BITS-RECE: Jon Hopkins, “Ritual”. Liturgia elettronica per veri devoti

BITS-RECE: Jon Hopkins, “Ritual”. Liturgia elettronica per veri devoti

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Un titolo che da solo dice già tutto: Ritual.
Fin troppo didascalico per scoprire cosa nasconde al suo interno.

Il nuovo lavoro di Jon Hopkins, producer da oltre 20 anni sulla scena, sarebbe davvero la colonna sonora ideale per una cerimonia di un rito pagano, o addirittura di un nuovo credo.

Un’opera epica e monumentale, non certo pensata per un ascolto veloce o frammentario, ma per essere ascoltata dall’inizio alla fine senza soluzione di continuità, in uno stato di totale concentrazione. L’idea è quella di portare l’ascoltatore “dentro” alla musica, e per farlo l’ascoltatore deve realmente esserci, prendersi il tempo per restare nel “qui e ora”, almeno per i 41 minuti della durata.
Le otto tracce dell’album non sono altro che otto fasi in successione di un’unica, immaginaria celebrazione liturgica che evoca atmosfere oscure, potentemente suggestive, arcane.

Come dichiarato dallo stesso Hopkins, Ritual ha preso forma nella seconda metà del 2023, ma il suo “seme” era stato piantato già nel 2022, e tutto era cominciato nell’ambito di Dreamchine, un innovativo progetto pensato per celebrare la creatività, realizzato in collaborazione con artisti, scienziati e filosofi. Si trattava di un’esperienza di musica immersiva di carattere cerimoniale, per la quale il producer inglese era stato chiamato a comporre le musiche. Ascoltando ora il nuovo album si coglie bene il filo rosso che da Dreamachine ha portato a Ritual.

Ma chi conosce da tempo Hopkins non si farà certo cogliere di sorpresa di fronte a questa nuova opera, considerando la naturale tendenza dell’artista a ricercare una certa spiritualità nei propri lavori e creare panorami sonori fortemente evocativi.

Il racconto parte da uno stato di quiete (part i – altar), fatto di sussurri lontani (la voce è quella di Vylana, collaboratrice dilunga data di Hopkins, “alchimista del suono”, come lei stessa si definisce): è come l’inizio di un cammino che vuole i suoi tempi, la preparazione a un’esperienza mistica che si carica progressivamente di energia. L’ambient e il down-tempo, territorio in cui producer gioca in casa, si contaminano così piano piano di echi tribali e richiami ancestrali, accompagnando l’ascolto in un climax di tensione che raggiunge l’apice nel sesto movimento (part vi – solar goddess return, ma – lo ripetiamo – la suddivisione è puramente formale, perché il disco va considerato come un corpo unico). È a questo punto che, idealmente, si assiste all’epifania divina: è il momento dell’estasi mistica e della rivelazione.
Quella che segue, nelle ultime due tracce, è una decompressione che riporta lo spirito a una dimensione terrena, ma con il beneficio della visione celestiale a cui si è assistito.

Con Ritual Jon Hopkins allestisce il programma di un moderno rituale sciamanico modellato su suggestioni elettroniche; una cerimonia di cui è egli stesso l’officiante, e che sull’altare, al posto di calici e offerte, ha i sintetizzatori.

Oggettivamente, è un bel lavoro, ben prodotto (e ci mancherebbe!), che chiama l’ascoltatore a un’esperienza fortemente emozionale, ma che nello stesso tempo gli richiede un’attenzione totale e una motivazione sincera nell’arrivare dall’inizio alla fine. Prendere questo progetto solo in qualche singola traccia sparsa permette sì di coglierne la bellezza, ma vorrebbe anche dire perderne il senso più profondo, sfilacciarne il racconto, annullare l’intento dell’artista.
Ed è proprio qui che si intravede la fragilità di questo album. Nell’antica Grecia c’erano i culti misterici, le cui rivelazioni erano destinate esclusivamente agli iniziati: ecco, forse anche quella di Hopkins non è una rivelazione alla portata di tutti ma aperta solo ai suoi veri devoti.

“Hertan”, il cuore oscuro dei Wardruna batte il suo ritmo arcaico

“Hertan”, il cuore oscuro dei Wardruna batte il suo ritmo arcaico

“‘Hertan’ è la parola proto-scandinava per ‘cuore” ed è esattamente ciò che vogliamo esplorare con questa canzone. La dualità del cuore con il ritmo, il flusso e le sue pulsazioni, tutte cose che possiamo ritrovare in natura.
L’idea più astratta del cuore, Il timone sulla nave delle emozioni, le nostre decisioni e i nostri veri desideri.”

Così il cantante dei Wardruna, Einar, ha presentato Hertan, il singolo che segna il ritorno della band norvegese sulle scene internazionali.

Il gruppo scandinavo, alfiere del neofolk norvegese, torna sulle scene con un brano epico e oscuro, scandito dal ritmo imperioso di tamburi e percussioni.

Per il video, la band ha collaborato con il regista e fotografo finlandese Tuukka Koski, che già in passato aveva diretto le clip di Raido, Voluspá e Grá.

Il video è stato filmato in Finlandia e nell’isola di Hailouto: “È sempre un vero piacere creare arte con Tuukka e i suoi colleghi di Breakfast Helsinki! La sua esperienza e l’attenzione per i dettagli, nonché la capacità di evocare sempre materiale di livello, sono molto stimolanti. Tre giorni, tre location, niente sonno ma molto cuore, ecco come è andata. Godetevi il risultato!”

BITS-RECE: James Jonathan Clancy, “Sprecato”. Pastorale per animi inquieti

BITS-RECE: James Jonathan Clancy, “Sprecato”. Pastorale per animi inquieti

 

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.


Se è vero che un disco non andrebbe giudicato dalla copertina, nel caso di questo album un’eccezione penso sia più che lecita. Se non per giudicarlo prima di averlo ascoltato, almeno per farsi istantaneamente un’idea dello stato d’animo che lo permea.

Soprattutto se – come in questo caso – è il frutto di un intenso scambio di idee, di collaborazioni e di reciproche contaminazioni tra l’artista che l’ha realizzata e il cantautore che firma il disco. Il primo è il disegnatore bolognese Michelangelo Setola, il secondo è il cantautore italo-canadese James Jonathan Clancy. L’album invece si intitola emblematicamente Sprecato, ed è il primo lavoro da solista di Clancy, dopo le esperienze con His Clancyness, A Classic Education, Settlefish e Brutal Birthday.

Tornando alla copertina, ciò che colpisce subito lo sguardo è un’idea profonda di inquietudine e alienazione, uno stato d’animo di tensione fosca, “tempestosa”.

Ed è esattamente questo che traspare – limpido e oscuro – dalle tracce del disco.

Folk, psichedelia, synth-pop, darkwave, ambient, i riferimenti presenti nell’album sono tantissimi, intrecciati tra loro in una vibrazione costante.
I suoni sono ora profondissimi ora eterei, ora armoniosi ora dissonanti.

Clancy spazia tra minimalismo e magniloquenza, tra visioni ariose e oniriche e cadute vertiginose, e con la voce dipinge atmosfere immaginifiche.

Sprecato è un disco che si vede, quasi si tocca, è fatto di tinte ombrose, caliginose, plumbee. Castle Night apre all’insegna di un’intimità tipicamente notturna, A Workship Deal è una nerissima sinfonia post-punk che esplode in un finale ruvido e dissonante, Had It All è una disperazione senza possibilità di ritorno cullata su un arpeggio, mentre Out And Alive cresce e si cosparge di un’aura quasi liturgica.

Tra drums, chitarre e synth, molto interessanti le coloriture create dai sax.

Sprecato suona come quelle giornate di passaggio tra estate e autunno, o tra inverno e primavera, quando la quiete viene travolta da una cavalcata nera e minacciosa di cumulonembi. Quelle giornate in cui gelide e improvvise raffiche di vento scompigliano la natura e agitano i pensieri.

Quelle giornate che preannunciano un cambiamento.

Registrato tra Bologna e Londra, Sprecato è stato realizzato grazie a Suner, progetto di Arci Emilia-Romagna sostenuto dalla Regione Emilia-Romagna nell’ambito della Legge 2 sulla musica.

BITS-RECE: Alberto Nemo, “Olim”. Religione o poesia?

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit. 

Alberto Nemo è uno a cui piace parecchio sperimentare, ed anche uno a cui le idee su cui lavorare non mancano di certo, almeno stando alle sue recentissime produzioni.
Se già con Smania aveva realizzato un’opera densa e fortemente sperimentale che abbracciava elettronica, folk e ambient, con Olim, pubblicato praticamente in contemporanea, cambia radicalmente scenario, ma consegna un lavoro altrettanto ispirato.
Il nono album dell’artista veneto proietta infatti l’ascolto verso terrori più morbidi e rarefatti, senza le vigorose virate stilistiche di Smania, ma appoggiandosi soprattutto sulle atmosfere del folk e dell’ambient. I brani sono stati registrati interamente a 432Hz, e le frequenze dell’album sono utilizzabili a scopi terapeutici.
In una sorta di costruzione ad anello, l’opera si apre e si conclude con due composizioni strumentali, Eniro ed Eliro, dove tra le frange armoniche trovano spazio anche le note dell’arpa celtica e ogni riferimento spazio-temporale si annulla in un’unica, indefinita dimensione. Il cuore dell’album si apre invece ad atmosfere più sacrali, misticheggianti, magiche: Nemo non si risparmia in virtuosismi vocali, mentre i richiami sonori rimandano alle coste mediorientali, piuttosto che agli inni liturgici, aprendosi anche a respiri cinematografici.

La sensazione è di trovarsi a maneggiare un repertorio liturgico di una religione misteriosa, arcana, nata nella notte dei tempi e riesumata integra, e di cui nulla è dato sapere; ma allo stesso tempo niente vieta invece di considerare questi brani come la manifestazione di una umana, misteriosissima e potente vena poetica.
Ispirato da intenti divini o terreni, Olim – e con esso il suo creatore – ha comunque la forza di spalancare la visione su un mondo lontano e straniero.

BITS-CHAT: Un’esplorazione umana e sonora. Quattro chiacchiere con… Aerostation

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Gigi Cavalli Cocchi
e Alex Carpani sono due musicisti con la “pellaccia” dura, due che la musica l’hanno conosciuta molto da vicino, entrambi animati da una passione genuina che li porta a guardare sempre avanti, senza paura di entrare in territori inesplorati.

Due solide carriere parallele alle spalle all’insegna del rock e del prog: Cavalli Cocchi è uno storico collaboratore di Ligabue, per il quale ha curato anche la grafica di diverse copertine, e ha suonato tra gli altri nei Clan Destino e con i C.S.I, mentre Carpani ha dato vita alla Alex Carpani Band, oltre a collaborare con artisti internazionali come l’ex King Crimson David Gross.
Negli anni le loro strade si erano già incrociate, ma mai per dare vita a un intero progetto condiviso. Succede ora, con Aerostation, che è il titolo dell’album (in uscita il 5 ottobre) e il nome del progetto che li vede finalmente collaborare insieme. Con loro, terza anima del gruppo, il bassista Jacopo Rossi, attivo sulla scena metal in band come Dark Lunacy e Antropofagus.
Non c’è un nome per la loro musica: rock, prog, elettronica, pop, crossover. Ci sono solo le sue suggestioni ibride e contaminate, con uno slancio internazionale e uno sguardo puntato lassù, nello spazio.  

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Perché Aerostation?
Alex Carpani: Tu sai il significato di questa parola? Molti pensano che significhi “aerostatzione”, invece vuol dire “aerostatica”, e ha a che fare con tutto ciò che riguarda le mongolfiere e i palloni che volano attraverso l’aria. Abbiamo fatto diverse ipotesi per il nome da dare a questo progetto, cercavamo qualcosa che indicasse il viaggio, l’esplorazione.
Gigi Cavalli Cocchi: Siamo appassionati di fantascienza e abbiamo voluto inserire anche visivamente nell’album alcuni elementi che rimandano a quel mondo. C’è stata quindi una grande attenzione alla parte grafica del disco, di cui mi sono occupato personalmente ideando anche il logo con i triangoli, una figura centrale per il nostro progetto. Proponevo le mie idee ad Alex, e lui approvava sempre tutti: credo che ormai ognuno sa quello che l’altro sa fare.

E l’idea di dar vita al progetto da dove è partita?
Alex: È nata da dieci anni di conoscenza, con carriere parallele, conoscenze comuni e collaborazioni occasionali. Gigi ha anche suonato in un mio disco nel 2010. Abbiamo voluto creare un progetto di respiro internazionale che guardasse anche al di fuori dell’Italia, non per rinnegare il nostro Paese, ma perché non ci si può fermare al nostro Paese. La scelta dell’inglese non è stata dettata da esterofilia, ma da ragioni artistiche, perché il rock si può cantare solo in inglese, e solo con l’inglese si può avere un carattere cosmopolita. Questo non toglie che la nostra sensibilità e le nostre radici italiane possano comunque venir fuori.  
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Che taglio avete voluto dare ai brani?
Alex: Un rock molto diretto, potente, senza fronzoli, con aperture melodiche all’ambient. Entrambi arriviamo da esperienze prog, ma abbiamo voluto alleggerire il nostro bagaglio da tutti i fronzoli e i virtuosismi. Non è stato facile dire tutto con pochi elementi, perché viene più semplice aggiungere tanti ingredienti e poi mescolare i vari sapori. L’intento era quello di proporre qualcosa di nuovo, di diverso, e se il pubblico se ne accorgerà sarà il miglior riconoscimento: fare qualcosa di derivativo oggi è perfettamente inutile.

Siete un “trio power”, ma senza chitarra, anche se si fa fatica a capire che la chitarra non c’è.
Gigi: Lavorando al disco ci sono venute in mente diverse possibilità, da quella di utilizzare una band a quella di prendere un chitarrista. Arrivati a definire il suono che volevamo dare al progetto, abbiamo iniziato a togliere, come diceva Alex. Qualche chitarra c’è, ma poi i suoni sono stati presi da Alex, che li ha rimanipolati, filtrati, trasformati, destrutturati, al punto che non ci si rende conto quando c’è la chitarra elettrica. È stato un lavoro di corrosione dei suoni.
Alex: Inoltre dal vivo abbiamo scelto di non avere un chitarrista, così come di non avere un tastierista, perché io non suono tastiere orizzontali.
Gigi: Un apporto importantissimo è stato dato anche dal nostro fonico, Daniele Bagnoli, un giovane collaboratore che si è innamorato da subito del nostro progetto ed è riuscito a rendere perfettamente il suono che volevamo.
Alex: Ha 26 anni ed è un fonico straordinario, capace di lavorare sia studio che sul palco, due situazioni molto diverse.
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Il concept che lega le canzoni del disco è quello della comunicazione e dell’esplorazione. Come pensate che si sia evoluto il modo in cui l’uomo va alla scoperta dell’altro?
Alex: Intesa verso l’esterno, l’esplorazione fa pensare alla ricerca di altri mondi da scoprire per spostare in là i propri confini di conoscenza. In questo, lo spazio, la cosmonautica e l’avventura spaziale ci ha aiutato molto, soprattutto dal punto di vista iconografico ed estetico, perché piace a entrambi e lo abbiamo tradotto nella parte grafica. I testi invece affrontano di più il tema dell’esplorazione interiore e dell’incomunicabilità dell’uomo moderno: siamo tutti perennemente connessi, eppure siamo tutti abbandonati a noi stessi, soli. Nel disco si parla di persone che si parlano e si innamorano e di persone che si sfiorano e non si incontreranno mai, perché passano veloci attraverso non-luoghi in cui nessuno lascerà alcun segno.
Gigi: Esplorazione è soprattutto evoluzione: l’uomo che esplora l’universo compie un’evoluzione nella storia, ma poi c’è anche l’esplorazione all’interno di noi stessi per portare in evidenza quello che siamo. Riuscire a riproporre quello che siamo senza nessun filtro e nessuna maschera è il punto massimo a cui potremmo ambire, la nostra massima evoluzione. Non so se ci riusciremo mai.

Il titolo dell’ultima traccia dell’album, Kepler-186F, prende spunto da un pianeta scoperto nell’universo con caratteristiche simili alla Terra, e che potrebbe ospitare la vita. Possiamo considerarlo come una metafora di una seconda possibilità?
Gigi: Assolutamente, è come l’altra faccia della medaglia di tutto ciò che salta subito all’occhio, di tutto quello che possiamo vedere subito davanti a noi. È la nostra seconda chance.
Alex: Vuole un po’ essere la chiusura del cerchio del messaggio lanciato nel disco.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
Gigi: È la capacità di vivere al di fuori degli schemi prestabiliti. Qualcuno ha detto che il compromesso è il lubrificante della convivenza: ecco, mi piacerebbe evitare di oliare continuamente la nostra vita, per poter fare esattamente quello che vogliamo senza limitare la libertà altrui. Poter arrivare a una convivenza di ribellioni e all’accettazione della ribellione altrui.
Alex: La ribellione è un moto dell’animo, ed è necessaria, prima di tutto a se stessi. Bisogna capire quando non è utile soccombere alla pigrizia, ai propri limiti, alle proprie paure per poter andare avanti. E poi il moto di ribellione deve indirizzarsi all’esterno contro le ingiustizie, per esempio: deve associarsi al dolore e allo shock, perché solo quando qualcosa ci colpisce e ci fa male noi facciamo in modo di stare meglio.

Il ritorno dei Dead Can Dance con Dionysus. A maggio due date live in Italia

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I Dead Can Dance annunciano l’attesissimo ritorno con il nuovo album Dionysus, in uscita il 2 novembre su [PIAS] Recordings.

Sin dalla nascita nel 1981, il duo australiano formato da Brendan Perry e Lisa Gerrard è sempre stato affascinato dalle tradizioni folk europee, non solo dal punto di vista musicale, ma anche da quello secolare, religioso e spirituale. Prendendo ispirazione da ciò, Brendan Perry esplora le feste del raccolto e della primavera tipiche della tradizione religiosa legata a Dioniso, un viaggio che porta alla luce le cerimonie e i riti che vengono praticati ancora oggi.

Durante questi due anni di lavorazione, Perry ha accumulato una gamma di strumentazioni folk, ispirandosi alle tradizioni di tutto il mondo.
I brani del nuovo album si sviluppano meno come canzoni e più come frammenti di un insieme compatto. Dionysus segue un sentiero familiare, utilizzando la tecnica del field recording (registrazione sonora prodotta al di fuori di uno studio di registrazione) e registrando così cantilene, alveari neozelandesi, il cinguettio degli uccelli latinoamericani e i caprai svizzeri.
L’obiettivo nella mente di Perry non è solo quello di evocare le atmosfere e i riferimenti simbolici, ma è anche quello di dimostrare che la musica può essere trovata ovunque, in una forma o nell’altra.

L’album comprende due atti attraverso sette movimenti che rappresentano le diverse sfaccettature del mito di Dioniso e del suo culto, e assume la forma musicale di un oratorio nello stile cinquecentesco. Le voci utilizzate in questi movimenti rappresentano alcune comunità in festa che cantano e il loro scopo è quello di trasmettere emozioni oltre ai confini del linguaggio stesso.
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Nonostante l’album prenda ispirazione principalmente dalla storia di Dioniso, la copertina richiama le maschere fatte dagli Huichol, una popolazione della Sierra Madre in Messico, famosa per le perline e per i quadri di filato, ma anche per i riti sacri con il peyote, utilizzato per guarire ed per espandere la mente.
Questo è il cuore di Dionysus, una celebrazione dell’umanità che lavora fianco a fianco con la natura con rispetto e riconoscenza.

ACT I: Sea Borne – Liberator of Minds – Dance of the Bacchantes
ACT II: The Mountain – The Invocation – The Forest – Psychopomp

Inoltre, i Dead Can Dance partiranno per un tour europeo tra maggio e giugno 2019 e passeranno per l’Italia per due appuntamenti live il 26 e il 27 maggio a Teatro Degli Arcimboldi di Milano.

L’elettronica anti-routine di Durmast

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La si potrebbe definire “elettronica anti-routine”.

E come il più tipico dei rimedi omeopatici, per combattere la routine utilizza la sua stessa forza: la ripetitività, i giri infiniti attorno a un loop di sintetizzatori.
Tra breakbeat, trance e ambient, Durmast ha raccolto tutto nel suo primo lavoro da solista, Village.
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Già attivo come batterista degli Jasmine gli Sbalzi e Home By Three, Davide Donati ha messo da parte le bacchette e le pelli e si è messo sopra la consolle con la precisa missione di combattere la routine quotidiana a suon di sequencer, ritmiche ridondanti e minimali e bassi poderosi.
Perché “se non si può scappare dalla routine non si può far altro che accoglierla” e combatterla dall’interno.

Accanto ai suoni, che rimandano a ipnotiche atmosfere da club, il colpo decisivo di Durmast è l’abbinamento con immagini di vita quotidiana totalmente indipendenti: ecco allora un allenamento solitario in un dismesso campetto da tennis in Ciwi Throws Television o la preparazione casalinga dei tortelloni in presa diretta per accompagnare Hotel Barbara.

Truth Of Mind: Mike Human esplora le verità della mente tra techno-ambient e deep house

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Dopo l’esordio con l’EP Mirage, Mike Human è tornato in consolle per dar forma al nuovo lavoro, Truth Of Mind.

Quattro tracce che tra suggestioni techno-ambient e sequenze di beat deep house raccontano un passaggio cruciale nella vita del giovane producer bresciano.

Si passa così dal tunnel oscuro di Malinconia alla rabbia, lo stress e la frustrazione espressi in Fury, di cui è presente anche un remix realizzato dal duo Tears Of Change, per finire con Confusion, l’episodio che ha segnato l’inizio del percorso di ricerca di Mike.
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Bresciano, classe 1995 e figlio di musicisti, Michele Polonini ha iniziato ad avvicinarsi alla musica suonando il basso e la chitarra. Dopo un’esperienza in una band punk-rock, ha scoperto il mondo dell’elettronica, restando affascinato dalle atmosfere della techno e delle deep house, che lo hanno spinto a specializzarsi nel sound engineering e nelle produzioni.

Quando Madonna sfiorò il cielo: vent’anni di Ray Of Light

13043512_f520Sono passati ben vent’anni dalla pubblicazione di Ray Of Light, settimo album della gloriosa discografia di Madonna.
Vent’anni che però vengono completamente annullati dall’ascolto di un disco che risulta ancora attuale e innovativo oggi come nel febbraio del 1998.
Ray Of Light rappresenta infatti per la Ciccone la vetta massima di sperimentalismo e ricerca sonora, il punto più alto di maturità artistica di una star arrivata ormai al punto di non ritorno di iconicità globale.
Madonna lo sapeva bene, e per aprire una nuova era discografica doveva mettere in atto un’ennesima trasformazione: dopo aver fatto sanguinare gli occhi agli ambienti ecclesiastici con Like A Prayer, aver sconvolto la morale puritana d’America con le vertigini peccaminose di Erotica e aver messo in pratica le seduzioni di Bedtime Stories, serviva un colpo di scena altrettanto potente.

La nuova metamorfosi la portò sulla scia di un misticismo e di una spiritualità tanto evidenti quanto plastificati, a uso e consumo del pubblico.
La grande seduttrice lasciò il posto a un’asceta profana, una dea orientale, una presenza evanescente circondata da aura sacrale, una gheiscia emancipata, una vergine dal volto angelico con boccoli degni di Botticelli, una vestale a lutto.
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Demiurgo chiamato a dare un suono alla nuova pelle di Madonna, il produttore britannico William Orbit, che si rese artefice di una vera e propria magia.
In pochissimi altri casi, se non addirittura mai fino a quel momento, la musica di Madonna si era presentata così cesellata e dettagliata come in Ray Of Light: senza mai uscire davvero dalla grande bolla del pop, il disco ha mescolato elettronica, ambient, new age e techno, passando dagli spettrali arrangiamenti di archi di Frozen al delirio dance della titletrack, fino all’ossatura essenziale di Little Star e Mer Girl. E ancora le suggestioni ipnotiche di Skin e Sky Fits Heaven, o i contorni rarefatti di Drowned World/Substitute For love.
Preziosissimi poi i campionamenti, tra elementi orchestrali e inserti di folklore al confine della world music, mentre i testi svelavano messaggi di spiritualità e si aprivano in preghiere laiche.

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Non c’è da stupirsi che all’indomani dell’uscita del video di Frozen, scelta come prima e potentissima anticipazione dell’album, teenager di mezzo mondo corsero a farsi decorare le mani con l’hennè, anche se probabilmente inconsapevoli dell’origine e del significato di quei simboli: si trattava dell’ennesima moda portata nella cultura popolare da Madonna.
A quarant’anni, ormai saldamente seduta nel più alto cielo dell’Olimpo pop, Madonna compiva un nuovo, efficace e azzardato atto di trasformismo, lavando i peccati del passato con un misticismo che si sarebbe rivelato come una geniale e silenziosa provocazione. Per capirlo sarebbe bastato aspettare poco più di un anno, quando Veronica Ciccone si ripresentò al pubblico musicalmente ancora supportata da Orbit, ma armata di ben altre intenzioni nel video di Beautiful Stranger, archiviando definitivamente uno dei suoi più riusciti e fortunati capitoli discografici.
Ma a distanza di vent’anni Ray Of Light è ancora circondato dal suo alone intatto di inviolabilità.
Per dischi così esiste solo una definizione: capolavoro.

BITS-RECE: Maddalena, The Forest. Un respiro sott'acqua

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Si intitola The Forest, ma le sue atmosfere sembrano scaturire dai fondali marini, o, meglio ancora, dal fondo di un lago.
The Forest è il secondo lavoro di Maddalena Zavatta – in musica solo Maddalena -, e segue di tre anni l’esordio di Electrodream.
Nove tracce sospese tra dreampop ed elettronica che emanano una luce soffusa e subacquea, a tratti densa e opaca.

Synth che ondeggiano sinuosi come steli di alghe, ritmi rarefatti, melodie come raggi di sole filtrati tra rami e superfici vitree.
C’è anche qualche accenno dark, ma più di ogni altra cosa ci sono numerose digressioni malinconiche e sospese che ricordano certe sperimentazioni anni ’80 e ’90 (l’Angelo Badalamenti di Twin Peaks, per fare un esempio), commistioni di ambient e trip hop, da cui spuntano beat incalzanti, mentre le parole cercano di catturare e raccontare il significato della libertà.
Una vera e propria immersione in un ambiente sonoro dai contorni sfumati, riflessi indistinti, luci ed ombre abbracciate e fluttuanti. Ed è come respirare a pieni polmoni sott’acqua.