“Alcune persone potrebbero pensare al termine “underdog” (sfavorito – ndr) come a una parola negativa ma io lo vedo come un termine potente, che rappresenta coloro che possono essere sottostimati ma ancora all’altezza della sfida, in grado di superare le aspettative. Amo questa canzone perché parla di vita reale, di persone reali e delle nostre esperienze. Ci siamo trovati tutti nelle nostre vite a dover affrontare delle sfide. Non è mai facile. Una delle mie parti preferite del testo è ‘They say I would never make it but I was built to break the mold’. Non penso ci sia qualcuno che non si sia mai sentito così”.
Alicia Keys è tornata a sorpresa e ha scelto di farlo con Underdog, brano scritto da lei stessa insieme a Ed Sheeran e prodotto da Johnny McDaid.
Si tratta del nuovo estratto dal nuovo progetto discografico, il settimo in studio, dell’artista americana, Alicia, in uscita in primavera.
L’album includerà anche i due brani già pubblicati Time Machine e Show Me Love, in duetto con Miguel, che è anche valso ad Alicia il record di 11 piazzamenti al #1 nella classifica Billboard Adult R&B Songs.
Il prossimo 26 gennaio Alicia sarà, per il secondo anno consecutivo, tra gli ospiti dei Grammy Awards, mentre il 31 marzo uscirà il suo libro, More Mysef (Flatiron Publishing).
Mark Ronson è uno per cui la definizione di “re Mida” non suona esagerata. Un re Mida dell’industria discografica, ovviamente, uno che, diciamo negli ultimi 10-15 anni, ha visto la propria notorietà andare sempre e soltanto in ascesa, fino a diventare uno dei produttori più blasonati della scena. Anzi, delle scene, visto che se si parla di Mark Ronson non ci si può riferire a un solo ambito. E’ (soprattutto) grazie a Mark Ronson se Amy Winehouse ha fatto in tempo a diventare l’artista che ancora oggi rimpiangiamo – e mi sto riferendo in particolare all’album Back To Black -, ed è in gran parte merito di Mark Ronson il successone riscosso sul globo terracqueo da Bruno Mars con la bomba funkettona di Uptown Funk. Ma porta la firma di Mark Ronson anche la produzione tra pop, country e folk degli ultimi due lavori di Lady Gaga, Joanne e la colonna sonora di A Star Is Born, e se Shallow è diventata Shallow beh, in buona parte dobbiamo dire grazie a lui.
Mark Ronson, ovunque Mark Ronson, dal pop al soul, al funk al country. Pare non esserci genere musicale con cui l’inglese non sia in grado di entrare in sintonia.
Ebbene, a tutto questo va aggiunto anche che il buon Mark non sia solo un super-produttore, ma che qualche volta voglia metterci la faccia e pubblichi qualche album a proprio nome (Uptown Funk era per l’appunto il singolo di punta del suo penultimo lavoro, Uptown Special). E’ il caso di Late Night Feelings, quinto album uscito a nome Ronson.
Un disco che trova la sua sintesi perfetta già nella copertina: una strobosfera a forma di cuore, spezzata e inscatolata. Luccichio e dolore, questi sono i due comuni denominatori che non abbandonano mai l’album, ma che anzi ne caratterizzano l’identità, perché a dare forma e mood a Late Night Feelings ha contribuito in maniera decisiva la fine del matrimonio con l’attrice e modella Joséphine de La Baume.
Ed ecco che dalla devastazione che solo la fine di un amore può provocare è nata una raccolta di “sad bangers”, come li ha definiti il suo creatore: 13 tracce luccicanti di pop, ma dallo spirito tutt’altro che euforico. C’è l’elettronica, ci sono i rimpasti con il country (parla chiaro a questo proposito Nothing Breaks Like A Heart), ci sono le scintillanti influenze della disco, ma di fondo c’è anche un’affascinante malinconia che non permette ai battiti di accelerare più di tanto e tiene i pezzi proprio sul limitare del dancefloor.
Non per niente si chiamano “late night feelings”, emozioni della tarda notte, quelle che si fanno sentire quando le feste sono finite, le luci si sono spente e ci si ritrova nella solitaria intimità da cui non si può sfuggire. Dentro e fuori di metafora.
Per dare voce a questi sentimenti Mark Ronson si è rivolto a un folto gruppo di nomi esclusivamente femminili, coinvolgendo personalità di primo piano come Camila Cabello, Alicia Keys e Miley Cyrus, altre semi-note come Lykke Li, altre ancora quasi per nulla conosciute al grande pubblico come King Princess, YEBBA, interprete gospel qui presente addirittura in tre brani, la rapper The Last Artful, Dodgr, Angel Olsen, Diana Gordon e Ilsey. E per ognuna ha ritagliato uno spazio su misura, definito con precisione dall’occhio esperto del consumato produttore.
Late Night Feelings scivola così sull’arrangiamento disco della titletrack, si molleggia sulla linea di basso e sui falsetti di Knock Knock Konock, si scioglie sul soul di When U Went Away, entra in un ispirato meltin’ pot di funk e urban con Truth, si abbandona alle suggestioni country portate da Nothing Breaks Like A Heart (già che ci siete date una ripassata a Jolene di Dolly Parton) e all’indie pop di True Blue. E dopo questo saliscendi di curve emozionali e declinazioni sonore del dolore, il sipario cala lentamente e dolcemente sull’album tra le note struggenti di 2 AM e tra i sottili riverberi elettronici di Spinning. Mancano giusto gli applausi e il finale sarebbe perfetto.
Quando ci raccontano che anche il dolore un giorno ci sarà utile, forse non hanno poi tutti i torti: Mark Ronson per esempio è riuscito a trarne un album come questo.
Il problema è che non siamo tutti come Mark Ronson, ma questa è un’altra storia.
Aretha Franklin è morta. Stavolta è vero. Dopo giorni di informazioni errate, di coccodrilli frignanti con troppo anticipo, di De profundis intonati solo per fare rumore, la conferma ufficiale è arrivata: Aretha Franklin è morta davvero. Il tumore che l’aveva colpita alcuni anni fa non le ha lasciato scampo,e dopo alcuni giorni di agonia la stella di una delle più grande interpreti soul di sempre si è spenta. Quando muore un personaggio così, è difficile tirare fuori dalla penna qualcosa che non sia ovvio, scontato, retorico, prevedibile, qualcosa che vada oltre una carrellata di informazioni biografiche: perché se è facile elargire lodi ed elogi quando un artista ci lascia, nel caso di Aretha Franklin servirebbe almeno un discorso pubblico, un omelia, un epitaffio alto e sonante almeno quanto quello che lo storico greco Tucidide ha messo in bocca a Pericle al termine del primo anno della guerra del Peloponneso. Perché di Aretha Franklin ne nasce una ogni secolo, non di più. Se il soul aveva una regina, questa non poteva che essere lei, senza dubbio e senza ruffianeria: Aretha Franklin è stata grande, immensa, una gigantessa della musica, sotto la cui ombra sono nate con gli anni artiste come Whitney Houston, Mary J. Blige e Alicia Keys, solo per citare la grandissime.
Una carriera di oltre sessant’anni iniziata a metà anni Cinquanta e interrotta ufficialmente nel 2017 a causa del tumore: in mezzo, ben 18 Grammy vinti tra soul e gospel, più tre premi speciali; una quantità sterminata di album (più di quaranta) e brani diventati memorabili come Respect, Think, ma anche Chain Of Fools, It Isn’t, It Wasn’t, It Ain’t Never Gonna Be (realizzato con Whitney) e poi lui,(You Make Me Feel) A Natural Woman, scritto dalla cantautrice Carole King e diventato grazie ad Aretha in un classico irrinunciabile della black music.
Aretha Franklin è stata per il soul quello che Ella Fitzgerald e Billie Holiday sono state per il jazz: leggenda, storia vivente, presenza immortale già prima di morire. Aretha Franklin ha scritto non una pagina, ma almeno un intero capitolo di storia del soul, che senza il suo nome avrebbe oggi una fisionomia molto diversa. Aretha Franklin era una presenza costante, sicura: poteva non cantare o non apparire sulle scene per lunghi periodi, ma c’era, tutti sapevamo che c’era, perché il soul sembrava non poter più esistere senza Aretha Franklin. E invece la storia ha fatto il suo corso, come sempre, e oggi il soul piange la sua più regale signora.
Con il Super Bowl in programma per il prossimo 4 febbraio, l’uscita di un nuovo album era quasi scontata, mancava solo l’annuncio ufficiale. Ora c’è! Justin Timberlake sta infatti per pubblicare il suo quarto album in studio, Man Of The Woods, in uscita il 2 febbraio. Il pre-order sarà disponibile da venerdì 5 gennaio, quando arriverà anche il nuovo singolo, Filthy, scritto e prodotto dallo stesso Timberlake insieme a Timbaland e Danja, con il contributo per i testi di James Fauntleroy e Larrance Dopson.
Man Of The Woods si annuncia come il lavoro più ambizioso che Justin abbia mai fatto sia per la musica che per i testi, unendo le sonorità del rock tradizionale americano con le influenze più moderne di collaboratori del calibro di The Neptunes, Timbaland, Chris Stapleton, Alicia Keys. Il nuovo album esplora le diverse possibilità di racconto ispirate dal suo amore per il figlio, la moglie e il suo viaggio personale che da Memphis lo ha portato dove è ora. Il colorato e futuristico video di Filthy è stato diretto da Mark Romanek. e vede Timberlake nei panni di un moderno inventore che sta presentando la sua ultima creazione al mondo. Nell’attesa dell’uscita il 2 febbraio saranno poi pubblicati pubblicherà altri 3 video, ognuno con caratteristiche di stile e colore molto diverse, diretti da 3 registi differenti. Le tre canzoni saranno pubblicate ogni settimana, con inizio il 18 gennaio per arrivare alla pubblicazione dell’intero album. Poi, il 4 febbraio sarà la volta del Pepsi Super Bowl LII Halftime Show.
C’è un’aura dorata intorno a Giorgia. Un meraviglioso scintillio che traspare dai suoi occhi scuri e che riempie tutta l’aria intorno. È raggiante, totalmente serena con se stessa e trasmette un profondo senso di consapevolezza di sé.
È appena tornata sulle scene con Oronero, il suo decimo album di inediti, intitolato come il singolo che gli ha aperto la strada e che da solo faceva già intuire il tono personale che avrebbero avuto gli altri brani.
Un disco di 15 tracce, realizzato insieme al re Mida della produzione, quel Michele Canova con cui Giorgia aveva già lavorato e che tanti altri artisti nostrani cercano per dare alla propria musica una veste più internazionale. Un disco che se da un lato non lascia dubbi sul fatto che la voce di Giorgia sia tra le migliori in Europa, dall’altro mostra anche una grande libertà nel giocare tra elettronica e melodia, alternando momenti di ampio respiro ad altri di divertimento “da cubo”.
Un disco praticamente già pronto da mesi, ma che è stato lasciato fermo per un po’ per non dover dire “potevo far di meglio”.
Dopo tre anni, torni con un disco “generoso”, ricco e vario: una scelta specifica? No, non è stata una scelta: all’inizio pensavo a un disco di 11-13 pezzi, poi però non me la sono sentita di escludere gli altri, perché stavano bene nel racconto. Con il mio produttore, Michele Canova, avevo un’idea chiara del suono che volevo far emergere, con tanta elettronica. Un suono più compatto rispetto all’album precedente, Senza paura, dove invece c’erano elementi più eterogenei, con tante parti suonate. In questo caso ci siamo concessi libertà: chi lavora con Michele sa che lui usa molti arrangiamenti di respiro internazionale, ma in questo caso credo che lui sia uscito un po’ dalle regole.
Sarà difficile riproporre questa varietà dal vivo? No, sarà divertente! In un concerto è necessario alternare momenti diversi, mettere insieme i pezzi di oggi con quelli del passato: non ho ancora pensato alla scaletta, ma la varietà dei brani sarà sicuramente un elemento a favore.
Cos’è davvero questo “oronero”? Ha sicuramente a che fare con il petrolio, una risorsa preziosissima che può però diventare dannosa, velenosa se usata in maniera sbagliata, basta pensare alla plastica. È una metafora del mondo di oggi, della nostra società che ha così tanti modi per comunicare, ma che spesso li usa solo per distruggersi.
Per questo disco ti sei voluta prendere tutto il tempo a disposizione: come è avvenuta la scrittura dei brani? Mi sono voluta atteggiare un po’ a cantautrice: ho iniziato a scrivere quando mio figlio è andato in prima elementare. Mi sono trovata in un meccanismo che prevedeva la scuola, la spesa, la cura della casa e per scrivere mi sono imposta dei momenti della giornata. Volevo uscissero certe parole e non altre, e per fare questo mi sono dovuta confrontare anche con i suoni: ho ricevuto dei pezzi con la melodia già fatta, alcuni cantati in inglese, e il gioco è stato quello di mediare tra la musica e la mia lingua che è molto ricca ma con strutture molto diverse da quelle dell’inglese. Mai come in questo caso ho cercato di ignorare il giudizio esterno, quello che il pubblico voleva da me. Ho cercato di pulire tutto ciò che mi avrebbe impedito di essere sincera, eliminando ogni pudore.
È la prima volta che ti concedi così tanto spazio per lavorare a un disco? Sì, è stato un elemento nuovo per me. Raramente si ha il tempo di lasciar sedimentare le cose e riprenderle in un secondo momento. Invece sarebbe bene poterlo fare, perché riguardare ciò che si è fatto con uno sguardo più fresco ti aiuta a centrare meglio il punto, limare ciò che non serve, e magari ti stupisci anche di aver fatto cose che non ricordavi. Sono sempre arrivata alla chiusura di un disco correndo, invece questa volta ho voluto evitare quella brutta sensazione di riascoltare le canzoni e pensare che forse avrei potuto fare di meglio.
Hai scartato tanto materiale? Sì, ma non vado mai a riprenderlo, perché penso sempre che siano cose legate a quel momento e che non debbano tornare. Il passato è passato, mi dico sempre. È importante il momento in cui una canzone esce, ed è importante il momento in cui una canzone viene scritta: a volte succede che un bel disco va male semplicemente perché esce nel momento sbagliato. Non penso di avere nei cassetti un tesoro di gioielli da riscoprire, anche se forse ogni tanto farei bene a riascoltare le cose mai uscite…
Posso farcela e Non fa niente sono due brani di cui sei autrice sia della musica che dei testi: ne avevi altri che hai lasciato da parte? Paradossalmente, essere autrice di musica e parole è stato più semplice che realizzare un brano insieme ad altri, perché ho io tutto il controllo. I testi dell’album sono comunque quasi tutti miei e ogni canzone che scelgo di interpretare la sento mia. Sì, avevo altri brani completamente scritti da me, ma non ho sentito l’esigenza di inserirli nell’album, anche perché di solito non riesco a vederci la componente commerciabile, non li vedo come potenziali singoli. Per me sono semplicemente canzoni che dovevano stare nel disco ma come una sorta di spazio mio. Non fa niente non volevo nemmeno inserirla.
Qua e là nell’album parli di gente che giudica, gente che si erge a maestra di vita, ma dall’altra parte si sente una volontà di ritornare alla centralità del singolo individuo. Da dove arriva questa esigenza? Noi siamo parte di in tutto, sopratutto in questo tempo: se c’è un evento angosciante, tutti siamo angosciati. Ma questa unità troppo spesso la usiamo per farci del male. Dovremmo però pensare che alla fine si parte e si ritorna sempre a sé, si parte verso l’universale, ma poi tutto torna a noi, e se riusciamo a portare anche solo un piccolo cambiamento nella nostra vita, questo risuona come un’onda, anche se non sembra, anche se nessuno ti vede e ti dice “bravo”.
È una consapevolezza nuova? L’ho sempre avuta, ma adesso ci credo più di prima: la mia fiducia nell’essere umano rimane intatta, sono sicura che insieme possiamo fare tanto. Finora abbiamo fatto un gran casino, è evidente, ma chissà che non sia possibile dare una sterzata sul finale, usare un po’ più l’anima e meno la parte mentale. Il nostro destino non è il mondo: passiamo da qui, ma molto probabilmente siamo destinati altrove e quello che resta siamo solo noi, la nostra interiorità. Purtroppo è un lavoro interiore che nessuno ci insegna a fare, non ne abbiamo il tempo, i piccoli e grandi problemi quotidiani ci portano a pensare ad altro.
Recentemente è emersa sui giornali una tua presunta polemica sul movimento femminista: potresti spiegare meglio? Quell’intervista (pubblicata sul settimanale Io donna del 22 ottobre, ndr) è il frutto di un discorso molto ampio che poi è stato sintetizzato per poter essere pubblicato. Si partiva dalla considerazione che, a parità di condizioni, una donna deve lavorare il doppio per guadagnarsi credibilità e che mentre l’uomo fraternizza subito, la donna teme l’arrivo di un’altra donna, la vede come una minaccia al suo territorio. È una situazione che dura da millenni, ormai è un’impalcatura culturale. Le donne vengono limitate nei loro poteri e si fa di tutto per tenerle separate, mentre invece la solidarietà femminile è un elemento a cui tengo molto, sono cresciuta in una famiglia che esalta la donna, mia madre mi faceva leggere libri di donne impegnate per l’emancipazione femminile. Con le mie colleghe siamo riuscite a organizzare Amiche per l’Abruzzo, adesso capita che ci sentiamo, ci confrontiamo sul nostro lavoro, ma sono conquiste recenti. Nell’intervista si parlava anche di alcuni lavori del passato che sono stati supportati poco: ma chi se ne frega, eravamo tutti più giovani, mossi da altre logiche.
È come mai allora nell’album non ci sono duetti con altre donne? In Senza paura ho duettato con Alicia Keys, e ho fatto duetti anche con Gianna Nannini, Elisa, Laura Pausini. Non è stata una scelta quella di non inserire duetti, semplicemente le idee che giravano nell’aria non si sono concretizzate per varie ragioni. Però finalmente ho potuto collaborare con Pacifico, con cui erano anni che volevo lavorare.
Suoni internazionali, duetti internazionali, brani proposti in inglese: davvero nessuna intenzione di guardare all’estero? Io non prendo l’aereo! (ride, ndr) In realtà avrei dovuto lavorare all’estero vent’anni fa, solo che prima non mi sentivo pronta io, poi quando me la sarei sentita non ho avuto il supporto della casa discografica. Adesso però con Internet tutto è più vicino: ho saputo che il video di Oronero è stato in rotazione di VH1 in America, mi arrivano segnalazioni di apprezzamenti dall’estero e ho scoperto anche che Quincy Jones mi segue su Twitter, e io no! Michele Canova mi invita sempre a Los Angeles a suonare con i suoi musicisti: mi piacerebbe, perché ormai a questa età non ho più tante ambizioni di notorietà, mentre sono molto più interessata a sperimentare quel tipo di attività live nei club che c’è in America.
Che ruolo ha avuto Emanuel Lo in questo disco? È stato molto bravo a interpretare certe sensazioni, certi miei pensieri, ma probabilmente neanche lui se ne rende conto, gli arriva solo questa ispirazione e la riporta nelle parole delle canzoni (ride, ndr). Ci siamo confrontati molto e comunque mi sono presa degli spazi per lavorare da sola.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione? Ribellione è la capacità di non cedere al favore dell’esterno. Ribellione è coerenza e l’opposto di vanità e narcisismo. Un tempo essere ribelli voleva dire trasgredire, andare contro le regole, oggi invece sembra che il male sia un valore e il bene sia da sfigati. Ribellione è recuperare il bene, credere nel bene, non avere paura di essere buoni.
E mentre lo dice, il suo volto si apre in uno dei sorrisi più luminosi che abbia mai visto.
“Blended Family (What You Do For Love) è ispirata dal mio viaggio personale volto alla ricerca di una maggior comprensione, supporto e amore in famiglia, per me la famiglia non ha più un’unica definizione e la famiglia moderna è costituita da tutte quelle persone che sono semplicemente desiderose di mettere l’amore al primo posto”.
Il nuovo singolo di Alicia Keys fa parte di Here, il nuovo album in arrivo il 4 novembre. Un album dove Alicia approfondisce tutti i temi che le stanno di più a cuore dalla condizione esistenziale umana alle politiche globali.
La maggior parte dei crediti di produzione di Here appartiene a un team creativo che la Keys ha soprannominato “the ILLuminaries”, composto da lei, dal cantautore/produttore Mark Batson, dal rapper/produttore Swizz Beatz e dal cantautore e storico collaboratore di Alicia Harold Lilly. Con questo album la Keys ha stilato una vera e propria lista di temi di cui desiderava parlare e il risultato è un viaggio approfondito sulle sue radici newyorkesi e sulla cultura hip-hop. “In questo album, sono arrivata Here (‘Qui’),un posto dove sono pronta a guardarmi sinceramente allo specchio e a vedere con obiettività chi e che cosa siamo diventati in questo mondo: il buono, il brutto, le ombre e la luce. Mi sono resa conto che per crescere capendosi e accettandosi l’un l’altro dobbiamo riconoscere la complessità di ognuno di noi. Dobbiamo essere in grado di parlarne e incontrarci dove siamo, Here“.