Tango, l’esordio di Joan Thiele tra tigri, montagne ed elettronica

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Non si intitola Tango per richiamare il ballo argentino, ma si intitola Tango per lo stesso motivo per cui il ballo argentino si chiama così, vale a dire il riferimento etimologico al contatto, all’emozione vissuta da vicino, sotto un certo punto di vista anche alla condivisione. Toccare, comunicare, condividere.
Tango è il primo album di Joan Thiele, animo musicalmente nomade, figlia di padre colombiano e madre napoletana. Un’eterogeneità genetica e di influenze che non poteva non trovare una sintesi unica e perfetta in un album d’esordio così personale.
Il lavoro sui brani è partito infatti due anni fa, durante un periodo difficile per Joan: si era recata ad Armenia, in Colombia per far visita al padre e al suo fratello gemello. Un’occasione di riscoperta delle proprie radici, ma anche una spinta a tirar fuori e riuscire finalmente a comunicare certe paure rimaste fino ad allora annidate all’interno. Lì l’ispirazione è arrivata da Cocora, la montagna di fronte ad Armenia, protagonista del omonimo interlude e poi di Mountain of Love, e dal suono tribale di un tamburo del Sud America, quello che scandisce il ritmo di Armenia Quindio
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Accanto agli elementi etnici e acustici, dall’Europa sono invece arrivate le sonorità elettroniche, che rappresentano l’altro volto principale dell’animo sonoro di Joan, quello che ha ereditato dalla madre.
Influenze mescolate e quasi indistinguibili, per dar vita a un genere che respirasse un po’ di Europa, un po’ di urban e un po’ di esotico, senza essere esattamente nulla di tutto questo.
Per registrarlo, Joan è salita a bordo del Red Bull Music Studio, uno studio di registrazione a tutti gli effetti, con la piccola particolarità di essere allestito dentro a un enorme truck in movimento: “Eravamo stazionati alle porte di Milano, con intorno la campagna, le mucche. E’ stato bellissimo registrare e poi uscire per andare a mangiare e ritrovarsi intorno i campi”.

Se singoli come Armenia e Polite erano serviti a dare una prima idea del mondo di Joan Thiele, è solo ora, andando a fondo tra le singole tracce che si osserva davvero tutto il mondo che questa ragazza vuole portare in superficie. Accade, per esempio, in un testo come quello di Blue Tiger, tutto giocato su una metafora visionaria: “Da piccola vedevo mio zio, il gemello di mio padre, partire spesso quando gli chiedevo dove andasse lui mi rispondeva che viveva con le tigri. Solo dopo, crescendo, ho capito che era coinvolto nelle Farc e che stava attraversando un momento complicato della sua vita, ma per me lui è sempre rimasto una tigre blu, diversa da tutte le altre. E alla fine torna a casa”.
A livello di scrittura, non mancano inoltre alcune collaborazioni, come quella con la musicista inglese Kadija Kamara, co-autrice di Polite, e Dario Faini: “Mi piace molto poter condividere la scrittura con altri, l’idea della condivisione, e Tango è anche questo, un album di condivisione”.
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Per una scelta precisa, Tango non viene pubblicato in formato fisico, ma solo in digitale: “Mi sono resa conto che sul computer non ho più spazio per raccogliere nuovi brani e anche in macchina non posso più ascoltare i CD perché non c’è il lettore. Mi sono chiesta allora che senso avesse far uscire un disco anche in formato fisico se poi diventa difficile ascoltarlo”.
Per il lavoro della copertina Joan si è invece rivolta a un grafico speciale: “L’artwork è opera del mio fratello più piccolo, Giovanni, che oltre a essere la persona più importante della mia vita è anche un bravissimo grafico. Non so esattamente quanto io risulti davvero bella nell’immagine, ma volevo qualcosa di impatto: abbiamo quindi pensato all’accostamento di colori forti e mi piace l’idea che il mio volto sembri quasi uscire da un fiore, un papavero. Quasi come un logo. Per il lettering abbiamo invece pensato a qualcosa che distogliesse dall’idea del ballo, per evitare che il disco venisse scambiato per un album di settore”.

In estate Joan sarà impegnata in una serie di appuntamenti live, che dividerà tra concerti come solista con set acustico ed elettronico e date in cui sarà accompagnata dagli Etna, la band con cui ha realizzato l’album. Tra le date più attese, quella allo Sziget Festival di Budapest l’11 agosto e quella all’Home Festival di Treviso il 2 settembre.

#MUSICANUOVA: Elodie, Nero Bali (feat. Michele Bravi e Guè Pequeno)

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“Ho scelto di cantare Nero Bali con Michele perché oltre ad essere un artista, è principalmente un amico. Tra noi c’è sintonia e stima reciproca. Gué invece è il mio rapper preferito: sono felicissima che abbia scritto e interpretato la strofa all’interno della canzone. Nero Bali è sicuramente l’inizio di una nuova avventura.” 

Per Elodie quello di Nero Bali è sicuramente un ritorno alla grande: scritto e composto da Dario Faini, Alessandro Mahmood, Gué Pequeno e prodotto da Dario Faini e Mace, il brano è un potente concentrato di atmosfere tropical-pop, sulle quali Elodie si fa accompagnare da due compagni d’eccezione come Michele Bravi e Guè Pequeno

#MUSICANUOVA: Noemi, Autunno

Al primo ascolto mi ha fatto storcere il naso, poi è andata un po’ meglio. Resta il fatto che il nuovo singolo di Noemi si intitola Autunno, ma sembra una qualunque canzone da spiaggia, una delle tante hit vestite di elettropop che puntualmente riempiono le radio tra giugno e agosto.
A metterci mano sono stati Dario Faini e Tommaso Paradiso, quest’ultimo ormai firma prezzemolina dei singoli italiani, che hanno messo insieme un inno alla malinconia.
Tutto sommato, un ritorno innocuo. “Sarà un autunno difficilissimo”…

BITS-RECE: DiMaio, Debut. Spettacoli crossover tra lirica barocca ed elettronica per controtenore

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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La contaminazione è un elemento che nella musica ha sempre destato la mia curiosità. Parlo ovviamente della contaminazione realizzata per bene, con attenzione, con lucida consapevolezza e una chiara idea di cosa voler creare.
Un interessante caso di musica contaminata l’ho ritrovato recentemente in Debut, l’album che, come si può ben capire, apre le porte alla carriera di Maurizio Di Maio, in arte solo DiMaio.
Si tratta di una contaminazione che corre su doppio binario, quello stilistico e quello temporale: sul primo troviamo un incontro/scontro di lirica ed elettronica, sul secondo si fronteggiano invece il repertorio barocco e gli stimoli sintetici contemporanei provenienti dal Nord Europa.
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Ma andiamo con ordine. In quel mondo di cristallo che è la musica lirica esiste una figura forse non molto nota al grande pubblico, ma di assoluto fascino, il controtenore. Un uomo cioè in grado di eseguire partiture nelle tessiture del contralto, del mezzosoprano o addirittura del soprano, vale a dire i tre registri femminili, annullando di fatto in un solo corpo vocalità maschile e femminile.
Nulla a che vedere però con quello che succedeva con i poveri castrati di farinelliana memoria, sventurati giovinetti i cui attributi venivano sacrificati nel sacro nome del canto: il controtenore riesce nell’impresa grazie a doti che possiede per natura, e che naturalmente affina con lo studio.
Come nel caso del nostro DiMaio, sopranista, che dopo una lunga esperienza come corista, si lancia ora – pare su consiglio di Luis Bacalov – nell’arduo repertorio del XVII e XVIII secolo, quello in cui fiorì il gusto barocco, l’epoca di Handel. Repertorio complesso e sicuramente non tra i più conosciuti tra non melomani, se non per qualche singolo episodio.
Il suo progetto però, già molto coraggioso e ambizioso, non si ferma qui, ma va a cercare arrangiamenti inediti, sorprendenti, per un effetto ancora più scenografico: la soluzione è offerta dai sintetizzatori di Dario Faini, aka Dardust, che mette mano alle arie liriche e le immerge in un bagno di elettronica.

Il risultato è affascinante ed elettrizzante: la voce angelica di DiMaio svetta tra le ottave di un pezzo celebre come Lascia ch’io pianga e Ombra mai fù, ma esegue candidamente anche L’Ave Maria Caccini di Vavilov, fino a far visita a Vivaldi in Vedrò con mio diletto, mentre sotto Dardust tesse freddi tappeti di luci al neon.
Uno spettacolo barocco nel significato più vivo del termine. Magia del crossover.

Stile Ferreri: un Girotondo di autori nel nuovo album di Giusy

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Stile Ferreri.

Un po’ pop, un po’ rock, un po’ elettronico, tutto nella giusta misura. Ecco come si presenta Girotondo, l’album che segna il ritorno in pista di Giusy Ferreri, a quattro anni da L’attesa, se non si considera il successo colossale di Roma-Bangkok e la raccolta Hits.
Un album formato da un “cocktail autorale“, come simpaticamente lo definisce la diretta interessata: espressione che rende benissimo l’idea dei nuovi brani, perché se da una parte abbiamo firme come quelle di Roberto Casalino, Dario Faini, Diego Mancino, ma anche Federico Zampaglione (presente anche come ospite in L’amore mi perseguita), Tommaso Paradiso (Occhi lucidi) e Marco Masini (Immaginami), dall’altra ci sono i tappeti sonori di Takagi e Ketra (quelli di Roma-Bangkok), Diego Calvetti, Gianluca Chiaravalli, dello stesso Faini, elementi mischiati tra loro in cerca di soluzioni nuove, atmosfere fresche, danzerecce, magari vagamente latine, a sostenere parole che talvolta volano alte, testi che tratteggiano momenti di poesia, intimi o aspri, anche inattesi.
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Come nel caso di Il mondo non lo sa più fare – penso il migliore di tutto l’album: Che quest’epoca inizi / perché comincia la musica/ e sulle schiene ci crescano le ali.
O nel caso del pezzo che dà il titolo al disco, una riflessione sulla vita, o ancora della conclusiva La gigantessa, ispirata al componimento di Baudelaire, dove si parla di un infinito novecento / delle nostre meraviglie / nei risvegli tra la gente / mentre mastichi il mio cuore. Un elettropoprock – mi piace definirlo così – fatto di momenti intimi, tanto amore, e qualche graffio sanguigno.
Un cocktail di autori e di atmosfere preparato con attenzione in un costante lavoro di gruppo, e che oggi più che mai definisce quello che in futuro potrebbe davvero essere lo “stile Ferreri“, una cifra stilistica personale e inconfondibile, anche per la presenza di quel timbro “ingombrante” (lo definisce così proprio lei) che ha fatto di Giusy una delle più riconoscibili interpreti arrivate dall’universo-talent.
Se mai ci fosse qualcuno che ancora oggi, nove anni dopo la sua partecipazione a X Factor, si ostinasse a definirla la “Amy Winehouse italiana”, nei nuovi brani avrebbe ampio materiale per cui ricredersi. Qui c’è solo Giusy.
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Legato all’uscita del nuovo disco c’è poi il capitolo di Sanremo, ancora fresco di chiusura: un’edizione non troppo fortunata per la Ferreri, subito eliminata con Fa talmente male. Ma lei non sembra farne un grande dramma, semmai si rivela più stupita: “Sanremo per me è stata ogni volta l’occasione per propormi in una veste nuova. Nel 2011 ho presentato la svolta rock, nel 2013 con Ti porto scena con me avevo invece un pezzo poetico e più emozionale. Stavolta pensavo di andare sul sicuro con un brano che considero un po’ il fratello gemello di Novembre e Volevo te per i suoi elementi di elettronica. Forse su quel palco l’anima della canzone non è uscita fino in fondo: riascoltando le registrazioni ho sentito che veniva fuori soprattuto la parte orchestrale, e poi mancavano le voci dei controcanti, mentre io nell’interpretarlo mantenevo l’intenzione che la canzone aveva in studio”. E in effetti, riascoltandola oggi, senza la frenesia festivaliera, Fatalmente male svela un’anima molto più decisa di quanto non sia emerso durante il Festival. Ma poco importa davvero: “Ho passato così tanto tempo a non essere compresa in quello che facevo che l’eliminazione non mi ha toccato più di tanto”.
Sul palco, confessa, si sentiva un po’ il fiato corto, ogni tanto aveva delle vampate strane di calore, e sapeva bene il perché: proprio poco prima del Festival ha scoperto di essere incinta.