Witness. Che succede, miss Perry?

Witness. Che succede, miss Perry?

katy-perry-witness-credits (1)
Una vecchia saggezza popolare vuole che nulla sia per sempre, e che ogni cosa abbia in sé una data di scadenza più o meno prolungata. Una convinzione che, fin dalla notte dei secoli, ha trovato puntuali riscontri nelle realtà, in ogni luogo e in ogni circostanza.
Non poteva non essere così anche per Katy Perry, fenomenale mangiatrice di download e classifiche. Almeno fino a ieri. Già, perché l’uscita di Witness, suo quinto album, ha trovato un’accoglienza molto più tiepida del previsto e dei precedenti lavori, raggranellando cifre anche solo comiche se pensate per una come lei qualche anno fa.
Che qualcosa si fosse incrinato sull’immacolata sfera magica della ragazza californiana lo si era intuito già l’estate scorsa, quando Rise – singolo uscito in pieno luglio senza una meta precisa ed eletto come sorta di inno delle Olimpiadi di Rio per gli Stati Uniti – non è riuscito ad andare oltre l’undicesimo posto della Billboard, un luogo che invece per la Perry doveva sembrare ormai ospitale e famigliare, visto che ci ha piazzato una quantità impressionante di numeri 1.
I musicofili, quelli seri e pensosi, dicono che la musica non è fatta solo di numeri, classifiche e download, e c’hanno ben ragione, ma noi gente del pop(olo) sappiano che nella realtà i numeri, le classifiche e i download sono la vera anima di quello stupendo carrozzone scintillante che prende il nome di music biz, dentro al quale tutti – compresi i signori seriosi di cui sopra – vogliamo sempre dare occhiate furtive. Nel caso di Rise, quasi nessuno si è azzardato a parlare di mezzo flop e tutto è passato sotto silenzio, mentre è stata massacrata Britney, che lo stesso giorno era uscita con Make Me, il singolo del suo ritorno.  
Poi a febbraio è stata la volta di Chained To The Rhythm, che è riuscito a fare un po’ meglio, ma non ha colpito nel segno come i vecchi (?) tempi. Eppure gli elementi c’erano tutti: sonorità gommose, colori pastello, pop dal ritornello fragoloso, con in più una nota politica – nel testo e nel video – prima di allora assente nella discografia di Katy. Già, perché quando si è iniziato a parlare del progetto di Witness, le parole che circolavano di più erano impegno e politica. Insomma, quello che stava per arrivare sarebbe stato il famoso album della maturità e della crescita che ogni artista cerca di piazzare nella propria carriera.
Chiudendo gli occhi anche sul mezzo passo falso di Chained To The Rhythm, si è arrivati a fine aprile a Bon Appétit, e qui non c’è stata possibilità di farla franca: un flop bello e buono, un brano completamente ignorato dalle classifiche (almeno ai piani alti) e massivamente massacrato da pubblico e critica. Non sono bastate le generose metafore tra sesso e cibo, un video sicuramente molto carino e una promozione potente a risollevare le sorti di una canzone mediocre, inzuppata di trap e lontanissima dalla forza di pezzi come E.T., Firework, Roar e Dark Horse.
Praticamente la stessa sorte è toccata poi a Swish Swish, singolo promozionale che vedeva anche la partecipazione di Nicki Minaj, una delle più carismatiche rapper dei nostri tempi, nonché fenomenale tappabuchi quando si tratta di realizzare featuring.
katy-perry-witness-1497036740 (1)
Ma è stato solo quando l’album è uscito che ci si è resi conto della delusione: di tutto l’impegno promesso, in Witness se ne ritrovano solo pochi riflessi qua e là, e la famosa crescita agognata non si è vista. Katy Perry non si è trasformata in una militante pop (nonostante sia quella che si è più spesa per la Clinton in campagna elettorale) e Witness è un semplice album “alla-Katy-Perry” forse solo un po’ meno farfallone dei precedenti, in cui c’è un po’ di questo e un po’ di quello, c’è tanta elettronica, tante memorie degli anni ’80, ci sono anche novità sonore (vicinanze alla house e all’EDM), ma non c’è il pezzo-bomba, e soprattutto non c’è quello che ci si aspetterebbe di trovare in un album “impegnato”.
La Perry ha provato a togliersi gli abiti da fatina, ha provato a spazzolare un po’ di nuvole di caramello dai suoi brani, cercando allo stesso tempo di restare fedele al suo marchio pop simpaticone, ma la sua sfera magica si è incrinata.
Quando si è capito che l’aria tirava male, come spesso accade è stata messa in moto una potente e fastidiosa campagna promozionale, con dichiarazioni di amore e pace per chiunque, da Lady Gaga alla nemica di sempre Taylor Swift, che non pare comunque essersi troppo commossa, fino alle dichiarazioni del meditato suicidio in passato. Davvero molto pretestuoso.

Nel 2013, quando proprio Lady Gaga ha fatto il tonfo con l’elettronica acida e azzardata di ArtPOP – album che varrebbe comunque la pena di rivalutare a distanza di quattro anni – la Perry sembrava la salvatrice del pop, l’unica in grado di avere la ricetta segreta per il successo ad occhi chiusi.
Witness si è preso il primo posto in Billboard, ma con un debutto inizialmente previsto a 220.000 copie e poi rivisto al ribasso a 180.000; in Inghilterra si è dovuto accontentare del sesto posto, così come in Italia. L’unico posto dove l’album sembra fare scintille è la Cina, che ha da poco regalato a Witness il quinto disco di platino per le oltre 100.000 copie vendute.rs-katyp-v2-0361343b-45ad-4f5e-923e-ac413cb9faf0 (1)
E allora, che succede adesso, miss Perry? Niente, non succede assolutamente niente di strano. Succede solo che oggi ti va bene, domani non lo sai. Perché i gusti del pubblico sono capricciosi e traditori: oggi ti innalzano agli altari, domani ti buttano nella polvere, anche se magari tu ce l’hai messa proprio tutta (l’unica cosa che personalmente non le perdono è aver pubblicato un singolo come Bon Appétit, ma pezzi come Bigger That Me e Into Me You See non sono male per niente). Basti pensare che nel 2010 a finire nel fango del flop fu Christina Aguilera, che aveva pubblicato un album tutt’altro che brutto come Bionic, e che poi nel 2012 ha ri-floppato con Lotus, altro disco che quanto a qualità mangia in testa a molti bestseller.

Vuoi il karma, vuoi la moda, vuoi la sfiga, succede e basta. Katy Perry pareva infallibile, e adesso sappiamo che non lo è, e questo non può che rendercela un po’ più simpatica.
Dopo tutto, è solo un flop, ci sono passati (quasi) tutti.

#MUSICANUOVA: Benny Benassi, Lush & Simon, We Light Forever Upm (feat. Frederick)

Basterebbe citare solo i nomi degli artisti coinvolti in questo progetto per rendere l’idea della portata di We Light Forever Up.
A collaborare a questa traccia sono stati infatti tre pesi massimi della scena dance mondiale, tutti e tre italiani: Benny Benassi e Lush & Simon.
Se il primo è una vera e propria star internazionale, gli altri due sono ormai molto più di una rivelazione, ma una concreta realtà della scena EDM internazionale.
Per l’occasione i tre DJ e produttori si sono avvalsi dell’apporto vocale di Frederick.

The Cure, il più grande compromesso di Lady Gaga?

17952438_10155386302784574_5762502787938607770_n
C’è stato un tempo in cui il nome di Lady Gaga significava sorpresa, stupore e innovazione. Un tempo in cui l’emergente Lady Gaga assaliva il web e insegnava ai suoi più navigati colleghi a usare i social network e YouTube, dando il via alla nuova generazione di popstar. Un tempo in cui Lady Gaga faceva pop con la sua testa.

Un tempo che sembra lontano, oggi più che mai.
In quasi dieci anni di carriera, Lady Gaga ha raccolto successi, infranto record, è andata a sbattere contro flop clamorosi, è passata dal pop cattivissimo di Bad Romance al jazz con Tony Bennett, ha giocato a fare la nuova Madonna e ha imbracciato la chitarra per fare la country singer in Joanne. Ha fatto pezzi meravigliosi e pezzi da dimenticare, ma mai sembra essersi abbassata al compromesso come ha fatto con The Cure, l’inedito rilasciato a sorpresa pochi giorni fa in occasione della partecipazione al Coachella.


Dopo la (parecchio) spiazzante virata country di Joanne, sentendo The Cure in molti hanno parlato con un certo entusiasmo di un ritorno alle origini, un ritorno ai “tempi d’oro”. Ma siamo sicuri? Cioè, davvero The Cure si sistema sugli stessi binari sonori su cui hanno viaggiato alla grande Poker Face, Just Dance e Bad Romance? Non è che, piuttosto, si sta confondendo la presenza di un generico suono elettronico con un fantomatico ritorno all’ovile?
Poker Face e Bad Romance erano pezzi animati di vita propria, pezzi ruvidi, affilati, pop sporco e violento, The Cure è qualcosa di diametralmente opposto. È un pezzo di quiete tropicale, un downtempo tra EDM e r’n’b che di personale ha ben poco, e anzi sembra essere stato piazzato apposta in coda nell’imperante filone in cui si sono comodamente seduti artisti come Zara Larrson e a The Chainsmokers.
Forse per la prima volta, su un singolo di Gaga si insinua il dubbio del compromesso facile: una sensazione che non si era provata neanche ai tempi della rovente e usurata diatriba Born This Way/Express Yourself, perché lì tutto si muoveva su un attentissimo gioco di specchi e di provocazione.
Con The Cure Lady Gaga sembra aver voluto giocare troppo facile, e gratuitamente, assecondando ad occhi chiusi radio e web, forse alla ricerca di un pubblico (il più giovane) che non si era mostrato abbastanza interessato all’intimità di Joanne.
Resta poi da capire il motivo del rilascio di questo singolo, con un album pubblicato solo sei mesi fa, e se si tratti di una parentesi o del primo capitolo di un nuovo corso.
Una cosa è certa: se Lady Gaga voleva veramente tornare a casa, questa non è la strada più breve.

BITS-RECE: Tokio Hotel, Dream Machine. Vuoto elettronico

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
final-cover2-3000x3000-111976481
Sono tornati con un nuovo album dopo tre anni e si sono buttati a capofitto nell’elettronica.
Sono proprio lontani i tempi in cui i Tokio Hotel sconvolgevano gli adolescenti con il loro stile emo e il carisma decisamente ambiguo del loro leader, Bill Kaulitz. Oggi, esattamente 10 anni dopo, i ragazzi sono diventati degli ometti – lo si vede già dalle nuove foto: i visi puliti sono increspati di barbe e piercing, le voci efebiche si sono ispessite, sono spuntati i muscoli e ogni traccia di rimmel e fondotinta se n’è andata(già da tempo, a dire il vero). E con loro se n’è andato anche quel filo di sale che portava corrente all’anima del gruppo.
Sì, ogni tanto, sopratutto nei video, qualche provocazione l’hanno buttata lì (vedi Feel It All, dall’album precedente), ma erano appunto spunti visivi, non musicali.
th_studio_2_048_final_by_lado_alexi-116980540

Peccato. Da allora di musica ne è passata un po’ sotto i ponti, non sempre con gli stessi esiti, e questo nuovo ritorno che prende nome di Dream Machine sembra segnare un aridità di idee. Elettronica sfacciata e spudorata, tra fiumi di synth e montagne di vocoder, ma dietro a questo velo ad alto voltaggio non sembra esserci molto. Ci si poteva aspettare un sussulto di – non dico maturità – ma almeno di crescita, cosa che non si avverte. Tanto per dirne una, Something New sembra l’ennesimo singolo dei The  Chainsmokers, e neanche dei più belli.
E non c’è neppure un pezzo alla Monsoon o alla The World Behind My Wall, ma solo nuvole di zucchero filato passate in un bagno di elettroni. E si sa, le nuvole se ne vanno al primo colpo di vento. Il momento più interessante è con What If, guarda caso proprio il primo singolo.
L’adolescente che resta (neanche troppo) nascosto in me, un po’ piange. 

#MUSICANUOVA: Starley, Call On Me

starley-call-on-me
Call On Me
è il singolo di debutto della cantante australiana Starley.

Qualche anno fa la ragazza ha deciso di spostarsi a Londra, dove si è occupata di songwriting per più cantanti, ma dopo 5 anni torna nella sua Australia per lavorare nella azienda di famiglia, mettere da parte dei soldi e partire per gli States in cerca di un nuovo contratto editoriale.
Ritornata per l’ennesima volta in Australia, una sera sul suo letto scrive Call On Me, una canzone con un bel messaggio di speranza: “quando non senti di ricevere quello che desideri, non demordere, devi continuare a crederci perché prima o poi il tuo sogno si avvera”.
Il singolo piace, viene pubblicato in Australia e Ryan Riback si occupa del remix.

BITS-CHAT: Elettronica universale. Quattro chiacchiere con… FRENSHIP

A volte le via della provvidenza – in questo caso musicale – sono davvero infinite. Prendete per esempio il caso dei FRENSHIP, due californiano che dal 2013 si è fatto notare grazie all’elettronica fresca di brani come Knives, 1000 Nights, Nowhere e poi soprattutto con il singolo Captize. Le due anime del progetto, James Sunderland e Brett Hite, lavoravano da Lululemon, una catena di negozi specializzata in abbigliamento sportivo (“abiti per lo yoga”, specificano), lì si sono conosciuti e hanno dato vita a un progetto condiviso che nel 2016 ha dato vita al primo EP, Truce.
15391148_650817328425698_9195247865439444763_n
Quando avete deciso di iniziare a fare musica insieme?
Brett: All’inizio del 2013. Lavoravamo in un negozio di abiti da yoga ed entrambi avevamo qualche esperienza in ambito musicale, piccoli progetti, piccole band, James in particolare, ma dovevamo ancora capire bene come gestire queste attività, e se volevamo davvero fare musica o semplicemente amarla da ascoltatori. Siamo diventati amici e ci siamo trovati in linea con i gusti, per cui abbiamo pensato che non sarebbe stata una cattiva idea provare a fare qualcosa insieme e a settembre dello stesso anno abbiamo realizzato il primo brano, Knives, in cui abbiamo collaborato con il producer norvegese Matoma. È stato emozionante focalizzare per la prima volta l’attenzione su qualcosa di nostro.
FRENSHIP: perché è scritto in questo modo?
James:
Non c’è un motivo particolare. Ci è semplicemente sembrata un’idea carina e originale.

Come è nata la collaborazione con Emily Warren in Captize?
J:
L’abbiamo conosciuta perché avevamo la stessa etichetta discografica. Ci siamo incontrati a New York e siamo presto diventati amici. Ci è piaciuto quello che faceva, il suo modo di scrivere e di fare pop.

Ci sono altri artisti con i quali vi piacerebbe collaborare?
B: Tanti, tantissimi, perché i nostri ascolti spaziano molto. Sting per esempio è uno con cui lavoreremmo volentieri. In generale ci piace l’idea di portare la nostra musica a contatto con altri artisti, così come ci piace accogliere influenze esterne, vedere come la musica e i messaggi prendono forma, ma più che alle collaborazioni adesso vogliamo concentrarci su di noi, sulla nostra musica. Siamo i FRENSHIP e vogliamo che il pubblico ci conosca per quello che siamo.
J: Parlando di producer, mi è piaciuto molto quello che Brian Eno ha fatto con i Coldplay e gli U2, mi piace la sua visione del pop, è un artista con una mente brillante.

frenship-truce-ep-2016-2480x2480
La cover dell’EP Truce

Ascoltando i vostri brani si sentono sonorità diverse, persino rock: quali sono le vostre influenze?
B: Sting, Police, Genesis, Peter Gabriel, ma anche Skrillex, i Bastille, Christine And The Queens, Ellie Goulding… 
J: Ognuno di noi ha poi quelle più personali, pop, hip-hop, elettronica. Come dicevo prima, a me piacciono molto anche i Coldplay. Cerchiamo di spaziare anche con il tempo, tra cose moderne e altre del passato.
Pensate ci siano delle differenze tra l’elettronica negli Stati Uniti e qui in Europa?
B: Mmm…. è difficile dirlo. La mia impressione è che negli States si stia cercando di riproporre gli stimoli che arrivano dall’Europa.
J: Qui in Europa la nostra musica sembra funzionare meglio, ma non so se ci siano delle reali differenze nel modo di fare e vivere l’elettronica. Sicuramente l’Inghilterra è un grande punto di riferimento per l’elettronica.
B: E poi forse negli Stati Uniti puoi continuare a fare la ressa cosa per anni, mentre qui in Europa ci sono molto più novità, molto più rinnovamento.
14717276_625839400923491_1978493888361384955_n
Nei testi delle vostre canzoni sembra quasi di ritrovare un elemento spirituale: è così? Fate riferimenti alla rinascita, al mistero che si cela dopo la morte, al senso dell’esistenza…
B: Entrambi siamo persone spirituali, io ho avuto un’educazione cristiana, ma forse più che di elementi spirituali sarebbe meglio parlare di elementi universali, che in qualche modo rientrano nella vita di ogni uomo.
J: Sì, quello che vogliamo comunicare nei nostri testi è l’orgoglio verso se stessi, questo è il mio modo di intendere la spiritualità, come qualcosa di universale.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
B: Per rispondere potrei star qui a parlarne per ore. Non è facile, adesso va a finire che vado avanti a pensarci fino a quando arrivo a casa. (ride, ndr) Non saprei davvero.
J: Secondo me l’essenza della ribellione sta nella parola “no”, ribellarsi è come andare in giro con un grosso no stampato sulla maglietta.
B: Sì, ok, ribellarsi vuol dire andare contro qualcosa, ma credo che sia importante anche capire il motivo che sta dietro a questa azione, la causa che ti porta a ribellarti. Lasciamo pure da parte quello che sta succedendo in questo periodo in America, ma ci sono tanti tipi di ribellione. È una questione di grande importanza, perché riguarda un po’ tutti.

Martin Garrix & Dua Lipa, Scared To Be Lonely

martin-garrix-dua-lipa-scared-to-be-lonely-2017-2480x2480
Le presentazioni in questo caso servono a ben poco: basterebbe anche solo dire che Martin Garrix ha chiamato Dua Lipa per dar vita Scared To Be Lonely.

Due protagonisti della scena musicale degli ultimi mesi che uniscono le forze in un pezzo di EDM malinconico e potente.
Basta, tutto il resto  è davvero superfluo e la bellezza del brano sa parlare da sola.