Se fosse nato nell’Ottocento, molto probabilmente Douglas Dare sarebbe rientrato nella schiera degli artisti più tormentati del Romanticismo, al pari di Caspar David Friedrich nella pittura o del nostro Leopardi nella poesia. Invece si è ritrovato a fare musica nel XXI secolo e ha dovuto tradurre le sue ansie e i suoi quesiti interiori nel linguaggio della nostra epoca.
Inglese, figlio di un’insegnante di pianoforte ed egli stesso abile con lo strumento, Douglas ha mescolato gli elementi classici e vintage con le spinte dell’elettronica e del pop, costruendosi attorno una stanza musicale del tutto personale, all’interno della quale non ha mancato di far entrare un certo amore per i giochi d’immagine e una notevole propensione al pessimismo cosmico. Il che, per nostra fortuna, lo rende ancora più interessante.
Lo scorso ottobre ha pubblicato Aforger, il suo terzo lavoro: un album di 10 tracce scaturito dopo aver dichiarato al padre la propria omosessualità ed essere dolorosamente uscito da una storia d’amore, finita per la scoperta di bugie da parte del partner. Da quei due eventi, per sua stessa ammissione, è cominciata dentro di lui una sorta di rivoluzione che lo ha portato a mettere ogni cosa in discussione, persino la sua identità e l’intera realtà attorno. Ad aiutarlo a risolvere almeno in parte i suoi interrogativi pare sia stato 1984 di Orwell.
Aforger – il cui titolo altro non è che la crasi di A forger, ovvero, “un contraffattore” – non è quindi un album sulla fine di una storia, ma è un disco che cerca di risolvere una matassa intricatissima, mette tutto in discussione, si immerge nei dubbi più spaventosi, e lo fa nel modo più sincero e nudo possibile.