Pour L’amour: Achille Lauro tra futuro, libertà e sambatrap

Cover Album Pour l'Amour
Benvenuti nel futuro.
Potrebbe essere questo il saluto rivolto all’ascoltatore dall’angelo glam che campeggia sulla copertina di Pour L’amour, il nuovo album di Achille Lauro, lavorato e prodotto in tandem con il fidato Boss Doms. “Questo disco ha il suono del futuro, perché dentro abbiamo mescolato generi diversi, come nessuno aveva mai fatto prima”, dichiara con fierezza il diretto interessato. “I miei fan lo sanno, non faccio mai un disco uguale all’altro, non mi piace creare un follow up di qualcosa che ho già fatto, per cui questo album è completamente diverso dal precedente, e così lo saranno i successivi”.
Quando parla dei prossimi dischi, Achille Lauro lo fa a ragion veduta, dal momento che lui stesso ha dichiarato che durante la lavorazione di questo album è stato prodotto materiale sufficiente anche per i prossimi due album: “Ci siamo chiusi in una villa lussuosa dispersa da qualche parte in Italia, e per un paio di mesi siamo rimasti lì dentro con 15 persone e un sacco di altra gente e amici che ci sono venuti a trovare, come Gemitaiz, con cui abbiamo scritto Purple Rain, una sorta di tributo alla nostra maniera a Maria Maria di Santana. In questa villa abbiamo vissuto in completa libertà, come se fossimo nel 1970, con 10 chili di marijuana, e abbiamo prodotto materiale per una trilogia di album, di cui questo è il primo capitolo: ognuno dei tre avrà un mood differente”.

Il risultato è qualcosa di ibrido, folle, esagerato, sicuramente ambiguo, come del resto Achille Lauro ha da sempre voluto apparire, a cominciare dalla sua immagine: “Sono stato il primo a presentarmi con un’immagine ambigua, indossando abiti femminili, e oggi lo fanno tutti, oggi l’ambiguità è una moda: i miei coetanei sono figli miei. Volendo fare un paragone, io e Boss siamo i David Bowie del 2018, i miei riferimenti pescano soprattutto dal passato, perché la vera musica era lì: Nirvana, Jim Morrison, Mina, Califano, ma anche da un film come Velvet Goldmine. Ho sempre anticipato i tempi, e anche oggi l’ho fatto con un disco come questo, proponendo un’altra invenzione mia e di Boss Doms, la sambatrap“.
Ecco, se Pour L’amour ha una parola chiave, forse è proprio sambatrap. A spiegarne il significato da dietro i suoi occhiali da sole rossi e psichedelici è Boss Doms: “Il nome è legato anche a un’esigenza estetica: avremmo potuto chiamarlo anche cariocatrap o mambotrap, perché sono tutte sfumature diverse di uno scenario musicale più ampio che rimanda all’America latina. Sambatrap è sembrata la definizione più immediata per rendere l’idea anche a chi non ha una conoscenza approfondita di quella musica”.

Foto Posata Achille Lauro e Boss Doms
ph. Virginia Bettoja e Floriana Serani

Vietato restare confinati nell’ambito del rap quindi, come è già molto evidente fin dalla prima traccia, Angelo blu, realizzata insieme a Cosmo, nome abbagliante della nuova scena elettro-indie italiana: un pezzo techno ed elettronico (“è la fusione di almeno quattro o cinque cose diverse, ma sorprendentemente Cosmo ha prodotto la parte più samba, Boss quella più techno”, sottolinea Lauro) che ruota attorno a immagini metaforiche di droga per descrivere la dipendenza dell’amore.
Subito a seguire è invece uno degli episodi più deliranti dell’album, BVLGARI, che non si limita però – come ci si aspetterebbe da un rapper – a un’ostentazione di lusso: qui l’immaginario corre all’attualità e alla cronaca, con il riferimento ai Casamonica e allo scandaloso funerale con carrozza, cavalli bianchi e petali di rosa, il richiamo al mondo degli zingari: il tutto immerso in un’overdose di beat sparati a mille, con la voce che alterna toni maschili e femminili, sempre all’insegna della totale libertà. Come del resto emerge in Non sei come me, pezzo nato per rompere le barriere dell’omologazione.
Inevitabile che il discorso si sposti verso la questione dei migranti, con i recenti sviluppi di cronaca, ma Lauro non si sbilancia molto: “Il rispetto per i diritti dell’uomo va garantito, e il razzismo è una stronzata”.
Si parla di amore sofferto in Mamacita, frutto della fusione di 15 tracce diverse, fino ad arrivare al risultato sperato: “Sentivo il bisogno di qualcosa di diverso, meno cazzone del resto dell’album, meno danzereccio”, spiega Boss Doms.
Sorprendente la chiusura, affidata a Penelope: “Volevamo un pezzo che restasse per i prossimi dieci anni: questo è un pezzo in cui parlo dei miei amori finiti male, ma anche dell’amore per il mio lavoro, ed è volutamente spoglio e acustico”.
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Mentre i live sono in fase di allestimento e si pensa già a qualcosa di teatrale con l’accompagnamento della “band più stronza in circolazione”, Achille Lauro annuncia anche di essere impegnato alla sua prima regia nella lavorazione di un primo docu-musical della durata di 60 minuti. Saranno in totale tre e andranno in proiezione al cinema, ognuno incentrato su una diversa canzone dell’album, ma riprendendo anche materiale degli anni passati.

Festa della musica di Brescia: il 23 giugno la quinta edizione. Già 480 gli iscritti

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480 iscritti
, per un numero di persone coinvolte che si aggira intorno ai 3500 musicisti e quasi 100 situazioni live in tutta la città, con palchi e altri spazi che ospiteranno le esibizioni. Sono questi i numeri provvisori – ma destinati a crescere, perché stanno arrivando ancora adesioni e nuove proposte di palchi – della Festa della Musica di Brescia 2018, l’evento organizzato sabato 23 giugno in tutta la città di Brescia dall’Associazione Festa della Musica di Brescia con il patrocinio del Comune di Bresciae il sostegno degli sponsor Fondazione ASMCentrale del Latte di BresciaAON eBrescia Mobilità.

La più grande Festa della Musica d’Italia coinvolgerà anche quest’anno solisti, band, orchestre, cori e altri tipi di ensemble di tutti i generi musicali (dal pop alla classica, dal jazz al rock, dall’etno al funky, passando per il soul, l’elettronica, il folk, la musica da parata, il reggae, il metal e ogni altro genere immaginabile). Una massa sonante che a partire dalle 10 del mattino (orario in cui si attiveranno i primi palchi) sino a mezzanotte (con un prolungamento per la dance) trasformeranno Brescia in un grande strumento musicale vivo e multiforme.

La FdMB è arrivata alla quinta edizione sotto la direzione artistica del dj Jean-Luc Stote, che proprio quest’anno festeggia i 40 anni di attività musicale a Brescia. Ma cinque edizioni della Festa non sono bastate ad alimentare la voglia di continuare a crescere e a differenziare le proposte, con un’attenzione particolare non solo al centro cittadino ma anche nelle periferie. E così anche quest’anno molte novità: le prime riguardano la dance, il busking e i più giovani a cui verranno dedicati aree e momenti particolari.

Per tutti gli amanti del dancefloor l’appuntamento imperdibile è con il “Castello Elettronico”, ovvero la musica elettronica protagonista dello splendido Castello di Brescia a partire dalle 16 del 23 giugno sino alle 3 del mattino seguente. Un mega evento voluto daRedrumTekno City e Psybrixia, tre realtà bresciane legate ai party e ai loro artisti con 3 stage (Techno/Minimal – Tekno/Hardtek – Psytrance/Goa), laser show, food & drink.

Il busking sarà invece protagonista di una “Pausa buskers” dalle 14 alle 16 dove tutti i palchi si fermeranno e sarà possibile esibirsi liberamente ma solo come artisti di strada. Un modo per evidenziare le possibilità che Brescia offre a tutti i buskers di proporre la propria arte a contatto diretto col pubblico, secondo una concezione della musica aperta e lontana dai divieti.

Si chiama invece “0-18” il progetto di contaminazione fra musica, teatro e differenti forme d’arte che coinvolgerà i bambini e i ragazzi degli istituti scolastici e musicali di Brescia negli spazi del MO.CA., che ospitano anche la sede dell’Associazione Festa della Musica di Brescia.
Altre novità verranno svelate nelle prossime settimane. Intanto però vengono confermati per il terzo anno di fila i concerti nelle carceri della città, Canton Mombello e Verziano.
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Al di là delle novità però la peculiarità della Festa della Musica di Brescia è quella di offrire gratuitamente al pubblico per un giorno una quantità di concerti che coinvolgeranno artisti alle prime armi ma anche nomi del panorama nazionale, grazie alla collaborazione fondamentale di tutte le realtà musicali di Brescia e provincia. Il tutto per scattare una fotografia il più possibile compiuta, articolata e vitale della comunità musicale bresciana e dei territori limitrofi, una rete di persone composta dai musicisti, dagli addetti ai lavori e dal pubblico che da cinque anni invade la città facendola letteralmente “suonare”.

La FdMB è una grande festa popolare che celebra TUTTA la musica e diffonde la Bellezza in ogni dove. I palchi della Festa sono pronti a dare visibilità a chiunque abbia voglia di imbracciare uno strumento o di prendere in mano un microfono per fare ascoltare il proprio Suono e la propria Voce.
L’appuntamento è per sabato 23 giugno, ovviamente a Brescia.

Media partnership:
BitsRebel / Blogdellamusica / Eroica Fenice / Indie-roccia / Lostingroove /Mescalina / Noise Symphony / Più o meno Pop / Traks / Viva Low Cost

Per info:
http://www.festadellamusicabrescia.it
https://www.facebook.com/associazionefestadellamusicabrescia/

#MUSICANUOVA: Ekat Bork, Kontrol

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“Fa parte della nostra natura essere controllati?”, si chiede Ekat Bork nel testo di Kontrol, singolo che dà il titolo al suo nuovo EP, in uscita a ottobre.

Sotto le sembianze inquietanti di un’umanoide ricreato in laboratorio, l’artista russa si tiene lontana da melodie accomodanti e si arrotola tra soffocanti atmosfere di elettronica e rock.

Se qualcuno può essere controllato, Ekat di sicuro no.

UNA VITA IN CAPSLOCK: la “Milano da botox” nel primo album di MYSS KETA

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Con quella mascherina e quegli occhiali da sole a coprirle costantemente il viso, la prima tentazione che si ha è scoprire chi si nasconda davvero dietro al personaggio di Myss Keta. Il punto però è che non importa.

Basta infatti fermarsi un attimo ad ascoltare i suoi brani per capire che chiunque abbia dato vita a quella creatura artistica (e stiamo parlando molto probabilmente di un team di cervelli più che dell’intuizione di un singolo) ha compiuto un’operazione che rasenta la genialità.
Per chi frequenta abitualmente le notti milanesi, il nome di MYSS KETA non sarà nuovo: il suo esordio è infatti datato 2013, quando nell’underground dei locali meneghini hanno iniziato a girare pezzi come Milano, sushi e coca o Burqa di Gucci.
Di quell’entità mascherata nessuno sapeva niente, ma tutti coglievano la malata lucidità che si nascondeva in quei testi, accompagnata da arrangiamenti tra elettronica e fidget house ipnotici e allucinogeni.
Il gioco ha iniziato a funzionare, ed ecco che dopo una prima raccolta (L’angelo dall’occhiale da sera: col cuore in gola) e l’EP Carpaccio ghiacciato, MYSS KETA ha fatto il grande salto con il primo album ufficiale, UNA VITA IN CAPSLOCK, pubblicato nientemenoche da Universal.
Un upgrade – come si direbbe nel lessico degli yuppies milanesi – che forse neanche lei si immaginava, e che porta il suo nome ben al di là della cerchia dei navigli.
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Ma quindi chi è MYSS KETA? O, meglio, che cos’è MYSS KETA?
Impossibile definirla, un po’ perché di definizioni esaustive non ce ne sono, un po’ perché lei stessa detesta essere ingabbiata sotto un’etichetta. Di se stessa dice di essere “una donna di spettacolo e uno spettacolo di donna”, ma è stata definita anche “icona pop”, “angelo dall’occhiale da sole”, “diva definitiva”, “Vergine, ma non troppo”, ovviamente “icona gay”.
Si è fatta notare con i suoi brani, ma l’impressione è che la musica sia solo una piccola parte di un fenomeno ben più ampio, che riunisce in un unico, amorevole abbraccio tutta la cultura di spettacolo nazional-popolare degli ultimi 30 anni: “dagli anni ’80 ad oggi non è cambiato niente, certe cose funzionano nello stesso modo dai tempi dei Romani. Semplicemente, gli scandali e le figure simbolo della Milano da bere sono standardizzati e sono diventati dei modelli che ancora oggi utilizziamo per parlare di certe tematiche”. Ecco allora che nei racconti di MYSS KETA spunta anche il Bar Basso, nota meta di appuntamento per designer ed esponenti della Milano che “gira bene”: qui dice di aver conosciuto Tea Falco, altra icona modernissima e dai contorni fluidi, protagonista del video di Botox. Insieme, assicura, sono “due matte”.

Disarmante sentirla parlare, perché con una dialettica studiatissima, KETA abbatte ogni tentativo di percepire la linea di confine tra realtà e finzione, verità e ironia, trash autentico e parodia, stereotipo e sincerità. Non sai mai quanto stia volutamente caricando la sua aura, quanto stia spingendo verso il trash o quanto ti stia bellamente prendendo per il culo.
Nei suoi brani, partoriti negli angoli di Milano, emerge il lato malato della metropoli, le sue manie compulsive, i suoi vizi incorreggibili: con l’aiuto dei suoi fidati angeli, le Ragazze di Porta Venezia, MYSS KETA raccoglie gli stimoli che la città le offre, li ingurgita e li risputa fuori, rendendo tutto inequivocabilmente “myssketiano”. Un’operazione nata non tanto da una qualche necessità di espressione, ma dalla semplice voglia di raccontare un certo mondo in un certo modo, permeato di ironia, “perché guardare il mondo con ironia non significa essere felici, ma voler esorcizzare il male che si ha dentro”.
Dall’ossessione per il botox, allo stress, alla droga, alla frantumazione dell’identità, MYSS KETA costruisce un labirinto di specchi in cui la sua voce ammiccante e narcotizzata si perde e fa perdere recitando celebri slogan pubblicitari o creandone di nuovi, avvicinandosi all’hip-hop senza mai entrarci del tutto.
I suoi riferimenti volano pindaricamente dalla politica (pare abbia flirtato con d’Alema in Costa Smeralda) al cinema (quello di Monica Vitti, Monica Bellucci, ma anche quello di Edwige Fenech, altra sua grande amica, così come Sophia Loren), passando per le estati in compagnia dell’Avvocato. Di se stessa racconta di essere stata la prima musa di Dalì e Warhol, ben prima di Amanda Lear (che naturalmente viene nominata nel disco), dice di essere apparsa al Drive In (ma non dice in che ruolo, altrimenti sarebbe riconoscibile), di aver vinto al Festivalbar nel ’95, di aver fatto la modella (siamo sempre a Milano, dopotutto), la velina, ma anche l’amministratrice delegata della Rovagnati (“Ho scelto di lavorare lì perché mi piacciono molto le loro feste di Natale, e poi adoro vedere le aiuole pubbliche con la pubblicità dell’azienda che ne finanzia il mantenimento”). Tra i suoi miti, il Gabibbo ed Enrico Ghezzi, mentre sogna Marzullo per un’intervista “strana”.
Un puzzle di finissima cultura pop in cui il trash convive con l’intellighenzia, costruito con un uso abilissimo dell’ironia e di un’urticante provocazione.
Mentre racconta la genesi dell’album, il rischio è di pensare soprattutto a non perdersi nessuno dei riferimenti che infila – più o meno velatamente – tra le parole ( come quando si lascia sfuggire un “in verità io vi dico…”), come in Una donna che conta, seconda traccia del disco, vera e propria e surreale sfilata di celebrità da riconoscere.
Proprio nulla viene lasciato al caso, nemmeno la foto della copertina, sotto la quale si cela un’esegesi stupefacente: “La scimmia rappresenta uno stato pre-umano, noi siamo la scimmietta, solo con qualcosa in più: nell’immagine io allatto il mio primate, è il razionale che allatta l’irrazionale. E quella che si vede nella foto è la scimmietta che ho a casa, solo che non posso sempre portarla con me perché spesso è impegnata a rilasciare interviste”.

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UNA VITA IN CAPSLOCK è una sorta di Commedia dantesca (“Alighieri, l’avete già sentito nominare? E’ uno scrittore bravissimo, ve lo consiglio”), un album interiore e scurissimo, che può trovare la luce ideale solo sotto i flash e i neon di un club: c’è la discesa agli inferi, l’affronto delle paure e dei demoni interiori da buttare fuori, ci sono visioni distopiche, ma alla fine c’è la salita al Paradiso, con After Amore. E non importa che si tratti di una visione paradisiaca temporanea o artificiale, sempre di Paradiso si tratta.
A dare “bellezza” all’album ci pensano le presenze angeliche, e assolutamente antitetiche rispetto a tutto il resto, di Birthh, con il suo canto etereo (nell’interlude di Inferno, ad esempio, omaggio all’elettronica di Valerio Tricoli) e Adele Nigro degli Any Other, che porta il suono di un sax malato: “sono come gli angioletti della Divina Commedia, per cui lavorare con loro è stato naturale”. 
Per le basi invece, accanto al sempre presente collettivo Motel Forlanini, brillano anche i nomi di Riva, Populous, Zeus! e H-24, producer dall’identità misteriosa.
Si torna così alla maschera nell’era dell’ossessione per la celebrità, KETA sceglie di non apparire, ovviamente consapevole che la maschera attira la curiosità, ma ancora di più convinta che la sua è solo una maschera  dichiarata, contro tutte quelle invisibili che ognuno di noi si porta dietro ogni giorno. Dietro a quegli occhiali, MYSS KETA può essere e dire quello che vuole.
Quindi davvero non importa sapere chi si nasconde lì sotto, perché il gioco di MYSS KETA è affascinante e divertente proprio per il suo assurdo mistero: non c’è nessun divismo da proteggere, nessuna intenzione di creare un patinato distacco dal pubblico, ma al massimo la volontà di dare al pubblico esattamente quello che vuole, lasciandogli la possibilità di metabolizzarlo come meglio crede.

E poi ricordatevelo, la realtà supera sempre la fantasia.

Il tour di presentazione del disco proseguirà con i seguenti appuntamenti:
30 aprile – Roma, Monk
4 maggio – Bologna, Locomotiv
5 maggio – Livorno, The Cage
26 maggio – Molfetta (Ba), Eremo Club

L’elettronica anti-routine di Durmast

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La si potrebbe definire “elettronica anti-routine”.

E come il più tipico dei rimedi omeopatici, per combattere la routine utilizza la sua stessa forza: la ripetitività, i giri infiniti attorno a un loop di sintetizzatori.
Tra breakbeat, trance e ambient, Durmast ha raccolto tutto nel suo primo lavoro da solista, Village.
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Già attivo come batterista degli Jasmine gli Sbalzi e Home By Three, Davide Donati ha messo da parte le bacchette e le pelli e si è messo sopra la consolle con la precisa missione di combattere la routine quotidiana a suon di sequencer, ritmiche ridondanti e minimali e bassi poderosi.
Perché “se non si può scappare dalla routine non si può far altro che accoglierla” e combatterla dall’interno.

Accanto ai suoni, che rimandano a ipnotiche atmosfere da club, il colpo decisivo di Durmast è l’abbinamento con immagini di vita quotidiana totalmente indipendenti: ecco allora un allenamento solitario in un dismesso campetto da tennis in Ciwi Throws Television o la preparazione casalinga dei tortelloni in presa diretta per accompagnare Hotel Barbara.

UNA VITA IN CAPSLOCK: il ritorno psichedelico e allucinato di M¥SS KETA

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Tra le creature partorite negli ultimi anni 
dall’underground, quello di M¥SS KETA è sicuramente uno dei nomi più magnificamente disturbanti: se la sua identità e la sua vita privata sono praticamente ignote, lei è diventata una vera e propria icona delle notti milanesi e non solo.

Spregiudicata, provocatoria, per natura iconica, ironica e follemente lucida, M¥SS KETA si è fatta strada lentamente, ma senza sosta, a ritmo di elettronica downtempo e barre psichedeliche di hip hop. Impossibile costringerla in un solo genere musicale, anche perché per lei la musica è solo una parte di una personalità fuori da ogni inquadratura “dritta”: musica, moda, performance artistica, esaltazione extrasensoriale, M¥SS KETA è tutto questo.

Quello che di lei si sa (per leggenda o per sua ammissione) è tanto allucinante e assurdo da poter quasi essere vero: dice di aver trascorso estati in compagnia dell’avvocato Gianni Agnelli ed Edwige Fenech negli anni ’80. Negli anni ’90 invece sostiene di aver flirtato in barca a vela con Massimo d’Alema al largo della Costa Smeralda, e con Sophia Loren a Courmayeur. Sembrerebbe essere stata la prima musa di Salvador Dalí e Andy Warhol, per citarne alcuni, dopotutto l’arte l’ha sempre affascinata, fin da quando fu la prima a scoprire che dietro l’enigmatico sorriso di Monna Lisa c’era semplicemente un robusto uso di ketamina.

Tutti la guardano, ma nessuno l’ha mai vista davvero, sempre coperta da immancabili occhialoni scuri o veli/burqa, mentre il palco sembra il suo habitat naturale.

Nel 2013 ha fatto il suo esordio con Milano, sushi e coca. a cui sono seguiti In gabbia (non ci vado), Burqa di Gucci, Le ragazze di Porta Venezia, raccolti successivamente nel greatest hits L’angelo dall’occhiale da sera: col cuore in gola del 2016.
Nell’estate 2017 pubblica l’EP Carpaccio ghiacciato, prodotto da Motel Forlanini, in cui spiccano le collaborazioni con Riva e Populous, che ha prodotto il singolo Xananas.

E’ solo adesso però che la ragazza si prepara a fare il grande salto: il 20 aprile uscirà infatti UNA VITA IN CAPSLOCK, primo album ufficiale, pubblicato sotto la bandiera di Universal Music con la collaborazione de La Tempesta.
Ad anticiparlo, dopo il singolo omonimo, Stress, nuovo brano prodotto da un altrettanto misterioso H-24: un viaggio allucinato, allucinante, distorto e psichedelico, afoso e malato.

Il 19 aprile prenderà invece il via dai Magazzini Generali di Milano l’#UVIC TOUR.
Un live esagerato che inaugura il nuovo capitolo della vita di M¥SS KETA.
A seguire, sarà il 20 aprile allo Smav di Casertail 30 aprile al Monk di RomaIl 4 maggio al Locomotiv di Bolognail 5 maggio al The Cage di Livorno il 26 maggio all’Eremo club di Molfetta (Ba).

Perdersi (e divertirsi): l’elettronica imaginifica di Pakkio Sans

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Si fa presto a definirla “elettronica”. Ma diventa difficile coglierne tutti i riferimenti quando tra i suoi beat si nascondono pause, distorsioni, groove irregolari, risultato di un bagaglio di influenze ricco e variegato.

E’ così che prendono forma le creazioni da dancefloor di Pakkio Sans, DJ e producer registrato all’anagrafe come Carlo Pacioni.
Attivo sulle scene dal 2014, è stato resident al Narciso e al Cocoricò di Riccione, collaborando con importanti nomi della house internazionale e prendendo parte a numerosi festival, oltre ad avere all’attivo già alcuni EP.

Dietro ai beat e ai BPM, nella sua musica ci sono prima di tutto immagini: “Attraversi un momento dove è inevitabile guardarsi allo specchio e capire chi sei realmente e cosa vuoi davvero. Lavarsi la faccia con l’acqua fredda e guardarsi negli occhi. Pakkio Sans è l’attimo prima di aprire gli occhi quando ti guardi allo specchio con la faccia bagnata.
Può essere sofferenza e gioia nello stesso momento, è la sensibilità con cui hai a che fare, qualcosa che nasce in modo naturale, che sai di cosa si nutre, di cosa parla. Qualcosa che sai cos’è ora, cos’è stato, ma non sai cosa sarà.”
Così egli stesso parla dell’essenza delle sue creazioni in consolle.
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Una visione imaginifica a cui non fa eccezione l’ultimo EP del DJ, Quando ti perdi (quanto ti diverti)?: due brani, la titletrack e La luna piena non aiuta, quest’ultimo concepito in una notte di luna piena e intriso di campionamenti vocali di bambini.

Un mini lavoro alla ricerca di un’elettronica onirica e ipnotica.
Per perdersi, e divertirsi.

BITS-RECE: Wrongonyou, [Re]Birth. Elettrofolk per cuori leggeri

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Wrongonyou, ovvero Marco Zitelli, è un ragazzone romano classe 1990. Dopo i primi singoli rilasciati sul web alcuni anni fa e una rispettabile attività live in Italia e all’estero, è arrivato adesso al grande debutto discografico con [Re]Birth. Un disco in certo senso doppio, perché se da un lato raccoglie una manciata di nuovi brani, realizzati sotto la supervisione di Michele Canova, dall’altro riprende i singoli degli anni precedenti, i brani che più di tutti hanno segnato i primi momenti del suo percorso.
Birth e [Re]Birth, nascita e rinascita, appunto.

Innamorato tanto del folk quanto dell’elettronica, un po’ come Bon Iver, Wrongonyou li ha uniti per crearsi un proprio territorio sonoro, fatto di suggestioni gentili, dettagli sussurrati, colori crepuscolari, un immaginario carico di elementi della natura e riflessioni solitarie e intime. 
Valga per tutti l’esempio di un brano come Son Of Winter, emozionante confessione di padre sul letto di morte, con il grande rimpianto di non aver vissuto abbastanza a fondo. 
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Se sulla copertina Wrongonyou – anzi, sarebbe forse meglio dire Marco – ci appare protetto dall’abbraccio di un grande orso disegnato in bianco, la sensazione che abbiamo ascoltando le sue canzoni è proprio quella di trovarci davanti a un artista che ci mette a nudo il suo cuore e vola in alto, leggerissimo.

Limerence: ossessioni e amore nero nel nuovo video di Erio

Il 20 aprile uscirà Inesse, il nuovo album di Erio, che segue di tre anni l’esordio con Für El.
Ad anticiparlo è il singolo Limerence.
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Nel video – diretto da Gabriele Paoli e girato ai Blundell Street Studios di Londra- Erio canta circondato da donne e uomini che a turno interpretano il romanticismo e l’ossessione espressi nella canzone in una serie di scene sensuali e a volte inquietanti. Ogni trama mostra un lato differente dell’angoscia e paranoia causata dall’amore ossessivo, rappresentato da un liquido nero che sporca i personaggi.

L’elettro-soul di Nakhane tra emancipazione e guerre spirituali

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“Una notte, sognai una voce  che mi diede una data, quella della mia morte. Non ho intenzione di rivelarla, ma all’improvviso, avendo sempre vissuto nella paura della punizione divina, ero certo che non sarei morto il giorno dopo, o anche dieci anni dopo. È stato incredibilmente liberatorio. Ho deciso di recuperare il tempo perduto, di vivere finalmente la mia vita.”
E’ partito così il lavoro del secondo secondo album di Nakhane, You Will Not Die, in uscita il prossimo 16 marzo.

Nonostante la sua giovane età, Nakhane ha alle spalle storia fatta di accettazione e autoaccettazione, lotta per l’emancipazione e lotte spirituali. Nato ad Alice da una famiglia  Xhosa (il secondo gruppo etnico per grandezza in Sud Africa, dopo lo Zulu) e cresciuto a Port Elizabeth, ha rinunciato alla fede cristiana per accettare se stesso e il giudizio degli altri: “Quando ero cristiano e pregavo Dio tutti i giorni, provavo solo odio per me stesso. Ogni giorno della mia vita, facevo tutto il possibile per essere come gli altri, per essere eterosessuale. Ero persino convinto che sarei stato in grado di “guarire” la mia omosessualità. Vivevo nella costante paura; controllavo me stesso in ogni momento.”
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Questo bisogno di autoaffermazione si è quindi riversato nel suo secondi disco, in cui Nakhane ha ricercato suoni più audaci, passando dalla chitarra acustica al pianoforte e scrivendo utilizzando computer e sintetizzatori senza perdersi però nelle infinite possibilità offerte dall’elettronica: “Sapevo di volere dei suoni elettronici. A Johannesburg, senti molti artisti suonare in acustico solo per sembrare più “autentici”, ma non funziona. I suoni dei gay club techno sono molto più veri per me.”
Ciò che ne è venuto fuori è un disco elettro-soul sperimentale e sensuale, in cui non mancano le influenze africane: c’è la bellezza quasi liturgica di Violent Measures, con le sue armonie fraterne e i vocals cristallini; c’è l’insistenza elettrizzante in levare di Clairvoyant; il languore sensuale e spirituale di Presbyteria, dove Nakhane descrive la prima chiesa in cui si è recato, ad Alice; o l’atmosfera magica e oppressiva di The Dead con le sue chitarre blues e le sue misteriose armonie, dove Nakhane menziona i suoi antenati Xhosa. In Star Red Nakhane rende anche omaggio a sua nonna (“una ribelle alla sua religione, fu una delle prime persone a dirmi di vivere la mia vita come mi pareva opportuno”).

Sembra quindi naturale che un artista così nomini influenze eclettiche che dai musical americani, spaziano a Marvin Gaye, Nina Simone, Ahnoni, David Bowie, ma anche Busi Mhlongo, Simphiwe Dana, Mbongwana Star, TkZee.