BITS-RECE: Alda, “Nel margine”. Vuoi venire nel buio con me?
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Sono 7 brani affilatissimi a dare forma al mosaico sonoro di Nel margine, primo album di Alda Nebiu, in arte semplicemente Alda.
7 brani avvolti da atmosfere cupe, foschissime, gelide, tra barre hip hop e urban crude e crudeli e tappeti sonori imbastiti di elettronica, ma in cui non mancano neppure soluzioni originali, come il reggaeton di Mamma, lontanissimo dalle suggestioni solari e vacanziere a cui il genere ci ha troppo abituati.
Nonostante sia al suo debutto discografico – se si escludono un EP e i singoli rilasciati negli anni scorsi – la ragazza sembra avere le idee piuttosto chiare in testa su ciò che l’ha spinta a raccontare sé stessa nelle canzoni e su ciò che vuole comunicare con la sua musica. A cominciare dall’immagine scelta per la copertina dell’album: “Ho scelto l’elemento del ponte, perché il ponte è il contrario del muro. Il ponte è un confine che unisce, anziché dividere. È un luogo di flusso, un luogo sospeso che viene attraversato.”
E riguardo al titolo aggiunge: “Vivere nel margine significa certamente ritrovarsi in una posizione scomoda, ma allo stesso tempo è una posizione che ti permette di osservare le cose da svariati punti di vista. Stare nel margine vuol dire avere la possibilità di vedere quello che succede all’esterno, e contemporaneamente quello che succede verso l’interno.”
Quelli raccontati da Alda sono tasselli della storia di una ragazza che si è da sempre sentita diversa, fuori posto, emarginata. Ossessioni, ansie, tachicardie, paure, atteggiamenti di autodifesa, conflitti interiori tra ciò che si è e ciò che si può e che si deve mostrare agli altri sono i sentimenti che animano le sue canzoni: “È strano quando le emozioni ti attraversano. Spesso mi capita di provare delle sensazioni così intense da annullarsi. Le persone come me o parlano troppo, o non parlano proprio. Quando passi da un estremo all’altro fai fatica a trovare un luogo sicuro.”
E giunta al bivio tra tacere o far sentire la propria voce, Alda sembra aver scelto questa seconda strada, trovando nella musica il canale adatto per mostrare agli altri il proprio mondo interiore.
A dimostrarlo è anche la sua scrittura, fatta di parole che difficilmente cedono al compromesso e che trascinano in un’atmosfera claustrofobica e opprimente, ottenuta anche attraverso ripetizioni ossessive di parti del testo.
Se queste sono le premesse, c’è di che ben sperare per il futuro.
Taylor Swift: a una settimana dall’arrivo del nuovo album, di nuovo disponibili in pre-order le edizioni limitate
Il prossimo 19 aprile sarà finalmente disponibile The Tortured Poets Department, l’attesissimo nuovo album di Taylor Swift.
A quasi una settimana dall’uscita dell’undicesimo album della popstar americana, è ancora possibile per una manciata di ore acquistare in preorder sullo shop di Universal, oltre ai 4 format LP, LP “Phantom Clear”, CD e cassetta che contengono la traccia bonus “The Manuscript”, anche le versioni alternative del progetto discografico a cui, per ciascuna cover, è abbinata una bonus track diversa: “The Bolter”, “The Albatross” e “The Black Dog”.
The Tortured Poets Department arriva dopo 1989 (Taylor’s Version), uscito il 27 ottobre 2023 e certificato disco d’oro in Italia.
È la quarta re-incisione della discografia di Taylor Swift, dopo Fearless, Red e Speak Now, uscito il 7 luglio 2023.
3D: il 19 aprile esce “Empirìa”, un album alla ricerca della bellezza
Un viaggio attraverso un’esperienza: vedere con i propri occhi la creazione di qualcosa, in questo caso non tangibile, destinato a durare in eterno.
Un omaggio alla bellezza, quella di fare musica.
“Empirìa è nato da un bisogno di esplorare, sfidare e catturare l’essenza più pura della musica che ho sempre fatto. La mia risposta all’insaziabile fame di autenticità, è emozione e melodia. Con questo album, ho voluto creare un riflesso sincero del mio viaggio personale, il mio inno alla bellezza musicale attraverso l’esperienza”.
Con questo manifesto di intenti, il produttore 3D ha annunciato l’arrivo del suo nuovo album, EMPIRÌA, in uscita il 19 aprile, con cui si propone di rappresentare la bellezza dell’arte musicale attraverso l’esperienza accumulata durante la sua carriera.
Anticipato dai singoli Experience feat. Jesto e Coming out feat. Achille Lauro, l’album è disponibile in pre-order e pre-save al link https://columbia.lnk.to/Empiria.
Il nuovo progetto sarà composta da 12 brani che uniscono stili e influenze differenti, e che vedranno la partecipazione di artisti del calibro di Achille Lauro, Nayt, Gemitaiz, Clementino, MadMan, Mezzosangue, Danno, Brusco, oltre a uno straordinario inedito postumo con Primo Brown.
Ma 3D ha voluto coinvolgere anche i nomi più promettenti della nuova generazione, per dar vita a un prodotto che attraversi generi ed epoche, lasciando al pubblico un masterpiece che segni un momento significativo per gli amanti della cultura hip hop e per coloro che apprezzano l’arte nella sua forma più pura ed espressiva.
Questa la tracklist:
“Vite da sogno” feat. Nayt
“Coming Out” feat. Achille Lauro
“Fuori controllo” feat. Primo, Grandi Numeri
“La guerra dei mondi” feat. Nayt, Danno
“Boom” feat. Leslie
“Ambientalista” feat. Dani Faiv, MadMan, Vegas Jones
“Tutte quelle volte” feat. Clementino, Brusco
“Zanza o canaglia” feat. 8blevrai
“69” feat. Gemitaiz
“War zone” feat. Kira
“Nevada” feat. Mezzosangue, Shari, Nayt
“Experience” feat. Jesto
Il progetto grafico del disco si ispira ad una rivisitazione dell’opera “Sensitiva” di Miquel Blay ed esprime la volontà di 3D di fondere talento, creatività e un profondo rispetto per la storia della musica e dell’arte.
Condividendone il significato più profondo, sia l’opera dello scultore spagnolo che quella di 3D vogliono rappresentare la bellezza dell’arte attraverso l’esperienza accumulata durante la propria carriera.
3D è un produttore, sound engineer e DJ romano. Storicamente legato al celebre Bunker Studio, che, fondato nel 2005, è diventato un luogo di incontro e di ispirazione per giovani talenti del rap capitolino.
Ha pubblicato tre album, dimostrando versatilità e capacità di creare sonorità innovative: “BlackJack”, “21 Motivi” e “Top”. Il producer, in ognuno di essi, ha mostrato una diversa evoluzione artistica e ha catturato l’attenzione del pubblico con il suo stile unico e originale.
Nel 2013, ha fondato VNT1, una prestigiosa etichetta discografica indipendente, diventata sinonimo di eccellenza e di qualità musicale, grazie alle ultime pubblicazioni, e i relativi successi, di Nayt.
BITS-RECE: Bartolini, “TILT”. Il tempo passa, la musica salva
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
C’è un momento cruciale che attraversa la vita di ognuno: il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Una tappa inevitabile, che ogni essere umano vive a modo suo: per alcuni arriva prima, per altri più tardi; alcuni cercano e sospirano questo traguardo fin da quando sono bambini, altri non si rendono neppure conto di averlo già raggiunto, Altri ancora, semplicemente, lo subiscono e lo vivono come qualcosa a cui è impossibile sfuggire, anche se ne avrebbero volentieri fatto a meno.
Giuseppe Bartolini – in arte semplicemente Bartolini – sembra appartenere a quest’ultima categoria, per sua stessa ammissione: “Dopo Forever [il suo secondo album, ndr], ho scelto nuovamente il mio vissuto come punto di partenza del racconto, ma in una chiave differente e più profonda. Dove Forever descriveva il mio rifugio ideale attraverso le sensazioni della mia adolescenza e delle mie origini, TILT racconta il momento di inevitabile confronto con la vita adulta e con ciò che la definisce: la musica, una relazione e anche la stessa città di Roma. Un delicato equilibrio, una pila di bicchieri che a volte riesco a tenere in piedi e altre no”.
Ecco, TILT, scelto come titolo del suo nuovo lavoro, fa riferimento proprio a questo passaggio, questo cambiamento umano e personale.
Per raccontarlo, il cantautore calabrese si è rifatto alle sonorità indie e rock di chiara matrice anni ’90, dalla cui maglie sbucano qua e là anche rimandi alla vecchia scuola dell’r’n’b.
L’elemento interessante dell’album è la sua impostazione su un doppio livello, una caratteristica che accomuna ogni traccia.
Un primo livello, più immediato, è costituito dalla musica, dalle sonorità. TILT è un disco musicalmente vivace, luminoso, arioso, leggero. I brani si rincorrono scorrevoli uno dopo l’altro senza inciampi e senza lasciare vuoti. Per farsene un’idea basta ascoltare pezzi come ADHD o Paris McDonald’s, oppure Chicco, in cui insieme a Tripolare Bartolini rende omaggio al tempo felice della fanciullezza.
Basta però soffermarsi un attimo sulle parole dei testi ed ecco emergere il secondo livello del disco, quello più profondo e personale. Dentro alle parole di TILT si nascono infatti i pensieri di un ragazzo che si affaccia per la prima volta alla vita con uno sguardo adulto e una maggiore consapevolezza. Ci sono le paure, le ansie, le delusioni, gli equilibri precari da tenere insieme. C’è persino spazio per alcune riflessioni sulla morte, come in Ultima volta e Cimitero.
Proprio questo doppio livello di lettura, se da una parte conferisce ai brani maggiore spessore, dall’altra permette di metabolizzare anche i racconti più difficili.
Significativo che l’unico momento di completa malinconia venga riservato all’ultima traccia, Heath Ledger, una sorta di dichiarazione d’intenti posta però in finale d’opera:
“Volevo solo non farmi male
tornare a casa per respirare
Ormai non so più come respirare
Nel loro specchio solo vuoto
perché mi lasci solo
Fanculo questo gioco…”
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
E siamo stati tante cose messe insieme male Forse non siamo stati disegnati bene Come un grande quadro in un museo un po’ vuoto Dove non passa nessuno
E siamo stati lampi e tuoni In mezzo a temporali estivi Che durano poco vanno via veloci Ma fanno i peggio casini (da “Lampi e tuoni”)
Quanto sarebbe più leggera, più lieve, la vita se il cuore non ci si mettesse sempre a complicare le cose? Quanto potremmo stare meglio? Ce lo diamo sempre…
Ma senza tutte quelle meravigliose complicazioni saremmo davvero più felici? Senza considerare che, senza le turbolenze del cuore, i cantautori sarebbero pressoché disoccupati e noi avremmo molte meno canzoni d’amore con cui farci compagnia.
E che dire della notte, quella fetta del giorno così magica e misteriosa, in cui tutto, oltre che più silenzioso, si fa più lento e più piccolo. È proprio quello il momento in cui noi siamo davvero “noi”, il momento in cui ci parliamo con più sincerità, e in cui molte delle cose che pensavamo di esserci lasciati alle spalle si ripresentano nitide davanti a noi.
Ecco, senza la tribolazioni del cuore e senza l’abbraccio paziente e consolatorio della notte probabilmente non ci sarebbero stati nove capitoli di Lividi, il nuovo album di Comete. Un disco in cui il cantautore ha raccolto nove istantanee di vita “scattate” nel corso degli ultimi due anni.
Come è facile intuire, si tratta perlopiù di immagini dipinte con toni in minore, elaborate tra ricordi nostalgici, riflessioni sugli errori commessi, storie che hanno preso destini insperati, qualche rimorso, qualche rimpianto. O anche solo una passeggiata in una sera di primavera, quando è maggio, ma la felpa ci sta ancora bene.
“Oggi è davvero un bel giorno è uscito pure il sole Di quelle giornate che voglio soltanto cantare E se ti penso lo so che poi ti voglio sentire E se ti voglio sentire poi ti voglio abbracciare E poi ti voglio mangiare sì, come la cena di Natale” (da “Peccato!”)
Quella di Comete – al secolo Eugenio Campagna – è una poetica crepuscolare, illuminata da bagliori tenui e gentili.
Da una parte ci sono i racconti dei dolori del cuore e della mente, dei lividi che la vita senza volerlo ti lascia addosso, ma in fondo c’è uno spazio aperto alla speranza, alla voglia di tornare a sorridere.
Perché se la notte è fatta per guardarci dentro e per fare la conta di tutte le botte prese, è anche vero che la vita ci aspetta dopo, alla luce del sole.
“Oggi è stato un giorno senza senso Di pioggia di rumori e con un nodo nella gola Stretto, stretto, stretto, stretto, stretto Pensavo di morire poi invece è tornato il sole” (da “Lividi”)
BITS-RECE: La Sad, “Odio La Sad”. La vita in punk-rock
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Dopo anni di overdose hip-hop e trap, declinati in tutte le possibili varianti possibili, l’exploit mainstream de La Sad – in grandissima parte merito dell’esperienza sanremese – è arrivato roboante come un fulmine a ciel sereno.
A memoria, era più o meno dai tempi di Domani smetto degli Articolo 31 – anno 2002 – che un progetto italiano anche solo vagamente orientato al punk non si guadagnasse l’attenzione del grande pubblico.
In effetti, la prima sensazione che si prova ascoltando le tracce di Odio La Sad, il nuovo album del trio formato da Theø, Plant e Fiks, è quella di un leggero spaesamento: sembra di essere riportati indietro nel tempo, ai primi anni ’00, quando era il punk-rock a farla da padrone tra i giovanissimi. Blink 182, Avril Lavigne, Sum 41, i riferimenti della memoria corrono a quei nomi, che per molti sono oggi sinonimo dei tempi felici dell’adolescenza.
Anche la loro estetica, fatta di chiome fluo, borchie, outfit neri in similpelle, attingendo a quell’immaginario emo così spiccato, appare oggi lontana, fuori moda, decisamente diversa da quello su cui oggi investe il mercato discografico.
E l’impressione è che l’intento dei nostri sia esattamente questo: arrivare di traverso, da dove nessuno guarda.
Partiamo col dire che Odio La Sad è un album centratissimo. Un disco coerente, compatto, solido, che pone al centro un messaggio forte e chiaro. Un messaggio che non chiede troppe interpretazioni o troppi giri di parole per essere compreso. Si parla di emarginazione, di dolore, di quel senso di smarrimento e di solitudine che almeno una volta nella vita prende tutti, ma che si può trasformare in una voragine tenebrosa se non si ha la forza e la capacità di guardare altrove, e si finisce per caderci dentro.
La Sad dà voce a chi ha sempre pensato di non averla, a chi nella vita si è sempre sentito un vinto, un perdente, e – peggio – è sempre stato convinto di non aver diritto a una possibilità.
Non c’è alcun obiettivo di rivalsa incattivita, di vendetta o di dimostrare qualcosa; è il gesto di chi si libera di tutto l’odio che sente dentro, di chi non permette al passato di uccidere il futuro. Nasce anche da questo intento il titolo del disco e dell’omonima traccia di apertura.
nei brani di Odio La Sad si parla di odio subìto, di amori tossici, di mancanza di fiducia, di ansie e di insicurezze, di dipendenze, persino di suicidio giovanile, come in Autodistruttivo, il brano portato coraggiosamente su palco di Sanremo.
La Sad canta per gli “stropicciati”, per i tutti i diversi, per chi non ha ancora trovato una strada o l’ha magari persa, per chi si chiede se abbia senso tutto sommato restare a bordo, fino alla fine di questo viaggio nel mondo.
Tra i momenti più emozionanti dell’album c’è sicuramente Maledetta vita, una dichiarazione d’amore al mondo cantata insieme ai Pinguini tattici nucleari. Un brano di una bellezza limpida come la luce che arriva dopo un lungo buio.
Funziona molto bene il duetto con Rose Villain in Non lo sai e poi c’è l’indovinata accoppiata con Rettore, una che punk non lo è forse mai stata musicalmente, ma nell’anima sì, sempre. Rivoluzionaria, disturbatrice, innovatrice, insieme a lei La Sad rivisitano un pezzo iconico e ironico come Lamette.
A chiudere il disco è Fuck The WRLD: vengono tirate in ballo l’anarchia, la libertà, la lotta alla società e alla classe politica, ma si fa davvero fatica a cogliere in questo brano l’autentica spinta eversiva che il punk per natura dovrebbe avere. Ed è proprio qui, dove il gruppo sempre voler alzare un po’ di più l’obiettivo, che si intravede il limite.
Perché, non dimentichiamolo, stiamo pur sempre parlando di punk-rock, che è cosa ben diversa dal punk.
E non sarebbe male se il prossimo passo del progetto La Sad si giocasse proprio su questo terreno. Passata la voglio di ribellione di gioventù, sarà tempo di crescere.
Billie Eilish: “HIT ME HARD AND SOFT” è il terzo album. Versioni limitate e nessun singolo prima dell’uscita
Billie Eilish ha annunciato l’uscita del suo attesissimo terzo album in studio, HIT ME HARD AND SOFT , prevista per il 17 maggio in tutto il mondo.
Il nuovo album è il lavoro più coraggioso dell’artista finora, una raccolta tanto diversa quanto coesa di brani, un disco pensato per essere ascoltato nella sua interezza, dall’inizio alla fine.
L’album fa esattamente ciò che il titolo suggerisce: colpisce duramente e dolcemente a livello di testi e di musiche, mescolando i generi e sfidando i trend mano a mano che ci si addentra nell’ascolto.
HIT ME HARD AND SOFT è stato scritto da Billie Eilish e dal fratello FINNEAS, suo fedele collaboratore, che ha anche prodotto il disco.
“Non ci saranno singoli prima. Voglio farvelo sentire tutto in una volta. Io e FINNEAS non potremmo essere più orgogliosi di questo album e non vediamo l’ora che tutti voi lo ascoltiate”, ha scritto Billie Eilish sui propri social media.
Solo pochi giorni fa, sempre dai suoi canali social, la cantautrice aveva mosso delle critiche alla messa in commercio di numerose versioni dello stesso album, allo scopo di incrementare le vendite.
In accodo con la politica dell’artista di minimizzare gli sprechi e combattere il cambiamento climatico, i prodotti fisici saranno disponibili in varianti limitate, con la stessa tracklist e realizzati con materiali 100% riciclabili.
Una mossa di grande consapevolezza e una sfida alle politiche imperanti nel mercato discografico, da parte di un’artista che ha già dimostrato di conoscere benissimo le regole del musicbiz e di saperle reinterpretare.
Per saperne di più sulla sostenibilità di questi prodotti e per conoscere le versioni disponibili, visitare questo sito.
BITS-RECE: Beyoncé, “COWBOY CARTER”. Il country non è una terra straniera
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Il nome di Beyoncé non ha mai fatto – e probabilmente mai farà – rima con minimalismo.
Da quando il mondo della musica la conosce, la signora Carter non ha mai fatto nulla per passare inosservata e per nascondere una personalità, diciamo così, prorompente.
A fronte di un talento straordinario, forse l’unico vero appunto che si potrebbe fare a Queen Bey sta proprio nel non saper usare le mezze misure, nell’essere in tutto ciò che fa prepotente per indole, egocentrica, esagerata.
Ma se sei Beyoncé, se hai quella voce, se sei una belva da palco, se hai nel cuore tutto quel coraggio e se hai già dimostrato di saper cambiare le regole del gioco puoi bellamente fregartene di fare la modesta e puoi permetterti di fare quello che hai in testa.
E lei, ancora una volta, così ha fatto.
Dopo REINASSENCE del 2022, un omaggio alla club culture, da subito annunciato come il primo atto di un progetto più ampio, tutti erano in attesa di conoscere quale sarebbe stata la sua mossa successiva. Con quale poderosa zampata Beyoncé avrebbe scosso la scena musicale?
La risposta è arrivata netta e chiarissima nelle 27 (ventisette!) tracce di COWBOY CARTER, il suo nuovo, monumentale album, secondo atto del progetto.
Un disco solo dal punto di vista formale, si potrebbe dire, perché nei fatti si tratta di un manifesto di identità, di rivendicazione, di libertà. In poche parole, COWBOY CARTER è un atto politico messo in musica.
«Questo album ha richiesto più di cinque anni – ha dichiarato Beyoncé – È stato davvero fantastico avere il tempo e la grazia di poter dedicare il mio tempo. Inizialmente avrei dovuto far uscire Cowboy Carter per primo, ma con la pandemia il mondo era troppo pesante. Volevamo ballare. Meritavamo di ballare».
Come dire, prima vi ho fatto ballare, adesso mi ascoltate seriamente.
Lei, che aveva già brandito la musica come un’arma di orgoglio e indipendenza con Lemonade, adesso sferra un altro colpo fatale abbracciando un genere troppo a lungo e erroneamente considerato estraneo alla black culture: il country. Sì, proprio il genere americano per eccellenza, le cui origini sembrano essere state dimenticate dagli americani stessi. Beyoncé lo va a riprendere, ci scava dentro e ne riscopre la comune ascendenza con il blues, che non è esattamente un genere “bianco”.
«[Questo album] È nato da un’esperienza che ho avuto anni fa, in cui non mi sono sentita ben accolta… ed era molto chiaro che non lo ero. Ma, a causa di quell’esperienza, ho fatto una ricerca più approfondita sulla storia della musica country e ho studiato il nostro ricco archivio musicale. È bello vedere come la musica possa unire così tante persone in tutto il mondo, mentre amplifica le voci di alcune persone che hanno dedicato così tanto della loro vita all’educazione sulla nostra storia musicale. Le critiche che ho affrontato quando mi sono approcciata per la prima volta a questo genere mi hanno costretta a superare i limiti che mi erano stati imposti. Act II è il risultato della sfida che mi sono lanciata, e del tempo che ho dedicato a mescolare i generi per creare questo lavoro».
Il riferimento sembra correre dritto al 2014, a Daddy Lessons, e alle controversie che si generarono attorno al genere musicale dentro cui far rientrare il brano (sì, in America sono ancora molto affezionati a questo tipo di etichette).
Libertà, dicevamo, rivendicazione, orgoglio.
Con COWBOY CARTER Beyoncé non sta parlando solo al suo pubblico, e non sta parlando neppure solo agli amanti della musica: sta parlando a tutti. Il suo è un messaggio universale di rivoluzione. Che sarebbe poi una delle principali missioni che la musica è da sempre chiamata a svolgere, ma quanti artisti della scena mainstream oggi hanno quel potere e quella forza?
E qui il discorso potrebbe andare avanti a oltranza.
Tornando al disco, sarebbe riduttivo liquidare Cowboy Carter semplicemente come un album country: è sicuramente un album che attinge a piene mani dal country, ma che non nasconde influenze r’n’b, soul, gospel, pop. C’è persino un inserto lirico, in cui Beyoncé canta in italiano (il brano è DAUGHTER, e l’inserto è tratto da Caro mio ben, un’aria del XVIII secolo di Tommaso Giordani).
In fondo, perché porsi barriere quando se ne può fare a meno?
A chiarire gli intenti dell’album sarebbero sufficienti le due tracce poste a introduzione e conclusione, rispettivamente AMERIICAN REQUIEM e AMEN, potenti e sacrali, due preghiere purificatrici, una sorta di De profundis intonato alle idee del passato, a ciò che a lungo è stato e che mai più sarà.
“Se prima vi eravate posti dei limiti, vi faccio vedere che quei limiti non sono mai esistiti”, sembra essere il sottotesto.
Per nulla casuale la scelta di riprendere anche BLACKBIIRD dei Beatles, da molti interpretata come una canzone sui diritti civili.
Ma in COWBOY CARTER non mancano nemmeno gli ospiti, che per la maggior parte sono stati arruolati dalla scena country: c’è Willie Nelson in SMOKE HOUR ★ WILLIE NELSON, c’è Dolly Parton, che presenta la cover della sua Jolene, di cui Beyoncé rivista anche anche il testo, c’è Miley Cyrus, che il country ce l’ha letteralmente nel sangue, in II MOST WANTED. E c’è Linda Martell, autentica pioniera nel country, essendo stata la prima donna di colore a debuttare al Grand Ole Opry, programma radiofonico dedicato a country, folk e bluegrass, e prima donna di colore a debuttare nella classifica country di Billboard.
Proprio Martell compare in SPAGHETTII, un brano di chiara impronta urban, perché come dicevamo questo non è semplicemente un album country.
Infine, due parole sul titolo: perché Cowboy – e non Cowgirl – Carter? Anche qui il riferimento è da ricercare nel passato, quando la parola cowboy era usata in modo dispregiativo per appellare gli ex schiavi, “i ragazzi, boys“, abili a svolgere i lavori più duri nel maneggiare cavalli e bestiame.
Ancora una volta, orgoglio.
Beyoncé non ha usato il country per togliersi un capriccio, o per inaugurare una nuova era con un cambio di look e di genere. E neppure aveva bisogno di dimostrare di saper fare il country.
Il suo bisogno era piuttosto quello di far capire che lei poteva farlo. E che ci sono barriere che possono e devono essere abbattute, nella musica, nella società, nella vita.
Insomma, l’album è uscito solo da pochi giorni, ma di una cosa sono abbastanza sicuro: COWBOY CARTER è un disco fatto per restare.
“Sirio”, record stellare per il terzo album di Lazza
8 dischi di platino, il più alto risultato mai raggiunto in Italia per un disco rap
21 settimane al vertice della classifica FIMI Oltre 1 miliardo di stream complessivi
A quasi due anni dalla pubblicazione, sono numeri a dir poco stellari quelli raccolti da Sirio, terzo album in studio di Lazza, uscito l’8 aprile 2022.
A questi risultati se ne aggiunge ora un altro che rende ancora più brillante il successo dell’album.
Stando alle certificazioni Fimi del 2 aprile 2024, il brano Relax ha raggiunto la soglia delle 50.000 copie, aggiudicandosi così il disco d’oro. Con questo traguardo, tutti i brani dell’album si sono aggiudicati almeno una certificazione. Un risultato unico nel panorama italiano.
A svettare su tutti è CENERE, che con i suoi 8 dischi di platino, è il brano sanremese più certificato nella storia della FIMI.
BITS-RECE: James Jonathan Clancy, “Sprecato”. Pastorale per animi inquieti
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Se è vero che un disco non andrebbe giudicato dalla copertina, nel caso di questo album un’eccezione penso sia più che lecita. Se non per giudicarlo prima di averlo ascoltato, almeno per farsi istantaneamente un’idea dello stato d’animo che lo permea.
Soprattutto se – come in questo caso – è il frutto di un intenso scambio di idee, di collaborazioni e di reciproche contaminazioni tra l’artista che l’ha realizzata e il cantautore che firma il disco. Il primo è il disegnatore bolognese Michelangelo Setola, il secondo è il cantautore italo-canadese James Jonathan Clancy. L’album invece si intitola emblematicamente Sprecato, ed è il primo lavoro da solista di Clancy, dopo le esperienze con His Clancyness, A Classic Education, Settlefish e Brutal Birthday.
Tornando alla copertina, ciò che colpisce subito lo sguardo è un’idea profonda di inquietudine e alienazione, uno stato d’animo di tensione fosca, “tempestosa”.
Ed è esattamente questo che traspare – limpido e oscuro – dalle tracce del disco.
Folk, psichedelia, synth-pop, darkwave, ambient, i riferimenti presenti nell’album sono tantissimi, intrecciati tra loro in una vibrazione costante.
I suoni sono ora profondissimi ora eterei, ora armoniosi ora dissonanti.
Clancy spazia tra minimalismo e magniloquenza, tra visioni ariose e oniriche e cadute vertiginose, e con la voce dipinge atmosfere immaginifiche.
Sprecato è un disco che si vede, quasi si tocca, è fatto di tinte ombrose, caliginose, plumbee. Castle Night apre all’insegna di un’intimità tipicamente notturna, A Workship Deal è una nerissima sinfonia post-punk che esplode in un finale ruvido e dissonante, Had It All è una disperazione senza possibilità di ritorno cullata su un arpeggio, mentre Out And Alive cresce e si cosparge di un’aura quasi liturgica.
Tra drums, chitarre e synth, molto interessanti le coloriture create dai sax.
Sprecato suona come quelle giornate di passaggio tra estate e autunno, o tra inverno e primavera, quando la quiete viene travolta da una cavalcata nera e minacciosa di cumulonembi. Quelle giornate in cui gelide e improvvise raffiche di vento scompigliano la natura e agitano i pensieri.
Quelle giornate che preannunciano un cambiamento.
Registrato tra Bologna e Londra, Sprecato è stato realizzato grazie a Suner, progetto di Arci Emilia-Romagna sostenuto dalla Regione Emilia-Romagna nell’ambito della Legge 2 sulla musica.