlio degli anni ’70.
Tutto questo è concentrato e mescolato nelle quattro tracce di Equoreaction, secondo EP di una trilogia della band vicentina, che segue la pubblicazione di Alpha.
Nel nome del groove.
Higher Living: tornano le sperimentazioni elettroniche di LIM
Higher Living è il secondo lavoro Sophia Gallotti, alias L I M.
Già anticipato dai singoli YSK e Rushing Guy, e arrivato dopo l’esordio solista nel 2016 con l’EP Comet, il nuovo lavoro vede ancora l’artista collaborare con Riva alla ricerca di nuove sperimentazioni tra elettronica, ambient e “vapor disco”.
Se Comet portava l’ascoltatore in un mondo di atmosfere eteree e sognanti, Higher Living cambia almeno in parte i suoi panorami e offre episodi oscuri e dai beat sommessi, muri sonori fluidi, distorsioni vocali.
P!nk: tanti colori di house nei remix ufficiali di Beautiful Trauma
L’unica caso in cui vale davvero la pena ascoltare un remix è quando serve a dare a un brano una veste davvero nuova, possibilmente brillante tanto quanto quella originale, se non addirittura ancora di più. Ancora meglio quando un producer sceglie di azzardare trasformando una hit pop in un potenziale riempista zeppo di beat.
In questa impresa riescono le quattro versioni ufficiali dei remix di Beautiful Trauma, il brano che dà il titolo all’ultimo album di P!nk.
A firmarle sono quattro nomi forse non tra i più noti al grande pubblico, ma che hanno fatto un gran bel lavoro in consolle: Kat Krazy, MOTi, Nathan Jain e E11even.
BITS-RECE: [lessness], The Night Has Gone To War EP. Dolce, tremenda notte
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Vi è mai capitato di trovarvi a camminare soli, di notte? No, non andate subito a pensare a lupi mannari, fantasmi o banditi: pensate piuttosto alla pace che potreste – o forse avete trovato – immersi nel silenzio e nella luce lunare. Solo voi e la luna, forse minacciosa, forse indifferente, forse confidente immobile dei vostri pensieri, che di notte di solito si spogliano di tutte le menzogne e diventano nudi e sinceri.
Ecco, il nuovo progetto di [lessness], The Night Has Gone To War, alla notte deve tutto, perché di notte è stato concepito. Dietro c’è Luigi Segnana, ex membro della Casa del mirto, che per il nuovo progetto ha preso in prestito uno pseudonimo dall’opera di Beckett, scegliendo un termine che tradotto in italiano suonerebbe qualcosa tipo “senza”, a indicare un senso di vuoto e di smarrimento.
Un disco vestito di notte, nato in sette notti dell’inverno trentino e musicalmente figlio di quel synthpop fluido e affascinante che tanta fortuna ha avuto negli anni ’80.
C’è tanta oscurità in queste sette tracce, tanto tormento, tanta tempesta emotiva, perché per [lessness] la notte è proprio questo, il luogo dell’inquieto, il fondo dell’abisso dell’animo, il punto in cui ogni istinto vitale si ferma. Ma nello stesso tempo, è anche l’unico passaggio obbligato per tornare a vedere l’alba.
Se scrivere è per l’artista un atto di catarsi, allora lo è anche affrontare il buio e il freddo di una notte tremenda.
Quella di [lessness] è una notte che parte per la guerra, ma per quanto la battaglia possa essere lunga e dura la luce tornerà, e anche la notte avrà un volto più amico.
La dichiarazione di speranza arriva subito all’inizio, con Cwtch, pezzo se non proprio rassicurante almeno più luminoso del resto dell’EP: il testo recita “There’s A Fire That Burns In The Deepest Night”.
E non sembra un caso che proprio questo brano sia stato piazzato in apertura, quasi a segnare un promemoria prima di ripiombare in ogni nuovo circolo di oscurità: notti tremende che si fanno annunciare, avvolgono ogni cosa con il loro manto nerissimo, ma devono poi arrendersi a una nuova, immancabile alba.
Mentre la luna resta lassù, ascoltatrice silenziosa, “la notte curerà il nostro dolore”.
BITS-RECE: Emmecosta, Velour EP. Velluto scandinavo
BITS-RECE: radiografia emozionale di un fisco in una manciata di bit.
Positano e Göteborg. L’ultimo lavoro degli Emmecosta si muove lungo questa traiettoria a senso unico, in un percorso lungo quattro brani, quelli di Velour, ultimo EP della band italiana ma ormai svedese di base.
Tenui ambientazioni di synth-pop e suggestioni sognanti fanno da padrone in questo lavoro che sembra respirare la tipica quiete di una mattinata nordica, ai confini di una grande foresta o sulle sponde di lago nebbioso.
Se i caldi elementi mediterranei emergono come riflessi di malinconia, l’anima del gruppo è nutrita soprattutto dallo spirito del nord, è lì che vive ed è lì che si muove a suo agio.
Il gruppo spiega il significato di Velour come “la sensazione di desiderio incrollabile per un posto dove non siamo mai stati… una voglia di terra lontana o di una profonda sensazione di “nostalgia” per un posto che non abbiamo mai visto… Attraversiamo una strana sensazione di disorientamento, qualcosa di magico visto da lontano.”
Da dizionario invece, il velour è un tessuto felpato, simile al velluto. Ecco, la musica degli Emmecosta è esattamente questo.
BITS-RECE: unòrsominòre. Una valle che brucia + Analisi logica EP. Un flusso della coscienza
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Emiliano Merlin è il nome e la mente che si nasconde dietro al progetto unòrsominòre. (scritto esattamente così, con gli accenti e il punto finale). Musicista – e ricercatore di astronomia – veronese trasferitosi a Roma, dopo l’esordio con La vita agra nel 2012, nell’aprile 2017 ha pubblicato due nuovi lavori in contemporanea (a offerta libera su bandcamp nell’edizione digitale), l’album Una valle che brucia e l’EP Analisi logica. Due lavori che dovevano necessariamente restare separati vista la netta differenza di suoni e intenzioni che li caratterizza. Una differenza che, almeno nel mio caso, si porta dietro anche una netta distinzione di giudizio. Quanto l’album è sovraccarico di emozioni, tanto l’EP suona vuoto e pretestuoso.
E proprio da qui voglio partire. Le tre tracce di Analisi logica seguono quella ruvida natura indie rock che non sono mai riuscito a digerire, ma ancora di più quello che non riesco a digerire è la lezioncina morale – l’ennesima – che un cantautore si sente in diritto e dovere di rovesciare su di noi, povero popolo troppo impegnato tra selfie e aperitivi per capire come gira davvero il mondo. Un testo come quello di O tempora, il pezzo di apertura, pur con tutto il sarcasmo, suona come una versione riveduta, corretta e inacidita dell’Avvelenata di gucciniana memoria, con la differenza che in quel caso eravamo davanti a un testo e a un’intenzione di ben altra levatura, e soprattutto non c’era – o almeno non ci ho mai percepito – la voglia dell’autore di porsi su un livello più alto, ma semplicemente l’amara dichiarazione di non essere parte di un certo tipo di circo umano. Anzi, Guccini se la prendeva con quella frangia di critica seriosa di cui il nostro unòrsominòre. sembra proprio far parte. Là c’era il bersaglio della politica, qui di Instagram. E va beh, segno dei tempi. Apprezzabili comunque le numerose variazioni ritmiche della base, realizzate in un certosino lavoro di copia-e-incolla di sequenze.
Suonano meno retorici i due pezzi successivi, Épater le bourgeois e pezzali, che non riescono comunque a rendere veramente interessante il disco.
Come dicevo però, a fronte di un EP liquidabile, unòrsominòre. regala meraviglie con quello che un tempo si sarebbe chiamato LP, cioè l’album vero e proprio, Una valle che brucia. Undici tracce partorite da un lunghissimo e densissimo flusso di coscienza, musicalmente sospese tra chitarre e sintetizzatori.
Una valle che brucia è un disco inquieto, tormentato e spietato, capace di metterti a disagio nel suo essere nudo e sincero. Le riflessioni dei testi passano dalle considerazioni sulla presenza o assenza di Dio, ai gesti eroici di chi ha offerto la propria vita per il prossimo, fino a scontrarsi con la tragedia odierna dei migranti. Anche qui, non mancano episodi di critica sociale nell’era del web e dei tuttologi (Fare bene / Fare meglio).
Amaramente disillusa la preghiera atea di Hubris o Preghiera senza dio, violentissima e vivida la denuncia di Mattatoio, che si scaglia sull’uccisione degli animali per scopi alimentari. Dappertutto regna una tensione emotiva greve, plumbea e quasi liturgica, sulla quale si scolpiscono come diaspro testi densissimi.
Il capolavoro, unòrsominòre. lo realizza con Varsavia, brano ermetico e dall’atmosfera disagiante, grondante di riferimenti storici e letterari. Un monolite cantautorale ingombrante e apocalittico, nero e deserto come un campo di lava rafferma.
L’edizione fisica dei due lavori, disponibile su ordinazione via mail, consiste in una bustina di cartoncino riciclato, contenente i due cd, fotografie, e un codice per downloadare alcuni contenuti speciali (una raccolta di foto delle sedute di registrazione del disco, un libretto con i testi delle canzoni stampato nel formato degli articoli scientifici, con tanto di note a fondo pagina, e una versione alternativa di una delle canzoni del disco).
BITS-RECE: Anohni, Paradise EP. Un paradiso infernale
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
A meno di un anno dalla pubblicazione di Hopelessness, il suo angoscioso album di debutto sotto il nome di Anohni, l’artista britannica non placa i suoi tormenti e completa il cerchio con Paradise, EP di sei tracce figlie legittime delle precedenti per testi e sonorità.
Un progetto dedicato al mondo femminile, come si può subito notare dalle immagini di copertina (che vanno poi a riempire le pagine interne del booklet dell’edizione fisica), in cui compaiono i volti – anzi, i “ritratti”” – delle eroine scelte da Anohni, oltre ad Anohni stessa, a cui si aggiungono i nomi di altre “combattenti” nella pagina dei ringraziamenti. Due su tutte, Shirin Neshat e Naomi Campbell.
Il mondo dovrebbe essere nelle mani di una donna, di questo Anohni è più che convinta, perché millenni di potere maschile hanno portato la Terra sull’orlo della rovina.
Se con Hopelessness la cantante si era scagliata con rabbia sulla società e la politica, andando a colpire anche un bersaglio di solito immune come Obama, qui il suo sentimento si fa ancora più disperato e la sua rabbia verso il genere umano ancora più collerica.
I brani raccontano di un mondo impregnato di dolore, tragedia, un paradiso ribaltato dalle angosce e privato di ogni senso di umanità; viene chiamata in causa la religione e le violenze perpetrate suo nome (Jesus Will Kill You), si dice che i nemici si annidano ovunque (You Are My Enemy) e nel brano di chiusura sembra profilarsi uno scenario apocalittico per tutta la Terra (She Doesn’t Mourn Her Loss).
Archiviati ormai i tempi di malinconia e idillio di Antony & The Johnsons, la voce di Anohni resta balsamica, confermandosi come una delle più indipendenti e disturbanti della scena internazionale, mentre i suoni oscillano tra l’inquietudine nera e sinfonica del pezzo di apertura, contorni quasi liturgici, fino a episodi volutamente ruvidi e cacofonici.
Là dove di solito il pop e l’elettronica si soffermano sulla bellezza e restano spesso in superficie, la musica di Anohni scava nella coscienza e si fa portatrice di denuncia e disillusione, nel nome di un femminismo che non resta confinato alla richiesta di parità tra i sessi, ma grida battaglia per la salvezza di tutti.
A completare il progetto, un settimo brano, I Never Stopped Loving You, non inserito nel disco e disponibile solo inviando alla stessa Anohni una mail (anohni@rebismusic.com) contenente “un cenno anonimo di fragilità, una frase o due che racconti ciò che vi sta più a cuore, o delle vostre speranze per il futuro”.
BITS-RECE: Alessandro Ragazzo, New York. Solitudine e immensità
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
New York è molto più di una città, lo sappiamo, ce lo hanno insegnato i libri, i film, le canzoni. New York è l’incarnazione del caos, del ferro e del cemento, è il centro del potere, il punto in cui converge l’infinito. Un luogo dove l’ideale si fa realtà, il sogno acquista forma, la libertà sventola la sua bandiera più alta.
Tutti, anche chi non ci ha mai messo piede, si sono fatti un’idea di New York, e per quanto la sua skyline sia arcinota, ognuno ha della Grande Mela un’idea personale, perché New York è davvero così, parla milioni di lingue, palpita in milioni di ritmi, si fa guardare sotto milioni di angolazioni.
Non stupisce quindi trovarne un’ennesima – stupenda – interpretazione nel secondo EP di Alessandro Ragazzo, giovane cantautore veneto, che aveva già dato un’ottima prova d’esordio con Venice, EP dedicato a Venezia, ritratta nei suoi lembi notturni e malinconici.
È una mano gentile quella di Ragazzo, nella musica come nei testi, capace di dar forma a racconti intimi e riservati, svelando le emozioni più fragili e le sensazioni più personali. Ed infatti, quella che emerge nei quattro brani del disco è una New York forse inedita, che solo gli occhi più attenti riescono a vedere: Ragazzo ne raccoglie i respiri più leggeri e uggiosi, la racconta negli angoli silenziosi e lamentosi, che sono poi quelli dell’anima. Anzi, New York diventa un pretesto per far vibrare le corde interiori.
In uno sfumato incontro tra pop, rock e indie, la partenza con Freckles è quasi commovente, mentre subito dopo The King Came incombe tra desolazione e austerità. In mezzo a increspature di synth e chitarre, New York si staglia immensa e immobile, fredda sotto a un cielo grigio. Ma anche minacciosa, paurosa.
Pochi, pochissimi luoghi al mondo sanno essere tanto crudeli e ospitali come New York, metafora grandissima della natura dell’uomo.
Quello che ne fa Alessandro Ragazzo è un ritratto nudo, vivissimo, solitario. E profondamente umano.
BITS-CHAT: Un meticcio, Bologna e gli anni ’90. Quattro chiacchiere con… Senhit
È nata e cresciuta a Bologna, ma le origini della sua famiglia portano lontano, fino all’Eritrea. E canta in inglese. Nessun dubbio quindi che Senhit possa guadagnarsi l’appellativo della “più internazionale delle cantanti italiane”.
Attiva sulle scene tra teatro e musica già da qualche anno, ha da poco pubblicato l’EP Hey Buddy, in cui ha raccolto i brani realizzati nel corso dell’ultimo anno e che vedono anche il contributo di Corrado Rustici e Brian Higgins, super produttore inglese che in passato ha messo mano a successi di Kylie Minogue e Pet Shop Boys, e che con la musica di Senhit ha riportato la memoria agli anni ’90, gloriosissimo periodo della dance.
E mentre il remix di Something On Your Mind si fa strada nei club inglesi, lei si divide tra live, video blog, partite di calcio e Buddy, un compagno molto speciale arrivato da Brindisi.
Cosa nasconde il titolo dell’EP?
Buddy è il nome del mio cagnolino, un meticcio che è con me ormai già da qualche anno. Arriva da Brindisi, e quando l’ho preso si chiamava già così. È diventato il mio vero compagno di avventura. Posso quasi dire che le mie relazioni si sono annullate per lui (ride, ndr). Buddy è però anche un termine usato nello slang americano. “Hey Buddy!” è un po’ come il nostro “Ciao caro! Come stai?”, un modo molto cordiale e caloroso di salutarsi quando ci si incontra. Le prime volte che camminavo per strada in America sentivo continuamente gente che si apostrofava in quel modo e pensavo che Buddy fosse un nome, solo che lo dicevano anche a me, e non capivo perché mi chiamassero così!
Nei suoni dei brani sembra di ritrovare molto degli anni ’90.
Verissimo. Ho voluto proprio riprendere quei suoni, con una freschezza nuova: oggi va fortissimo l’elettropop e i suoni di quegli anni si sono un po’ persi, invece quel periodo è stato importantissimo, pensiamo solo a cosa è stata Corona per l’Italia o a certi ritornelli che tornano in testa a distanza di vent’anni (accenna l’inizio di Saturday Night di Whigfield, ndr). Prima di arrivare a questo genere però ho fatto tante altre cose e ho provato suoni diversi, fino a quando non ho incontrato Brian Higgins, anche lui con una passione per gli anni ’90: è stato lui a creare queste atmosfere.
Quasi sempre gli artisti bolognesi dichiarano di avere un rapporto molto forte con la tradizione musicale della loro città: è così anche per te?
Tutto per me è partito da Bologna e grazie a Bologna. Il mio primo album solista è stato prodotto da Gaetano Curreri ed è stato una sorta di omaggio che abbiamo voluto fare ai cantautori legati alla città, come Dalla e Morandi, riarrangiando alcune loro canzoni. Bologna ha una tradizione musicale fortissima, da cui nessuno dei suoi artisti può staccarsi completamente. Sarà il potere della mortadella?
Dell’Eritrea invece cosa porti con te?
Penso la passione. I miei genitori sono eritrei e in casa ho sempre respirato l’atmosfera di quel paese. Mia mamma cucina eritreo, quando si incazza parla eritreo e l’Eritrea è un posto in cui mi piace tornare. Mio padre ci è tornato da poco, aveva bisogno di staccarsi da ciò che aveva qui. Un po’ di Eritrea c’è anche in alcune sonorità dei miei brani del passato.
In un video su Youtube parli dell’ambiente discografico come di un mondo pieno di squali. Quali sono le difficoltà che hai incontrato fino a oggi?
Penso di essere arrivata nel periodo peggiore della discografia italiana. Tutto ruota intorno ai talent, le case discografiche prendono i ragazzi e li spremono finché possono dare qualcosa, poi li mollano a loro stessi senza dare una possibilità di crescita: ho fatto fatica a trovare qualcuno che volesse investire su di me nel tempo, provando cioè diverse strade fino a trovare quella più adatta. Mi viene in mente una come Zara Larrson, che è uscita da un talent show, ma ha poi avuto la possibilità di cambiare. Gli squali comunque ci sono nel mondo discografico, e in qualunque altro ambiente di lavoro.
Hai avuto la possibilità di suonare a Londra, Amsterdam, Berlino, Parigi: all’estero che atmosfera hai respirato?
Ho visto tanta curiosità. La gente va ai concerti e poi vuole conoscere l’artista, sapere chi è, da dove viene, si ferma a parlarti, e non importa se sei il ragazzino che suona la chitarra o Ed Sheeran. In alcuni casi ho notato un po’ di iniziale diffidenza, come a Parigi: la gente vedeva me, italiana ma di colore, che cantavo in inglese, ed è stata un po’ dura, ma in generale ho percepito una grande apertura. In Italia si preferisce non rischiare: siamo sempre un passo indietro agli altri, su tutto, come se prima volessimo vedere come va e poi casomai ci accodiamo.
Oltre alla musica, tra i tuoi impegni recenti c’è stato anche il tour dei “Giochi del calcio di strada”.
Bellissima esperienza, anche perché sono un’ex calciatrice! Avevo una compagna che giocava a calcio, ma non riuscivo mai ad andare a vederla, allora mi sono messa a giocare anch’io e da lì mi è nata la passione. Questo tour è nato da un invito dei Calciatori brutti (la più grande community calcistica italiana, ndr): ogni weekend eravamo in una località diversa e ci dividevamo tra tornei, conferenze e live, e io mi sono divertita anche a fare la blogger raccontando le tappe del tour con dei video. Ovviamente, Buddy è sempre stato con me!
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Penso che la ribellione sia legata al rispetto che si deve esigere per se stessi. Se questo rispetto non arriva, bisogna ribellarsi per ottenerlo, sempre. Lo dico per esperienza, perché io stessa mi sono ribellata alla mia famiglia uscendo dalla porta da cui mio padre, in maniera piuttosto teatrale, mi aveva indicato di uscire se avessi voluto fare la cantante. Diceva che non sarei andata da nessuna parte, ma io il desiderio di fare musica lo sentivo fortissimo. Se usata in questo modo, per farsi rispettare, la ribellione funziona, e va usata in qualunque situazione per raggiungere uno scopo, coronare un sogno o chiedere diritti, come accade nei Pride. Ribellatevi, ostinatevi, credeteci sempre.
#MUSICANUOVA: Lily Kershaw, Party Meds
Lily Kershaw è una giovane cantautrice nata e cresciuta a Los Angeles.
Il prossimo 6 ottobre pubblicherà l’EP Los Angeles, in cui racconterà la sua città con uno sguardo diverso da quello a cui siamo abituati, presentandola sotto una veste riflessiva, calma, ipnotica, cupa, proprio come sono anche Lily e la sua musica, che le ha fatto guadagnare paragoni con Lana del Rey.
L’EP segue l’album di debutto Midnight In The Garden. Ad anticiparlo è il singolo Party Meds, un brano dall’animo pop malinconico e ipnotico.
Il video esplora l’amicizia, intima e ambigua di due ragazze in un sogno ad occhi aperti e vede la partecipazione dell’attrice britannica Juno Temple.