“Ecco Marta Marzotto, che di mestiere fa la simpatica”.
Così una volta Aldo Busi presentò al pubblico la contessa più famosa d’Italia. Oddio, ho detto contessa, ma Marta Marzotto di quel titolo se n’è sempre fatta poco, lo ha ricevuto per aver sposato il conte Umberto Marzotto, ma poi si è slegata da tutti i vincoli di forma che di solito si addicono a conti, marchesi e varia nobiltà.Marta Marzotto ha semplicemente vissuto, più che forte che ha potuto, prendendo la vita – mi si consenta l’espressione – per le palle, per averne indietro il meglio. Sì, doveva anche essere una “simpatica di professione”, con addosso una simpatia che non si impara da nessuna parte se non ogni giorno, nella quotidianità.
Mondina, modella, stilista, regina dei salotti, gran maestra di diplomazia, filantropa, la Marta nazionale è nata a Scandiano, nella bassa reggiana, da un casellante delle ferrovie e una mondina e all’anagrafe faceva Vacondio, un cognome di cui andava estremamente orgogliosa, nonostante in famiglia la situazione non fosse particolarmente rosea.
Lo scintillio e il glamour che tutta Italia (e non solo) ha conosciuto sono rrivati dopo, e con loro è arrivata quella sfilza impressionante di esperienze mondane e di conoscenze molto ben raccontate in Smeraldi a colazione. Le mie sette vite, autobiografia stesa insieme alla giornalista Laura Laurenzi e pubblicata pochi mesi prima della morte di Marta.
Politici di ogni colore, porporati, artisti, sovrani, regine, capi di stato e dittatori, personalità dello spettacolo, sono pochi quelli che hanno saputo restare indifferenti all’aura magnetica che circondava la Marzotto, quasi tutti invece, anche i più potenti, ne venivano attratti, contagiati dalla sua forza vitale, da quella sua innata capacità di essere a suo agio con chiunque.
Ecco allora i salotti, di cui era incontrastata regina, i più invidiati della città, anzi d’Italia.
E poi i viaggi, tanti, bellissimi, da sogno.
E l’amore, ovviamente. Su tutti, quello per Guttuso, raccontato a lungo in ogni fase, dalla passione alla rabbia per non poter essere vissuto, perché in mezzo c’erano i poteri forti, la politica e la chiesa. Una storia d’altri tempi, di quelle che sembrano esistere solo nelle telenovela, e che proprio come una telenovela si svolse sotto gli occhi e le bocche di tutta Italia.
Ma nella sua biografia, la Marzotto non risparmia neanche il dolore, quello più cieco, per la morte della figlia Annalisa nel 1989 per fibrosi cistica, un evento che Marta ha saputo trasformare in una nuova speranza di vita attraverso campagne di beneficenza per la ricerca e attraverso la promozione di attività filantropiche e di mecenatismo, un modo per dare un senso a quella perdita così tragica e innaturale.
Stupende e commoventi le pagine dell’epilogo, con un imperativo lasciato in eredità ai figli e agli amati nipoti, Non dimenticarti mai di sognare.
Ecco, è questo che più di ogni altra cosa mi sento di invidiare a Marta Marzotto: la sua tenacia nel continuare a sognare, fortissimamente, e la sua innata e inspiegabile capacità di rendersi costantemente amica la vita. Attraverso i suoi occhi, sembra così facile.