BITS-CHAT: La mia semplice complessità. Quattro chiacchiere con… Nesli

BITS-CHAT: La mia semplice complessità. Quattro chiacchiere con… Nesli
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“Ma se io mi ricopro di tatuaggi e mi faccio fotografare in copertina mezzo nudo, voi la mia musica la ascoltate?”

Nesli questa domanda l’ha buttata lì così, nel bel mezzo della chiacchierata. Una domanda che ha posto direttamente lui e che non può non lasciare stupiti, sorpresi, interdetti per la sua schiettezza. In effetti che i tatuaggi sul corpo di Nesli siano prolificati a dismisura negli ultimi due anni non è certo un dettaglio, lo si era già visto l’anno scorso a Sanremo, e lo si vede oggi sulla copertina del nuovo album, Kill Karma, dove Francesco Tarducci si è fatto ritrarre sfacciatamente a torso nudo, con il torace completamente ricoperto di inchiostro e i due medi alzati con le mani che tengono ben aperta la giacca rossa.

Ma come – direte – non era lui il rapper buono, quello che “il bene genera bene”? E adesso ci si presenta così spudorato? Sì, è lui, e che il bene genera bene lo crede ancora, oggi come ieri. E allora perché questa copertina? Narcisismo? Mah, forse un po’, dopotutto a Nesli si possono muovere tutte le critiche di questo mondo, tranne quella di non essere un brutto figliolo e di non potersi permettere di fare bella mostra del proprio corpo. Ma il gioco sta proprio qui, nel voler fare quasi mercificazione del “contenitore” per far arrivare la musica. Una verità che governa le regole del pop da sempre – quasi alla pari tra uomini e donne – ma che molto raramente viene rivelata con tanta limpidezza.

Nesli però è così, ti spiazza: tu credi di avere davanti un qualsiasi cantante piacione e ti ritrovi invece a parlare con un sorta di un animaletto selvatico. Come quando ti dice che il suo album precedente (Andrà tutto bene) era un disco che aveva quasi “dovuto” fare, perfettamente consapevole che non lo rappresentasse fino in fondo, perché nella sua testa c’era già l’idea di Kill Karma, il secondo capitolo di una trilogia che si concluderà verosimilmente l’anno prossimo: in Kill Karma Nesli ha voluto uccidere se stesso (il suo karma), togliere ti mezzo definitivamente il rapper per far posto al cantautore. Ma per arrivare a questo punto ha dovuto passare per la strettoia di Andrà tutto bene, con la partecipazione a Sanremo.
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Cosa è successo tra Andrà tutto bene e Kill Karma? Il cambiamento è evidente…
In passato ho sempre scritto con gli occhi degli altri, in questo caso invece ho scritto con i miei occhi, tutto è riconducibile a un fatto, un giorno, un nome. Mi piace far credere di fare tutto a caso, ma in realtà niente è lasciato al caso: ho voluto che questo album arrivasse dopo il libro perché già nel libro mi ero raccontato attraverso la scrittura, ora lo faccio attraverso la musica. Ho anche già pensato al prossimo disco, quello che chiuderà la trilogia: sarà molto visivo, fumettistico, ho già pensato alla grafica e alla copertina, e ci sono almeno sei o sette pezzi pronti. Lo lancerò in maniera particolare: mi sono inventato un alter ego che ucciderà definitivamente Francesco Nesli Tarducci, che da quel momento non esisterà più. Ho una visione molto dark e maledetta di questo progetto, e ho dovuto renderla pop il più possibile.

In un’epoca in cui si ragiona per singoli, tu pensi a una trilogia?
Io sono nato in un periodo in cui si pensava per trilogie, basta pensare al cinema. Oltre alla musica non ho altri impegni o altri passatempi, per cui passo il mio tempo a immaginarmi tutti i dettagli dei dischi, penso alla pubblicazione. Oggi invece mi sembra che tutti siano interessati alle visualizzazioni su YouTube, come se quello fosse il metro per capire se sei un artista di successo: ma se un giorno YouTube si spegnesse, cosa resterà di questi giovani artisti illusi di fare successo in questo modo? Io scrivo tutto su carta e registro subito dopo con un giro di piano. Di tutto quello che faccio resta traccia, non dipendo dai server: vivo nell’era digitale, ma sono passato dall’analogico.
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Nel 2013 avevi già portato un cambiamento forte: mentre tutti andavano verso il rap, tu con Un bacio a te e poi con l’album Nesliving vol. 3 facevi il percorso opposto. Perché allora hai sentito il bisogno di cambiare ancora?
Il karma del titolo indica un cambiamento fisico: non si tratta di un cambiamento musicale, ma di un cambiamento di materia e di materiale, perché il cambiamento musicale c’era già stato.

Ultimamente sul tuo corpo sono comparsi numerosi tatuaggi: anche questo fa parte del cambiamento?
È una provocazione: sapevo che avrei fatto questo disco con questa copertina. Non mi sono tatuato perché mi piacessero i tatuaggi, sono rimasto della stessa idea che ne avevo prima. Di solito chi si tatua lo fa per abbellirsi: io invece mi sono ricoperto di nero in maniera quasi indecente, mi sono rovinato. L’ho fatto a 35 come follia: per avere attenzione serve un bel contenitore. E allora se io mi tatuo tutto e mi metto mezzo nudo, mi ascoltate? Vi accorgete di me? Dentro di me la risposta è stata sì, la nostra società vuole questo. Volete questo da me per ascoltare il mio contenuto? Benissimo, lo faccio.

Una considerazione un po’ amara…
Amarissima.
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E se tra 10 anni ti guardi allo specchio e ti penti di questa scelta?
Mi sono pentito di tante cose che ho fatto. Questa è stata una scelta drastica, ma in fondo ogni scelta lo è: in questo caso è molto visibile perché mi sono deturpato il corpo, ma ogni scelta implica un cambiamento, un non poter tornare indietro. Potrei pentirmi di questi tatuaggi, così come potrei pentirmi di molte altre decisioni che ho preso, si tratta sempre di un sentimento, una sensazione. Per me i tatuaggi sono come le uniformi militari: chi sta in esercito ha una divisa, chi sta in marina ne ha un’altra. Anch’io ho cambiato guerra: nel 2013 dovevo portare un cambio a livello musicale, oggi cambio rotta in un altro senso. Sono un artista, un folle, e come tale faccio delle scelte folli, radicali.

Una forma di follia che io stesso non avevo colto molto bene ascoltando le tue canzoni, ma che emerge ora dalle tue parole….
Ho sempre dovuto e voluto tenerla a bada, non potevo propormi così fin dall’inizio. Dentro di me vive una schizofrenia che mi fa avere davvero tante personalità: per me essere bipolare è una specie di antipasto, io di personalità ne ho molte più di due, tutte distorte, diverse, e nel tempo non ho voluto fare niente per aiutarmi. Anche nella musica mi vedo come un prisma con tante facce, e non mi sono mai venduto per qualcosa di diverso da ciò che sono. Cantante, cantautore, rapper: sono tutto, e forse non sono niente, ma questo per me è un dono del cielo.

In questa schizofrenia sta anche la scelta di aver messo come prima traccia dell’album una canzone come Anima nera? Tu eri quello che fino all’anno scorso cantava che “andrà tutto bene”, che “il bene genera bene”. Spiazzante, direi!
In realtà sono due aspetti complementari, non possono esistere uno senza l’altro. Il mio “bene genera bene” passa attraverso le tenebre: in questo sono abbastanza un darkettone ottimista. I miei amici dicono che sono il principe delle tenebre e quando c’è troppo sole scherzano e mi chiedono di concentrarmi per far venire il brutto tempo. Sono un po’ come Carletto, il personaggio del cartone animato. Ma non potevo presentarmi da subito in questa veste “diabolica”, doveva esserci un percorso. Sono partito dal rap senza avere neanche un tatuaggio, adesso faccio pop e mi sono tatuato come uno che fa punk: un percorso affascinante direi. Sono io, nella mia semplice complessità.

 

Prima parlavi del terzo album della trilogia come di un progetto molto grafico: a livello fisico invece ti spingerai ancora oltre?
Il cambiamento radicale dei tatuaggi c’è già stato, ormai restano poche parti del mio corpo che potrei riempire, e vorrei evitare di tatuarmi le mani, il collo e la faccia: sarebbe davvero troppo e darebbe fastidio anche a me. Al di là dei tatuaggi però, il prossimo album sarà il mio paradiso dantesco, con una libertà espressiva che non mi sono mai preso finora. Ho anche un pezzo da presentare a Sanremo: ditelo a Conti!

In Kill Karma quanta libertà ti sei preso rispetto ad Andrà tutto bene?
Nel disco precedente mi sono auto inflitto una non-libertà: era una tappa obbligata che dovevo attraversare. Per me cantare è una passione, ma è anche un lavoro che implica delle dinamiche. Sapevo dove volevo arrivare, ma per farlo sapevo anche di dover passare per gradi, e non aggirare gli ostacoli come è mio solito: una di queste tappe è stato Sanremo, dove ho mostrato il primo cambiamento, mi sono staccato definitivamente dal pubblico di prima e dalla scena rap. Arrivavo da Carosello, un’etichetta indipendente, Universal mi aveva ripreso dopo avermi licenziato nel 2008, per cui per la major era come ammettere  un errore e tornare sui propri passi. La pressione che avevo addosso era altissima. Con Sanremo dovevo limitare il Nesli maledetto: Andrà tutto bene è stato realizzato in otto mesi con una squadra che non conoscevo e al cui interno c’erano delle incomprensioni, sentivo che una parte dei collaboratori non credeva in me. Dalla mia parte avevo il mio produttore, Brando, che mi spronava a continuare il lavoro perché avevamo tempi strettissimi prima di Sanremo: avrei voluto sparire, morire. Sentivo gli occhi di tutti addosso, sapevo che molti aspettavano il mio fallimento. Inoltre, Buona fortuna amore l’ho provata pochissimo prima del festival, in studio non avevamo tempo e a casa non riuscivo: la prima prova sul palco è andata malissimo perché a Sanremo si usano gli ear monitor e io non ero abituato, poi in qualche modo mi sono arrangiato e l’ho cantata, non bene come avrei potuto, ma è andata. Per Kill Karma è stato tutto diverso, non avevo i fucili puntati, non c’era Sanremo come tassello obbligato e il disco è stato fatto come volevo io. 

Se pensi alla tua vita fino ad oggi, qual è stato il più grande errore che hai compiuto?
Ne ho fatti davvero tanti: quando c’era da scegliere, io sceglievo puntualmente di fare una cazzata, non saprei dirti perché. Non so neanche se non li rifarei, forse semplicemente li affronterei in maniera meno istintiva. Una cosa che dico sempre ai ragazzi è quella di portare avanti le proprie idee, mi piacciono le persone con le idee chiare, anche a costo di intestardirsi su un unico pensiero. Non penso che per forza si debbano fare mille esperienze: non è facile trovare persone che sanno quello che vogliono senza sentire il bisogno di aver provato tutto.

Che opinione hai dei ragazzi di oggi?
Quasi tutti i giovani se ne vogliono andare all’estero, e a me viene da dire “ma dove andate tutti? Perché ve ne andate? E qui chi resta? Solo i disillusi, quelli che non votano?”. Se mi dicono di andare all’estero, io dico no, resto qua: se andare via significa evoluzione, io preferisco l’involuzione. Non ho nemmeno il passaporto! Ho viaggiato pochissimo, e mi sembra che i ragazzini di 14 anni abbiano viaggiato più di me, eppure del mondo non sanno nulla, non conoscono più di quanto non potrebbero conoscere attraverso le foto di Instagram. Nelle situazioni, il segreto non è esserci, ma starci. Mi piacerebbe vedere giovani che imparano i veri mestieri, a fare gli artigiani, a restare legati alla vita vera.
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Ti riferisci anche all’ambito musicale?
Non dobbiamo pensare di avere tutti il sacro fuoco dell’arte che ci brucia dentro. Tutti vogliono fare i cantanti, gli attori, le modelle, i broker, mentre nessuno vuole più fare il macellaio o il panettiere: e come mangiamo? In questo sono molto estremo, non si può instillare nei giovani l’idea che tutti possono fare gli artisti. Stiamo costruendo un mondo finto: tra cinque anni i social saranno modificati profondamente, tutto si sarà trasformato unicamente in business. E i ragazzi non lo sanno, nessuno glielo dice.

Se nella tua vita non ci fosse stata la musica, come l’avresti riempita?
Sarei stato un viaggiatore.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: cosa significa per te il termine “ribellione”?
Ribellione è stare fermi e riuscire a cambiare ciò che sta intorno. Ribellione è qualcosa di solido, silenzioso, fermo in una piazza, capace però di creare una manifestazione esterna.

Moreno torna (di moda) con Slogan

“Il mio terzo album è il frutto di una crescita artistica che ha il sapore di maturità. Per me rappresenta un traguardo importante: con passione mi sono impegnato a trovare slogan per far si che anche tu che mi conosci o che non mi conosci nemmeno, ti puoi rispecchiare nella storia di Moreno.”
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Così Moreno presenta il suo terzo album, Slogan, in arrivo il prossimo 2 settembre dopo essere stato anticipato dal singolo Un giorno di festa.
12 nuove canzoni “per ritornare di moda”, recita la dicitura in copertina, lasciando leggere tra le righe forse la voglia di tornare in gran forma dopo i risultati non proprio esaltanti dell’ultimo album. A produrre il tutto è nientepopoimenoche Big Fish, e questo potrebbe essere davvero il gran colpo.

Ancora qualche settimana e ne sapremo di più….

BITS-RECE: Anohni, Hopelessness. Il cambiamento, lo sconforto e la confusione

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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In copertina c’è un volto confuso, androgino, frutto di un mashup fotografico tra la faccia dell’artista e quella di Naomi Campbell. E le canzoni all’interno del disco sono esattamente così, confuse, ambigue, stridenti. Roba che se la musica tende a destra, i testi virano a sinistra e la voce parte dritta per il centro.
Elementi che presi singolarmente sarebbero anche molto apprezzabili, ma così combinati si strappano le vesti a vicenda.

C’era una volta Antony & The Johnsons, e mezzo mondo restò incantato dalla voce senza sesso di Antony Hegarty, di fatto unica anima del progetto. Con lui abbiamo imparato che anche gli angeli si commuovono, e che quando lo fanno esce una canzone come You Are My Sister. Poi lui è diventato lei – o meglio, lo era anche prima, solo che non aveva ancora fatto il passo di farsi riconoscere come donna anche in pubblico – ed ecco spuntare il nuovo progetto Anohni. Il disco di debutto si intitola Hopelessness, più o meno Mancanza di speranza.
Al cambio di identità si accompagna un cambio radicale di musica: le poesie tristi e crepuscolari lasciano spazio a testi durissimi, arrabbiati, disillusi, politicamente interessati: Anohni se la prende con il sistema malato, che porterà tutti alla rovina, e ne ha per tutti, dai droni a Obama, a cui è dedicato un pezzo che non è esattamente un elogio. Un mondo davvero senza speranza, a livelli ansiogeni e sconfortanti. Messaggi che se sono profondamente diversi da quelli cantati un tempo, sono sempre pronunciati dalla stessa voce impastata di miele e melassa, in un contrasto fin fastidioso: se anni fa la voce di Antony era un balsamo, quella di Anohni avresti quasi voglia di zittirla. L’apice è la nenia di Obama, dove il nome del presidente è ripetuto in modo così ossessivo e biascicato che l’istinto è passare alla tracciare successiva, o peggio schiacciare direttamente stop.
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L’effetto abrasivo dell’album però non si ferma qui, ma arriva a coprire l’intero elemento musicale: non mi ricordo dove (o forse sì, ma non importa) ho letto che Hopelessness sarebbe una sorta di album dance con testi impegnati. Cioè, in pratica, secondo questa teoria, tra David Guetta e Robyn nelle vostre serate al club potrebbe capitarvi di sentir passare una canzone di Anohni. Oddio, le vie della provvidenza sono infinite, ma non so quali discoteche sarebbero disposte a far passare un brano che di ballabile ha ben poco: che siano suoni elettronici posso riconoscerlo (la base di Drone Bomb Me è da pelle d’oca!), ma che si possano definire addirittura dance, beh, un po’ meno. Quindi no, Hopelessness non è un disco di tormentoni tunz tunz con i testi intelligenti.

I messaggi li ha, e sono anche piuttosto chiari e coraggiosi (per tornare a Obama, conoscete qualcun altro che abbia criticato il presidente in modo così netto?), per il resto è il regno della confusione.

Si salva Crisis, nel suo crescendo empatico.

Se poi volete fare tutti i discorsi sul cambio di identità, sesso e genere musicale e considerare Hopelessness come la farfalla uscita dal bruco, fate pure: io di Anohni facevo anche a meno, Antony & The Johnsons mi andava benissimo, maschio o femmina che fosse. Così come non me ne faccio niente della raffinatissima produzione firmata da Hudson Mohawke e Onehtrix Point Never, sistematicamente osannata, se poi il risultato è un disco che per farsi ascoltare (e apprezzare) ha bisogno di un ascolto quasi scientifico.

Non sempre il cambiamento genera benefici.

BITS-RECE: Jean-Michel Jarre, Electronica 2: The Heart Of Noise

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Come aveva fatto lo scorso anno il Gran Maestro della dance Giorgio Moroder, per il suo ultimo progetto anche Jean-Michel Jarre, il sovrano dell’elettronica, si è avvalso di un vero e proprio esercito di ospiti che ha inserito in Electronica, un album spalmato in due volume pubblicati ad alcuni mesi di distanza uno dall’altro.

E se grande accoglienza era stata riservata a The Time Machine, con altrettante aspettative si attendeva la seconda parte del lavoro, The Heart Of Noise.
A far da guida all’album, la relazione tra l’uomo e la tecnologia.
The Heart of Noise è un tributo a Luigi Russolo, il compositore che già nel 1913 predisse l’avvento del sintetizzatore e intuì che l’elettronica e le altre tecnologie avrebbero consentito ai musicisti di “sostituire alla limitata varietà dei timbri degl’istrumenti che l’orchestra possiede oggi, l’infinita varietà di timbri dei rumori, riprodotti con appositi meccanismi”. 

Quello che Jarre ci offre, dopo la già ottima prova d Electronica 1, è un lungo viaggio sonoro zeppo di stimoli e sensazioni, magistralmente create dalle “macchine” elettriche, su cui appoggiano le loro voci ospiti più che illustri, tra cui i Pet Shop Boys, i Primal Scream, Gary Numan, Jeff Mills, Peaches, Hans Zimmer e Cyndi Lauper. Una parata di stelle che appaiono come comete nel cosmo lisergico e abbagliante modellato da Monsieur Jarre.

Tra gli episodi di più forte impatto, la melanconica Brick England, insieme ai Pet Shop Boys e Swipe To The Right con Cyndi Lauper.
Ma c’è poi un ospite che rende ancora più prezioso questo album e ancora più forte il suo messaggio: Edward Snowden, l’ex tecnico della CIA che con le sue rivelazioni ha dato il via al Datagate, lo scandalo sulla sorveglianza di massa messa in atto da alcuni governi all’insaputa dei cittadini, denunciando così l’abuso della tecnologia.
Jarre ha preso la sua voce l’ha piazzata sui veli elettronici di Exit.

Ecco il punto di snodo, la differenza tra un DJ qualunque e uno che dai synth sa tirare fuori musica che pulsa e che parla.

Electronica non è un album di musica elettronica.
Electronica
è un progetto di Jean Michel Jarre.
E c’è una bella differenza.

BITS-RECE: Daphne Guinness, Optimist In Black. Dal lutto alla vita

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Scelta spiazzante quella di Daphne Guinness.
Cosa succede infatti quando una delle più grandi fashion icon decide di buttarsi nella musica e incidere un disco? Nella maggior parte dei casi, succede poco o nulla, il più delle volte ne viene fuori una manciata di brani strambi zeppi di elettronica. Sì perché per fare le cose cool e trendy oggi ci si butta lì dentro, in quel magma indistinto di suoni prodotti dai synth.

Ma dimenticavo che questo succede se sei una qualunque fashion blogger, fashion trender, fashion quel-che-vuoi, non se sei una vera icona vivente dello stile, una delle più grandi, una a cui persino Karl Lagerfeld si sente in dovere di inchinarsi: una come Daphne Guinness. A quel punto, non potresti permetterti di buttare via tempo ed energia per pubblicare una dozzina di canzoni “tanto per”, ma puoi fare quello che davvero ti va, metterci anima e corpo e farlo al tuo meglio. Così ha fatto, più o meno, la Signora dai capelli bicolore. E anziché rifilarci un anonimo e scontato disco di elettropop/EDM, ha pensato di darsi al rock.

E’ nato così Optimist In Black.
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Certo, Daphne Guinness non è Patti Smith o Debbie Harry, non lo è e lo sa, così come è più che evidente che se nella vita avesse voluto fare la cantante probabilmente a quest’ora sarebbe a raccogliere spiccioli in qualche disgraziato locale di periferia.

Ma la fortuna ha voluto che nascesse in una delle più ricche famiglie irlandesi (proprio i Guinness della birra) e venisse assorbita dal fashion system, così che la musica è rimasta per lei solo una marginale passione, da coltivare quando e come le piace.

Quando si è trattato di dar vita al suo album – e non è affatto detto che rimanga l’unico – Daphne ha chiamato Pat Donne e Tony Visconti, lo stesso che per anni ha affiancato il caro Bowie alla produzione. Portare a termine il lavoro, ha dichiarato, non è stato facile, ci sono voluti tre anni, e sin dalla pubblicazione del singolo Evening In Space, nel 2014, si era capito che stava facendo sul serio: in quel brano infatti non si faticano a ritrovare le medesime atmosfere aliene di Life On Mars. Per il resto, i riferimenti sono da ricercare soprattutto negli ascolti degli anni ’60 e ’70

Con l’eccezione di un alcuni brani – Fatal Flow e No Nirvana Of Cooldom, per esempio – che effettivamente mostrano quei suoni fluidi di cui parlavo all’inizio, per il resto Optimist In Black è un lavoro di impronta cantautorale piuttosto malinconica, visto che dentro Daphne ha infilato i pezzi più dolorosi della propria vita, senza risparmiare stoccate all’ex marito (Bernard-Henry Lévy, il filosofo) o il ricordo degli amici scomparsi (la collega Isabella Blow e lo stilista Alexander McQueen, morti entrambi suicidi a pochi anni di distanza): Optimist In Black sembra un po’ la stanza privata di Daphne, un cantuccio in cui rifugiarsi dopo essersi tolta gli abiti di haute couture. Uno spazio suo, da arredare come meglio credeva, senza la pretesa di consegnarci una nuova Bibbia della musica, ma nemmeno senza scialacquare l’occasione.

Optimist In Black non è un disco da classifica, probabilmente non è un disco che lascerà segni nella memoria, ma è un lavoro che ha le gambe per stare in piedi. Un disco di una donna che, arrivata a lambire i 50 anni e restando quotidianamente immersa nel luccichìo del fashion biz ai massimi livelli, sa che la vita riserva anche brutti scherzi, tremendi a volte, e che arriverà per tutti un momento in cui dovremo vedercela da soli.

Dovremo affrontare dolori, ci butteremo addosso il nero del  lutto, e certi segreti ce li porteremo dentro in silenzio, certi di poter contare solo su di noi. 

Di tutto il resto, chi se ne frega: il mondo là fuori sarà fantasticamente luccicante.

 

BITS-RECE: Luce, Segni. Il tepore di una voce

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Quanti dischi di “nuovi talenti” escono sul mercato ogni giorno? Una stima è probabilmente impossibile, tra chi si autoproduce e chi invece ha la fortuna di essere supportato da un discografico. Una cosa è però certa: ogni giorno di “nuovi fenomeni” della musica ne nascono tanti. Anzi, troppi.

E la disgrazia che per molti di questi prestanti giovani, cantare o suonare equivale pressappoco a guadagnarsi uno spicchio di notorietà, senza aver la benché minima idea di cosa voler raccontare al pubblico con la propria musica. Vi sarà capitato di sentirne di gente così, e penso possiate capire di cosa sto parlando.

Poi, per fortuna, esistono quelli che “giovani talenti” lo sono per davvero, quelli che hanno storie da raccontare, e sanno trovare il giusto modo per farlo, magari arrivando in silenzio, senza lo scintillio della TV.

Proprio tra di loro sta Lucia Montrone, o meglio, Luce, come ha scelto di farsi conoscere dal pubblico.
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Il suo primo album si intitola Segni, perché parla di tutti quei piccoli e grandi marchi che la vita ci lascia durante il cammino. Un titolo scelto non a caso, visto che lo scorso dicembre Luce è rimasta coinvolta in un incidente che le ha lasciato in ricordo – appunto – un segno sul viso.

Scorrendo le dieci tracce dell’album, si ha subito la sensazione che in questa ragazza ci sia qualcosa, quel “qualcosa in più” che molto spesso cerchiamo e poche volte riusciamo a intercettare in un artista. 

C’è, nella sua voce, un misto di limpidezza e sicurezza che ti fa capire che lei sa esattamente quello che canta, lo sa perché lo ha vissuto, lo ha scritto e poi lo ha messo nelle sue canzoni. Canzoni che sono proprio sue, e non potrebbero essere di nessun altro, perché se le è cucite addosso a sua misura. Che poi è esattamente quello che dovrebbe fare ogni cantautore che ambisca a meritarsi questo titolo.

Segni è fatto soprattutto di arpeggi di chitarra, tocchi di pianoforte e fruscii di percussioni, una musica leggera leggera, che anche quando scende a trattare i “segni” più dolorosi non perde la sua gentilezza. Ecco, gentile, la musica di Luce è gentile.

Un giovane talento.

BITS-RECE: Laura Mvula, The Dreaming Room. Pop, ma non troppo

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Ci sono tante cose dentro a questo The Dreaming Room, secondo lavoro di Laura Mvula. C’è una buona dose di soul, una certa quantità di pop, dell’r’n’b, reminiscenze gospel, persino eco di afro music. E proprio per questo album sfugge a qualsiasi tipo di catalogazione, così come la sua interprete: non certo la più tipica “lady soul”, ma neppure una qualsiasi starletta del pop.

Senza essere un disco indimenticabile, The Dreaming Room è una piacevole dimostrazione di come si possa fare della buona musica fluttuando tra un genere e l’altro, e riuscendo a piazzare un paio di colpi vincenti come il singolo Overcome (guardatevi anche il video!), che vede l’intervento di Nile Rodgers, e la gaudente Let Me Fall.
In People fa capolino nientemeno che la London Symphony Orchestra, anche qui in un amalgama di stili spumoso che sì sale, ma non quanto si vorrebbe e ci si aspetterebbe.

Bene quindi nel complesso, ma la sensazione è che con questo “materiale di partenza” si potrebbe arrivare a tirare fuori qualcosa di molto più intrigante.

BITS-RECE: Caravan Palace, °_°. Quando lo swing si veste di elettronica

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Immaginate di essere invitati a una grande festa in un grande palazzo, un grande party in costume a tema anni ’20, la golden age dello swing, del charleston e del jazz. Velette, gonne a frange, frac e cilindri. E poi immaginate che a questa meravigliosa serata venga aggiunto un tocco di modernità, piazzando in consolle un DJ che faccia sposare il passato al presente.

Cosa ne verrebbe fuori? Sicuramente qualcosa di molto, molto, molto simile al suono di <I°_°I>, l’ultimo album dei francesi Caravan Palace. Non provate a pronunciare il titolo, è scritto proprio così, e non provate a dare un nome a questa musica, perché qualsiasi definizione vi risulterebbe troppo “corta”, come una coperta che non riesca a coprire tutto.
Elettro-swing? New jazz? Jive? Boh! Ma in fondo, importa davvero?
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Quello che invece conta è che <I°_°I> sia un disco freschissimo, vivo, luccicante di vitalità, nuovo e dirompente verso le regole del tempo e delle mode: pop, dance, hip hop, swing, jazz, jive. Qui dentro c’è proprio tutto, ed è mescolato con maestria da una band di grandissimi musicisti.

Se cercate qualcosa di “diverso” e che vi faccia scuotere i fianchi ma con stile, questo è il vostro album.

La belle époque non è mai stata tanto vicina.
Ladies & Gentlemen, si scende in pista!!

“Sono pigro, torno alle cover”: Giuliano Palma torna con Groovin’

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Dagli Aristogatti a Elton John, passando per Vasco Rossi.

Dopo Old Boy, uscito due anni fa, per il nuovo progetto discografico, Giuliano Palma torna al mondo delle cover,e lo fa con Groovin’. Il motivo di questa scelta è lui stesso a rivelarlo, tra il serio e il faceto: “Sono pigro, di una pigrizia che a volte rasenta l’accidia: inizialmente volevo tornare con un album di inediti, poi ci sono state delle vicissitudini personali e professionali che mi hanno tenuto lontano dalla scrittura, e la pigrizia ha preso il sopravvento: non volevo pubblicare un disco di cui non fossi convinto, così ho scelto le cover”.
Per la prima volta nella sua carriera, durante la lavorazione di Groovin’ non ha curato personalmente tutti i dettagli – a cominciare dai fiati -, ma si è affidato alle mani del nuovo team, di cui fanno parte Fabrizio Ferraguzzo, Riccardo “Deepa” Di Paola e Riccardo “Jeeba” Gibertini, perché – confessa – aveva capito di potersi fidare e di aver trovato in loro il giusto feeling, il “groove” che dà il titolo all’album.

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E lui il groove è uno che ce l’ha sempre avuto, a differenza di altri che si sono persi, distratti, e che il groove non hanno saputo mantenerlo: sono proprio queste persone quelle che, metaforicamente, compaiono sulla copertina del disco girate di spalle, mentre lui prosegue per la sua strada guardando dritto l’obiettivo (“Dicono che sono un crooner, e quindi croono“), sempre attraverso gli immancabili occhiali neri.
E proprio parlando di groove e del nuovo gruppo di lavoro, Giuliano non riesce a trattenersi dall’esprimere il rammarico e la rabbia per la fine del rapporto professionale con il suo storico collaboratore e amico Fabio Merigo: “Insieme avevamo una missione, e dopo tanti anni non avrei immaginato che finisse così, invece l’ho visto perdersi per strada per una donna. E’ stato come un tradimento”.

Nelle 13 cover dell’album non mancano le partecipazioni, come quella di Cris Cab nella versione italiana di Bada Bing, scelta come primo singolo (“Per la versione italiana la casa discografica si è rivolta a me: è la prima volta che metto in un mio album un pezzo di cui sono solo ospite”), Fabri Fibra per Splendida giornata di Vasco Rossi, riletta in chiave reggae, Clementino in I say I’ sto cca di Pino Daniele (“La presenza di Fabri Fibra e Clementino mi aiuta ad avvicinare a miei suoni un pubblico che altrimenti ne resterebbe distante: sono felice che Fibra abbia accettato, perché è un artista per nulla mondano, Clementino ha spaccato rappando in slang”), e Chiara in Don’t Go Beaking My Heart, portata al successo a Elton John e Kiki Dee (“Chiara l’ho conosciuta perché abbiamo lo stesso management: per questo pezzo è perfetta”).
Tra gli altri brani, menzione speciale meritano Eternità dei Camaleonti, You’ll Never Walk Alone, scritto nel 1945 dal duo statunitense Rodgers/Hammerstein e così popolare da divenire l’inno ufficiale del Liverpool (“Quando ci sono le partite è bellissimo vedere tutto il pubblico, dal bambino alla vecchietta con la sciarpa della squadra, intonare la canzone”), Qui e là di Patty Pravo, e Alleluja! Tutti jazzisti, tratta dal cartone animato Gli Aristogatti e già presente in We Love Disney (“Questo era il pezzo che tutti gli artisti coinvolti nel progetto volevano fare, ed è stato affidato a me!”).

A chiudere l’inedito Un pazzo come me (“Parla degli inquieti”).

Groovin’ è dedicato a Carlo Ubaldo Rossi, musicista e produttore scomparso nel 2015 in un incidente: “La sua perdita è uno strazio, non saprei definirla diversamente”.

BITS-CHAT: Trentenni, reagiamo! Quattro chiacchiere con… Paolo Simoni

“E di colpo avere trent’anni
Sentirne il morso sul culo
E convincerti che sei uno dei tanti
Di quella generazione
Cresciuta dalla televisione
Figlia di un ventennio
Di ruberie sotto il sole”

Trent’anni. Uno dei primi, grandi traguardi del calendario biologico delle nostre vite, dopo quello dei 18.
Con la differenza che se tutti non vedono l’ora di potersi finalmente dire maggiorenni, molti meno sono quelli che ambiscono a vedere quel “3” nel posto delle decine della propria età. Un traguardo per alcuni così tremendo che nel 2001 Gabriele Muccino ci ha fatto ruotare attorno il suo film L’ultimo bacio, tratteggiando – in toni tragicomici – una generazione disperata e senza punti di ancoraggio.
Perché se a 18 anni hai ancora tutto (o quasi) da programmare, arrivato ai 30 devi iniziare a fare i primi conti.
E’ quel “morso sul culo” di cui parla Paolo Simoni in Io non mi privo, il primo singolo estratto da Noi siamo la scelta, il suo nuovo album, dedicato proprio alla sua generazione, i trentenni di oggi.

Un disco tanto gradevole all’ascolto, quanto amaro nei contenuti, anche se non del tutto disilluso. La speranza di salvarsi questa generazione ce l’ha, ma deve agire – anzi, reagire – insieme, superando l’egoismo e la tentazione di scappare.
Come ha fatto lui, che a un “viaggio della speranza” oltre la Manica ha preferito un genuino bicchiere di lambrusco qui in Italia.
Alla faccia della Brexit.

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Noi siamo la scelta è un disco “dedicato” alla generazione dei trentenni di oggi: perché hai sentito la necessità di far ruotare l’intero album su questo argomento?
Perché da trentenne – ne ho trent’uno per l’esattezza – mi sono ritrovato a dover affrontare faccia a faccia il problema. Essere giovani in Italia, con tanta voglia di fare e magari con un po’ di talento, spesso non paga. Le canzoni mi hanno indicato la strada. Io mi sono solo fatto attraversare da questo flusso creativo. Mi piacerebbe donare speranza ai miei coetanei. Sono uno di quelli che ha deciso di non partire per l’Inghilterra qualche anno fa… Ad oggi, in base agli ultimi fatti accaduti, mi sembra di aver scelto bene.

Come hai vissuto il traguardo dei trent’anni? Io ci sono arrivato a marzo: in alcuni momenti se ci penso ho un piccolo brivido, altre volte invece l’idea di avere trent’anni mi lascia del tutto indifferente…
Per certi versi mi sento con molte più energie. A mio avviso è una bellissima età. Capisci più cose, sei meno stupido, vai meno in discoteca e di più al cinema. Credo che i trentenni siano il punto di svolta possibile per questo paese. Se solo lo volessimo veramente…

Se ti guardi intorno, che generazione vedi? Ti senti parte di essa o in qualche modo ti senti diverso dai tuoi coetanei?
Mi sento uno come tanti altri. In realtà siamo tutti uguali, con gli stessi problemi, solo che facciamo battaglie personali e non collettive. Forse siamo distaccati anche da certe tendenze modaiole a cui ci hanno abituati. Questo è il nostro più grande difetto, sempre secondo il mio punto di vista.

Al di là della mancanza di reazione, come canti in Una reazione, quali colpe pensi possano essere attribuite ai trentenni? Di cosa possono essere ritenuti responsabili? Ci sono margini di miglioramento, di ripresa, insomma, speranza?
Noi trentenni ci ritroviamo un conto da pagare senza aver consumato. Questo purtroppo non dipende da noi ma da quelli che sono venuti prima e che ci hanno consegnato questo bel pacco. La speranza c’è! Bisogna volerla e soprattutto è ora di incazzarsi per le cose che veramente ci riguardano. Se fossimo capaci di innamorarci di noi come “gruppo di persone” sarebbe già un grande passo… Come ti ho detto prima, tendiamo a isolarci piuttosto che fare massa.

L’immobilità dei trentenni di oggi a cosa pensi sia dovuta? Incapacità innata di prendere posizione? Pigrizia morale? Mancanza di stimoli? Oppure, girando la domanda, cosa avevano i “trentenni di ieri” in più?
Secondo me un po’ tutte le cose che hai detto tu, più il rincoglionimento di vent’anni di TV, aggiungerei. Ci hanno abituati a “non reagire” e a “delegare”. La troppa informazione ci ha inibiti e desolati. Abbiamo ascoltato troppo i consigli di mamma e papà.

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Nel primo singolo estratto dall’album, Io non mi privo, fai anche riferimento a quelli che hanno scelto di trasferirsi all’estero. Come giudichi questa scelta?
In parte ho risposto già all’inizio: sono uno di quelli che pensa che sia necessario restare e cercare di cambiare le cose. Ho amici laureati che sono partiti, fanno i camerieri e sono comunque infelici. Che senso ha? Stai qua e soffri con noi, no?

L’estero offre davvero maggiori e migliori opportunità oppure sono solo illusioni frutto della nostra abituale esterofilia, che ci fa sembrare più belli e appetibili i “giardini” dei nostri vicini di casa?
La tua domanda contiene già una bella risposta. A qualcuno forse fa bene, perché magari ha un tipo di lavoro o un obiettivo preciso, ma se è solo per scappare a cercare altra identità lo trovo controproducente. Un mio amico bolognese dopo otto mesi di Londra è tornato con dieci chili in meno, pieno di brufoli in faccia e con un accento e una spocchia da schiaffi. Sembrava avesse capito tutto del mondo. Era insopportabile. Per fortuna ora è tornato e beve lambrusco come allora.

Musicalmente parlando, in Noi siamo la scelta mi è sembrato di sentire molta più elettronica rispetto ai dischi precedenti: è così o è solo un’impressione? E’ il segno di una nuova strada che hai voluto intraprendere?
Si! Mi sono divertito molto con i sintetizzatori e le batterie elettroniche. Volevo un suono nuovo, più fresco. Credo che sia la strada che continuerò a percorrere. Invece di snaturami mi da un valore aggiunto e questa cosa mi fa molto piacere. Il pianoforte rimane comunque alla base. L’incastro di questi due mondi mi affascina.

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Chi è la Giuly a cui è dedicato uno dei brani?
E’ stata la mia insegnante di vita. Era una pittrice e donna fortissima, molto colta. Mi ha salvato e mi ha fatto conoscere il mondo sensibile dell’arte quando ero ancora adolescente. Le devo tutto. Che Dio la benedica!

Credi che la musica – e l’arte in generale – possa avere ancora qualche potere civile, la forza di condizionare la società?
Certo che sì! C’è un cambiamento in corso, solo che è più invisibile. Gli artisti in generale oggi dovrebbero prendere forza e reagire per primi. Le persone a loro volta seguiranno e il mondo nuovo arriverà!

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: cosa significa per te il termine “ribellione”? E c’è stata almeno un’occasione nella vita in cui ti sei sentito un ribelle?
Sono un ribelle nato. Fin da piccolo decidevo e cercavo di non far decidere agli altri per me. La ribellione è vita, cultura, poesia e talvolta verità! La ribellione mi ha portato a emanciparmi: ribellarsi soprattutto con se stessi, anche quando si sono raggiunti degli obiettivi importanti. E’ carburante vitale!