Shel Shapiro & Maurizio Vandelli, Milano, Teatro Ciak, 29 gennaio 2019. Nostalgia? No, grazie


Alla faccia dei tanti tour di addio alle scene annunciati in questi mesi, Shel Shapiro e Maurizio Vandelli, ex ragazzi terribili del beat italiano, vanno in controtendenza girando l’Italia con uno spettacolo che loro stessi hanno definito “del ritorno”. Un evento fino a pochi mesi fa non così scontato vista una presunta, storica, rivalità artistica che fin dagli anni ’60 aveva fatto viaggiare su binari paralleli – ma mai coincidenti -, la carriera di entrambi.

Ma questa rivalità (se poi mai veramente c’è stata) oggi è tutta al servizio dello spettacolo e del pubblico, accorso numerosissimo al teatro Ciak di Milano il 29 gennaio per una reunion che ha riservato molte gradite sorprese. Il concerto che i due artisti portano in scena, infatti, è interamente giocato sugli opposti: da una parte l’idealista rivoluzionario e pacifista Shapiro, dall’altra il (finto) cinico e “superficiale” Vandelli. Il tutto in una cornice che, più che la nostalgia fine a sé stessa, tende a richiamare il vero valore delle canzoni, ben vivo anche dopo “…anta” anni. In questo contesto, quindi, nessun imbarazzo nel sentire Losing My Religion dei R.E.M piazzata fra Piangi Con Me e Io Vivrò Senza Te, e nessuna sensazione di essere sotto ricatto emozionale durante la riproposizione di numerosi brani a firma Mogol-Battisti (Emozioni, Un’Avventura, 10 Ragazze Per Me).
Segno che le musiche e i testi, seppur spesso nella loro semplicità ai limiti dell’ingenuo, sono riusciti a reggere il segno del tempo. Ma che di operazione sulla memoria e non di vuoto richiamo alla nostalgia si trattasse si era già capito a settembre, quando venne pubblicato Love and Peace, album che sancì il “disgelo” artistico fra i due autori e che di fatto costituisce oggi “l’ossatura” del tour.

Ai classici Che Colpa Abbiamo Noi, Tutta Mia La Città e Un Angelo Blu, durante la serata si sono aggiunti richiami e omaggi ad altri artisti. Tributi particolarmente sentiti che di fatto hanno aiutato a contestualizzare sia il periodo storico che ha visto protagonisti i due cantanti, sia le influenze musicali metabolizzate negli anni ’60 dall’Equipe 84 e dai Rokes. Beatles (Let It Be, Eleanor Rigby), Cat Stevens (Wild World), Bob Dylan (un’emozionantissima Blowin’ In The Wind inserita in un contesto scenico ancor più toccante) hanno fatto “compagnia” al Guccini di Auschwitz e all’”altro Lucio” (“Quello piccolo, quello di 4 Marzo 1943”), supportando riscoperte di valore (La Luce dell’Est, sempre di Battisti e Mogol) e classici di presa immediata (Bang Bang, 29 Settembre, Io ho in mente te).

In due ore e mezza di musica, interrotta solo dalle presentazioni e – spesso – dal riuscito “gioco” dei battibecchi, i due vecchi marpioni hanno messo insieme un corposo “bigino” delle loro carriere, includendo anche, in versione live, canzoni che sull’album non sono presenti (Lascia l’ultimo ballo per me). Paradossalmente, la “simbiosi” fra Shel e Maurizio è stata talmente perfetta che spesso si è giunti – e nemmeno forse importava più farlo – a non voler e poter distinguere a chi appartenesse l’una o l’altra canzone, tanto è risultata ben riuscita l’interazione musicale. E non importa se ogni tanto la voce ha tremato o non è riuscita a tenere i toni più alti: l’imperfezione ha reso ancora più sincero un concerto che, fatti i conti con la nostalgia canaglia, ha prodotto nel pubblico più entusiasmo che rassegnati sorrisi rivolti al passato.

Testo e immagini di Alessandro Bronzini

BITS-CHAT: La felicità grazie alle intemperie. Quattro chiacchiere con… Luca Gemma

Luca 3 by Ray Tarantino_b
La ricerca della felicità è uno dei temi eterni nella storia degli uomini: da sempre la cerchiamo, ce la inventiamo, e quando ci sembra di averla trovata lei sparisce, rivelandosi un’illusione. E la ricerca riparte, instancabile.
Proprio sulla felicità Luca Gemma ha fatto ruotare il suo ultimo album, La felicita di tutti, perché non solo gli uomini, ma l’universo intero è continuamente mosso dal desiderio di afferrare quella chimera.
A cinquant’anni esatti dai grandi ideali di pace e amore professati dalla cultura hippie, il cantautore di Ivrea racconta in un album la sua concezione di felicità, tra rock, Beatles e inevitabili intemperie.
album 1 tasca_luca gemma_1.indd
Vorrei iniziare chiedendoti di parlare un po’ della scelta delle immagini sulla cover dell’album: si vedono persone, animali, personaggi di fantasia, frutti…

Un disco con un titolo al plurale aveva bisogno di molte immagini per celebrare la molteplicità e la diversità e le foto della fotografa GluLa erano perfette. Rappresentano simbolicamente quelli che vogliono essere felici e che trovi dentro le canzoni.
All’interno del disco si respira un’atmosfera un po’ “fricchettona”: a 50 anni esatti dalla nascita del movimento hippie, cosa è rimasto di quel periodo? Quegli ideali sono ancora proponibili nel mondo di oggi?
Il pacifismo, il rispetto dell’ambiente e la lotta alla disuguaglianza sociale sono nati con quella generazione di giovani che nel 1967 avevano 18, 20 anni. E’ un loro merito e lo slogan Peace And Love in un mondo fortemente dominato dal dio denaro avrebbe ancora il suo bel significato. Non si vede però una generazione disposta a rinunciare al proprio individualismo per una visione così altruistica del mondo. Sia chiaro, non lo è stata neanche la mia, che aveva 20 anni a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90.
L’unica cover del disco è un brano di Caetano Veloso, Cajuina: a cosa è dovuta la scelta? E perché il testo è stato tradotto in italiano?
Io scelgo le canzoni in modo istintivo. Di Cajuina mi piace la sua struttura circolare e ripetuta e mi ha sempre colpito il suono del testo originale in portoghese brasiliano. Oltre al fatto che è molto poetico. Da lì è partita la mia sfida a scrivere un testo che rispettasse più il suono che il significato, pur stando dentro quel mood. Senza le parole in italiano non l’avrei cantata.
Luca 4 by Ray Tarantino_b
Qua e là non è difficile scorgere tra i brani riferimenti ai Beatles: cosa hanno rappresentato in particolare per te?
Io i Beatles li ho scoperti relativamente tardi. Da adolescente e da ragazzo il loro suono non mi piaceva. Preferivo nettamente l’hard rock, la musica black e i cantautori degli anni ’70. Poi mi sono appassionato al beat con dischi come Aftermath dei Rolling Stones e anche in quel caso preferivo loro ai Beatles. Finalmente un giorno ho preso coscienza dell’immensità che rappresentano per chiunque si avvicini al rock e alla forma canzone. La gioia che mi danno alcuni loro dischi è un misto di emozione e piacere estetico e intellettuale che non finisce mai.
Nel brano che chiude il disco, Futuro semplice, auguri ai tuoi figli di mantenere sempre uno sguardo incantato sul mondo, agendo in totale libertà: tu oggi, da padre e soprattutto da adulto, pensi di essere riuscito a seguire questi ideali? Quanto la vita ti ha portato a ridimensionare le tue aspettative?
Accorgersi della bellezza e non dare nulla per scontato è ciò che ti tiene vivo e io credo tutto sommato di riuscirci ancora, nonostante le intemperie. A volte è proprio grazie alle intemperie che te ne accorgi.
In definitiva, secondo te la felicità è un’utopia o è una meta che possiamo davvero raggiungere?
La felicità di tutti è certamente un’utopia in un mondo sempre più pieno di disuguaglianza, ma è giusto pensare e fare in modo che le cose cambino. Quella individuale è fatta di momenti e bisogna farsi trovare pronti. E ognuno ha il compito di trovare il modo che gli si addice di più.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Pensare con la propria testa in un mondo in cui le sollecitazioni sono così tante e continue da distrarti da ciò che pensi con la tua testa. Tenere a bada queste distrazioni e non esserne in balìa è una forma di ribellione perché vuol dire abdicare al ruolo di consumatore vorace di oggetti e sentimenti, ovvero quel ruolo che è stato assegnato a ciascuno di noi. Bisogna saper andare al nocciolo dei propri desideri.

I Discoverland rivisitano 8 classici in Drugstore

“Drugstore è un ipermercato di elementi musicali, sconvolto da un tornado: ogni parte ha perso la sua funzione e la sua collocazione, ne ha acquisite di nuove. Nulla è al suo posto, ma tutto è terribilmente affascinante.”

Così i Discoverland (progetto dietro a cui si celano Roberto Angelini e Pier Cortese) definiscono il loro ultimo album, Drugstore appunto, una raccolta di 8 classici della musica internazionale (e un inedito) completamente stravolti e riarrangiati alla discoverland-maniera. In pratica, 8 nuovi pezzi.

Si parte con I Still Haven’t Found What I’m Looking For degli U2, fingerstyle sulla chitarra, banjo, ukulele e pedasteel, voci che si rincorrono e si armonizzano e sul finale, un tocco di Somebody to love dei Queen.

Lucy in the Sky with Diamonds dei Beatles invece ha il suono del banjo, mentre The Drugs Don’t Work, meravigliosa ballad dei Verve, diventa una canzone da club. Suoni sintetici, corde e legni di chitarra, voci lavorate all’estremo, ritmica elettro. Impossibile non ballare.

Stayin’ Alive dei Bee Gees è il pezzo scelto lo scorso anno per anticipare il progetto al pubblico.

Arriva poi La cura di Battiato: l’idea di base è stata tradurre l’enfasi orchestrale nel suono in levare.

L’isola che non c’è di Bennato è passata dalla celebre melodia in maggiore a una in minore, acquistando tutto un altro sapore, sempre in un abilissimo gioco musicale.

All Apologies dei Nirvana è riproposta in versione “mantra”: campionamento di tablas e sitar dei Beatles, un bordone di digiridoo, una lapsteel che evoca suoni indiani, un arpeggio newage e un fischio in lontananza. In aggiunta, una bella dose di elettronica psichedelica.

Segue quindi l’inedito Il pusher, mentre il disco si chiude con Killing In The Name dei Rage Against The Machine, classico rock anni ‘90… destrutturato. Un riff leggendario di chitarra elettrica diventa uno sciancato giro di Banjo. Il finale, concitato e citato, riprende al centro un classico del cinema, Rocky Horror Picture Show.

image

Il progetto Discoverland nasce nel 2011 da Pier Cortese e Roberto Angelini.
L’idea è quella di rileggere in un’ottica particolarmente originale brani di artisti che hanno fatto la storia.
Il primo capitolo del progetto, Discoverland esce nel 2012: sviluppa mescolanze suggestive e surreali, come quella tra Bjork e I Kings of Convenience o Ben Harper e Fabrizio De Andrè. Unisce fantasia, ricerca e paradosso, giocando con le strutture, le ambientazioni e i mondi sonori.