#BITS-RECE: Sethu, “tutti i colori del buio”. La fine è l’inizio

#BITS-RECE: Sethu, “tutti i colori del buio”. La fine è l’inizio

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit

“ho visto un ragazzo stanco
sopra il tetto di un palazzo
quando i tuoi sogni muoiono
non sai dov’è che volano
ma sta con la faccia all’angolo
perché i ragazzi non piangono
c’è una canzone in radio
ma ora noi non cantiamo”

(da ragazzi perduti)

 

Questo album avrebbe anche potuto non vedere mai la luce. Ma questo album è anche la testimonianza di una salvezza.

Per capire da dove nasce dobbiamo fare un passo indietro, a Sanremo 2023, quando Sethu si presenta al grande pubblico con il brano Cause perse. Al termine della kermesse la classifica parla chiaro, l’artista savonese è ultimo. Poteva andare meglio, ma tutto sommato per lui non è stato un dramma, se non fosse che nella testa di Sethu iniziano a prendere forma domande sul senso di fare musica, sugli obiettivi non raggiunti, sulle aspettative da soddisfare, sulla necessità – agli occhi degli altri – di capitalizzare a ogni costo l’esperienza sanremese per trasformarla in una svolta, come l’anno prima era stato per Tananai, e ancora prima per Vasco.

Ecco che il dopo-Sanremo si rivela una voragine, psicologicamente parlando: è il ritorno alla realtà, il ritorno a fare musica solo per la propria missione personale, con le sole proprie forze. Si (ri)affacciano la depressione, l’ansia da prestazione, le paranoie, una latente tendenza a una bassa autostima. In una parola, arriva la crisi. Sethu si allontana anche da Jiz, suo gemello di sangue e di musica, dal momento che è insieme a lui che nascono le sue canzoni.
Poi, per entrambi, la decisione salvifica di (ri)entrare in terapia. E lì, dove c’era solo buio, torna la luce; lì, dove c’era solo nero, tornano a distinguersi i colori. tutti i colori del buio, appunto, quelli che daranno poi il titolo al disco della rinascita e della salvezza.

E a proposito del titolo, si tratta di una diretta citazione del film Tutti i colori del buio di Sergio Martino. Ma tutto il disco è costellato da citazioni che spaziano da Baudelaire, CCCP e persino Club Dogo.

Si badi però che questo è un disco cosparso pur sempre da un’aura e da un mood fuligginosi: la tinta predominante è quella del nero, con la differenza che grazie alla terapia Sethu ha saputo coglierne le numerose sfumature.

L’artista savonese parte da sé, parte dalla propria vicenda personale, ma è chiaro che quello che racconta in questi brani è lo scenario che attanaglia un’intera generazione. Brani come per noia, i ragazzi perduti, troppo stanchi – l’unica traccia a non essere stata composta in quest’ultimo anno – o problemi sono pennellate fosche e violente che tratteggiano un panorama ampio.

“siamo troppo stanchi per la nostra età
e tutto questo un giorno ci ucciderà
non puoi darmi l’aria che mi manca
sciolgo mille pillole dentro l’acqua
non sto bene portami via
quando la notte era nostra e tu eri mia”

(da troppo stanchi)

“sono magro fino all’osso amici nelle foto
la metà ti vuole morto l’altra ti vorrebbe fottere
mi compro casa nuova così la riempio di vuoto
però qui non siamo a scuola un problema non lo risolvo
sognavo troppo da piccolo
ora mi sveglio in un incubo
e in gola mi è rimasto un nodo
che nessuno scioglierà”
(da problemi)

Si risente, ovviamente, anche l’eco dell’esperienza sanremese, che irrompe in sottopressione (non mi avranno mai), brano dal titolo eloquente, mentre verso la fine, in triste vederti felice, c’è spazio anche per una confessione spesso censurata: l’incapacità di provare felicità nel vedere qualcuno a cui siamo – o siamo stati legati – che è riuscito ad andare avanti, cambiare orizzonti, prospettive, obiettivi, mentre noi ci sentiamo ancora al punto di partenza, gli stessi che eravamo prima, aggrappati ai ricordi di quelli che eravamo.

tutti i colori del buio è un disco fosco, dicevamo, depresso anche nel senso clinico del termine, ma è anche l’occasione per gettare uno sguardo approfondito sull’oscurità, per riuscire a scorgervi impercettibili sfumature. Ed è per questo che, in mezzo a questa nerissima tempesta, non si possono non cogliere i segnali di una promessa di serenità: “ma forse un giorno dalle lacrime farai crescere gli alberi dove tu salirai per stare bene / e forse un giorno senza pillole vedrai volare gli angeli e anche tu riuscirai a stare bene” canta ancora Sethu in i ragazzi perduti.

Perché, lo abbiamo detto fin dall’inizio, questo disco è anche la storia di una salvezza, quella portata dalla terapia e dal prendersi cura della salute mentale, tema sempre più attuale e su cui Sethu vuole gettare luce.

In fine, per concludere, una notazione di stile per nulla secondaria per il sottoscritto: se vi accingerete all’ascolto dell’album, non fatevi ingannare dal volto del vampiro della copertina, né tantomeno dall’estetica profondamente dark dell’artista, e neppure dalle primissime note d’organo in apertura.
Seppure questo è un album dall’umore nero, le sue atmosfere sonore poco hanno a che fare con l’immaginario gotico: qui a predominare è un’impronta molto meno lugubre e molto più “sporca”, che ha molta più familiarità con il punk, e addirittura con il breakbeat.

Anche questa, dopo tutto, è una notevole sfumatura di buio.

 

 

 

BITS-RECE: Michelangelo Vood, “Non c’è più tempo”. Nonostante tutto, sperare ancora

BITS-RECE: Michelangelo Vood, “Non c’è più tempo”. Nonostante tutto, sperare ancora

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Lasciate ogni speranza, o Voi che ascoltate. Perché in questo disco di speranza ce n’è davvero poca.

In compenso, c’è tanto, tantissimo cuore, e tanta, tantissima poesia. Questo è uno di quei dischi fatti prima di tutto di parole, di pensieri, di riflessioni, di confidenze, e solo dopo di musica e melodie.
E non perché la musica sia secondaria, ma perché qui più di tutto emerge un’urgenza di scrivere, di buttare fuori un mondo di paure, di ansie, di aspettative disattese, di promesse che qualcuno là fuori non ha mantenuto.

Non c’è più tempo, album d’esordio di Michelangelo Vood, è un bilancio di vita alla soglia dei 30 anni, un resoconto di pagine parecchio disilluse. Perché avere 30 anni oggi non è facile, e può fare paura. Anzi, ha sempre fatto paura, perché i 30 anni hanno sempre rappresentato una sorta di punto di non ritorno.

Ne L’ultimo bacio, pellicola diventata simbolo di una generazione, Gabriele Muccino aveva tratteggiato magnificamente la crisi dei trentenni: ma lì era diverso, molto diverso. Erano i primissimi anni ’00, e i trentenni di allora soffrivano soprattutto per la fine della loro “età dell’oro”, quella fatta di spensieratezza e di mancanza di grandi responsabilità.

Ma chi ai 30 anni ci arriva oggi si trova davanti uno scenario ben più complesso. Certo, ognuno vive la propria età e il proprio presente a modo suo, ma che avere 30 anni oggi sia una sorta di sciagura non è difficile crederlo, anche per chi – come il sottoscritto – ci è già passato da un po’.

Quello che Michelangelo Vood ha fatto nel suo primo album è stato mettere a fuoco il quadro della sua generazione e consegnarcelo con i tratti nitidi e sensibili della sua scrittura.

“Siamo nomadi, figli dei dollari, del Millennium Bug, di una madre in provincia sola”, canta in Millennium Bug, un brano-manifesto su cui domina una malinconia che fa stringere il cuore. E poi prosegue: “Chissà se è questo che volevo quel giorno di novembre solo dentro a un treno, che corre verso nord”.
In quanti questa domanda se la saranno fatti?

Lasciare la provincia, lasciare gli affetti, i genitori, raggiungere la metropoli, tenere accesi i sogni e i progetti, nonostante tutto. E poi veder finire un amore, sentirsi vulnerabili, ma avere la forza di riconoscerlo, e poi, inspiegabilmente, sentir nascere una forza che ti spinge avanti. Ancora, nonostante tutto. Istinto di sopravvivenza? Incoscienza? O forse un barlume di speranza?

C’è proprio così tanta vita raccolta nei brani di Non c’è più tempo. E Michelangelo Vood la racconta senza pudore. O meglio, con il pudore di chi sa dare peso alle parole, e riesce a volgere in poesia anche la notte più nera.

Non c’è più tempo è un album disarmante, sicuramente uno dei dischi più pessimisti che mi siano capitati tra le orecchie negli ultimi tempi. Pur nella sua infinta delicatezza, in certi momenti è un disco capace di aprirti buchi in fondo al cuore.

Ma è un disco che fa bene, perché ci ricorda che siamo umani. E quando intorno a noi vedremo solo macerie sarà probabilmente la nostra umanità a salvarci, a farci andare avanti ancora una volta, a farci pensare che forse di tempo ne è avanzato ancora un po’. Che non tutto è perduto.

E quindi forse non era vero quello che ho scritto all’inizio, che non c’è speranza. C’è e ci sarà sempre.
Ci sarà il tempo della paura, il tempo della delusione, il tempo dell’abbandono, il tempo dello smarrimento. E ci sarà il tempo per sperare ancora.
Ci sarà sempre tempo.

BITS-RECE: Anitta, “Funk Generation”. Corto, sporco e cattivo

BITS-RECE: Anitta, “Funk Generation”. Corto, sporco e cattivo

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una mancata di bit.

Lo dico tranquillamente: non avevo nessuna valida ragione per ascoltare questo disco. Conosco discretamente l’artista, non vado particolarmente matto per il suo genere e nessuno mi ha commissionato la recensione. Se l’ho ascoltato – e ora ne scrivo, visto che ci ho investito del tempo – è perché scorrendo la tracklist in Spotify sono rimasto colpito dalla durata media delle canzoni.

Più che album, Funk Generation di Anitta è una scatola di cartucce.

Una raffica di 15 proiettili veloci come schegge, sparati a perdifiato, in neanche 40 minuti.

Si fa giusto in tempo a prendere confidenza con quella carica di bollenti ritmi carioca che tutto è già finito.

Il sesto album della star brasiliana più famosa al mondo (in questi anni almeno) nasce come un tributo al funk delle favelas: “Funk Generation incarna ogni sfumatura di questo genere musicale 100% brasiliano che ha plasmato il mio percorso sia come persona sia come artista”, ha dichiarato Anitta. “Il funk è radicato nella cultura di coloro che vivono nelle favelas brasiliane, da cui provengo, e spesso è stato ingiustamente giudicato come privo di valore artistico, persino associato alla criminalità organizzata. Riflette il classismo e il razzismo presenti nella nostra società. Io faccio parte di una generazione che ha abbracciato il ritmo, è uscita dalle favelas e ha conquistato il Brasile”.

Uno scopo più che nobile insomma, non fosse che terminato l’ascolto dell’album si fa fatica a dire cosa ne resta in testa a parte il bada bum bada bum bada bum. Tutto risulta così frenetico e i pezzi sono così – diciamolo – “simili” tra loro che distinguerli uno dall’altro diventa il vero esercizio dell’ascoltatore. Tra l’altro, sono di una lunghezza imbarazzante, che raramente ho visto in altri album: su 15 tracce totali, solo una supera i 3 minuti, e ben tre restano addirittura sotto i 120 secondi. Per dire, ci sono artisti che inseriscono nei propri album degli “Interlude” più lunghi. Già faccio fatico a farmi andare bene le mini-canzoni da 2 min e un tot che vanno di moda ora, figuriamoci se vedo un timing di 1.23 min…

Più che un manifesto funk, questo lavoro è un mosaico in cui le singole tessere si mangiucchiano a vicenda, si confondono, si appiattiscono pur nel loro fragore.

Se l’intento era far sentire il calore delle notti lungo le strade di Rio, la missione è stata centrata, così come è indubbio che volenti o nolenti ci si ritrovi a ondeggiare le spalle spinti da un esercito di percussioni che non lascia scampo. Ma soprattutto, Funk Generation è un’intricata selva di folklore carioca sporchissima, sudaticcia, lussuriosa e lussureggiante di contaminazioni urban, hip-hop, elettroniche, che sono poi la vera anima dell’album.

A un certo punto, in Ahi, spunta fuori pure Sam Smith, che qui però non centra proprio nulla e, anzi, appare pure un tantino a disagio nonostante la svolta dirty degli ultimi anni.

Da segnalare la citazione di Lose My Breath delle Destiny’s Child nel brano di apertura, che non a caso si intitola Lose Ya Breath. Un tocco gustoso, va detto.

Per il resto, è un po’ tutto come in una sveltina: focoso, travolgente, senza vera passione. E una volta finito passi a fare qualcos’altro.

Il 30 agosto esce “Ritual”, l’epopea cerimoniale di Jon Hopkins

Il 30 agosto esce “Ritual”, l’epopea cerimoniale di Jon Hopkins

Devozionale, illuminante ed educativo.
Il nuovo album di Jon HopkinsRITUALin uscita il 30 agosto via Domino,è un’epopea cerimoniale di 41 minuti costruita su subwoofer cavernosi, ritmi ipnotici e un gioco melodico trascendente.
Teso, coinvolgente e infine trionfale, è il culmine di temi esplorati nel corso di 22 anni di carriera e rappresenta la controparte cinetica di Music For Psychedelic Therapy del 2021.

Un’opera unica che si sviluppa in otto capitoli, il nuovo progetto dell’artista inglese è caratterizzato da profondità e contrasti. Prendendo come ispirazione la cerimonia, la liberazione spirituale e il viaggio dell’eroe, attinge a un’energia antica e primordiale.


Parlando di RITUAL, Hopkins spiega: “Non ho idea di cosa sto facendo quando compongo. Non so da dove arriva e dove sta andando, ma non sembra che abbia importanza. So solo quando è finito. Tutto ciò che posso fare è sentire la mia strada fino alla fine, poi cercare di analizzare retrospettivamente ciò che potrebbe accadere e cercare di capire qual è il suo scopo. Ciò che è chiaro è che questo ha la struttura di un Rituale. Io so cos’è questo rituale per me, ma per voi sarà qualcosa di diverso. È importante non essere prescrittivi.”

E continua: “Sembra uno strumento, forse addirittura una macchina, per aprire portali nel mondo interiore, per sbloccare cose nascoste e sepolte. Cose che sono tenute al loro posto dalla tensione del corpo. Non sembra quindi “un album”, ma piuttosto un processo da seguire, qualcosa che lavora su noi stessi. Allo stesso tempo, sembra che racconti una storia. Forse è la storia del processo che sto attraversando e che stiamo attraversando tutti. Forse è anche la storia della creazione, della distruzione e della trascendenza. Forse è la storia dell’archetipo del viaggio dell’eroe”.

Ad anticipare l’album è la traccia RITUAL (evocation), accompagnata da un videoclip mozzafiato realizzato da Dave Bullivant in collaborazione con Hopkins, che vede l’esibizione dell’artista di corde aeree Bryony Louise Fowler.

Con la partecipazione dei collaboratori di lunga data Vylana, 7RAYS, Ishq, Clark, Emma Smith, Daisy Vatalaro e Cherif Hashizume, RITUAL è stato realizzato nella seconda metà del 2023, ma i semi iniziali sono stati gettati nel 2022, quando Hopkins è stato incaricato di comporre la musica per l’esperienza immersiva Dreamachine a Londra, creata da Collective Act in collaborazione con un team di artisti, scienziati e filosofi, nell’ambito di Unboxed: Creativity in the UK
Il progetto, che ha avuto fin dall’inizio un carattere cerimoniale, è stato il lavoro embrionale di RITUAL.

Nella realizzazione dell’album, Hopkins è partito da un brano creato per Dreamachine, originariamente concepito attraverso un progetto di ricerca e sviluppo finanziato dal governo britannico con il sostegno di EventScotland e del governo scozzese, di Creative Wales e del governo gallese, del Consiglio comunale di Belfast e dell’esecutivo dell’Irlanda del Nord.

Tracklist:

1. part i – altar
2. part ii – palace / illusion
3. part iii – transcend / lament
4. part iv – the veil
5. part v – evocation
6. part vi – solar goddess return
7. part vii – dissolution
8. part viii – nothing is lost

BITS-RECE: St. Vincent, “All Born Screaming”. Ovvero, come (non) perdersi nel bosco da soli

BITS-RECE: St. Vincent, “All Born Screaming”. Ovvero, come (non) perdersi nel bosco da soli

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una mancata di bit.

Ma quindi, chi è St. Vincent?

Arrivata al suo settimo album, quando pensavamo di averla inquadrata (per un quanto un artista che possa definirsi tale possa e voglia essere inquadrato), ecco che rilascia un disco che ci prende un po’ alla sprovvista. Sarà che lei è una che di fronte alla nuove sfide non si è mai tirata indietro, sarà che questo è il suo primi (!) album totalmente autoprodotto, ma insomma, quella che ritroviamo in queste nuove 10 tracce è una St. Vincent in un certo senso inedita.

Ci sono alcuni posti, dentro di noi, che possiamo raggiungere solo se attraversiamo il bosco da soli, per scoprire quello che il nostro cuore ha da dire”, ha dichiarato a proposito dell’album la Clark. “Suona reale perché è reale”.
E lei il bosco ha voluto proprio attraversarlo da sola, chiamando attorno a sé solo alcuni fidatissimi amici, tra cui – per fare solo due nomi – Dave Grohl, che suona le batterie nei due singoli Flea e Broken Man, Cate Le Bon, che ha coscritto Big Time Nothing e appare nella traccia di chiusura, che dà il titolo all’album.

Ovvero, All Born Screaming. E in questo titolo c’è esattamente il mood e il messaggio che Anne Erin Clark – il nome con cui la conoscono all’anagrafe – voleva lanciare.
Un album cupo, a tratti tranquillamente apocalittico, che non si premura di mettere l’ascoltare a particolare agio.
Nasciamo tutti urlando, quanto è vero, e stando alla narrazione del disco, questo sembrerebbe essere un (cattivo) presagio di quello che ci aspetta in questo mondo.

Ma quindi, com’è questo album?

Poderoso, muscolare, incendiario e piacevolmente variegato. Se l’alt-pop non è del tutto messo da parte – bellissima la traccia di apertura, Hell Is Near, che ha dispetto del titolo suona piuttosto angelica -, a colpire l’ascolto è soprattutto il graffio dell’industrial rock, che si scatena in particolare nella prima metà del disco (ma, per esempio, in Big Time Nothing fa capolino anche il funk). Più ibrida invece la seconda parte, dove l’elettronica e le divagazioni stilistiche guadagnano terreno e si tira un po’ di più il fiato.

Un po’ ovunque si respira un forte tributo pagato alla scena rock/alt-rock della seconda metà degli anni ’90. Personalmente, più le tracce andavano avanti durate l’ascolto più mi la mente mi riportava ai Garbage. Sarà per la sensualità del canto, che St. Vincent non perde mai, proprio come non la perde(va) Shirley Manson, sarà per i suoni, ma tant’è. Quando si arriva poi a Violent Times si fa davvero fatica a non fare un parallelismo con The World Is Not Enough, brano composto dai Garbage per la colonna sonora dell’omonimo film di 007 (correva l’anno 1999), di cui non manca nemmeno lo slancio orchestrale.

In Sweetest Fruit , traccia scintillante di chitarre ed elementi elettronici, c’è anche un tributo a SOPHIE, la producer scozzese tragicamente morta ad Atene nel 2021 per una caduta da un edificio, su cui era salita – pare – per osservare meglio la luna.

So Many Planets attacca con l’organo e farebbe pensare che sbuchi fuori qualcosa di gospel, invece spiazza virando sul reggae.

Infine, All Born Screaming si prende tutto il tempo necessario (6.55 minuti) per divagare in un coro. E così, l’album della “traversata nel bosco” in solitaria, chiude significativamente con un canto collettivo.

Ed è proprio qui, sul finale, che si nasconde l’ultima sorpresa architettata da St. Vincent. Come espressamente dichiarato dall’artista infatti, il lavoro dell’album è avvenuto per sottrazione, partendo da lunghe session di registrazione da cui è stato eliminato tutto il superfluo: in termini di arrangiamento ma, ovviamente, anche in termini di durata. Ecco che allora i 41:14 minuti totali non sono forse palindromi a caso, ma – e se davvero così fosse sarebbe un colpo di genio – sono l’indicazione che anche il disco può essere letto al contrario.
Se la tracklist ufficiale parte dalla solitudine per chiudere in corale e inizia con la minaccia di un imminente inferno per arrivare a cieli più sereni, la lettura “alla rovescia” tratteggerebbe un viaggio di gruppo che si fa solitario e una lenta discesa verso l’oscurità.

Ecco, quindi, chi è St. Vincent. Una che è sempre un gran piacere rincontrare. Che sia in un bosco o un nuovo album.

 

Johnny Cash: esce l’album “Songwriter” con 11 nuove tracce

Johnny Cash: esce l’album “Songwriter” con 11 nuove tracce

All’inizio del 1993, Johnny Cash registrò un album di demo nei LSI Studios di Nashville: erano canzoni che aveva scritto nel corso di vari anni.

Appena dopo quelle session, Johnny incontrò il produttore Rick Rubin e quelle registrazioni furono accantonate, mentre i due si imbarcavano nella prolifica partnership musicale che rivitalizzò la carriera dell’Uomo in Nero, una collaborazione che sarebbe durata per i restanti anni della sua vita.

Circa trent’anni dopo, John Carter Cash, figlio di Johnny e June Carter Cash, ha riscoperto quelle canzoni e ha deciso di rimettercisi al lavoro, isolando la voce e la chitarra acustica di Johnny.

JOHNNY CASH – Cash Cabin, Hendersonville, Tennessee – May 1987
© Photograph by Alan MESSER | www.alanmesser.com

Insieme al co-produttore David “Fergie” Ferguson, ha invitato un gruppo di musicisti che avevano già suonato con il padre: il chitarrista Marty Stuart e il bassista Dave Roe, oltre al batterista Pete Abbott e li ha portati al Cash Cabin, il sacro luogo di Hendersonville, nel Tennessee, dove Johnny scriveva, registrava e si rilassava, per dare nuova vita alle tracce, riportando il suono alle radici e al cuore delle canzoni.

Da questo lavoro è nato Songwriter, un disco con 11 tracce inedite composte esclusivamente da Johnny Cash, in uscita il prossimo 28 giugno.

Focalizzandosi sul songwriting di Johnny, la raccolta mette in mostra la vastità della sua scrittura, che ha sempre rappresentato la grande estensione della condizione umana: ci sono canzoni d’amore, famiglia, dolore, bellezza, salvezza spirituale, sopravvivenza, redenzione e, naturalmente, un po’ dell’umorismo spensierato per cui Johnny era famoso.

Anticipato dal primo singolo Well AlrightSongwriter sarà disponibile in CD2CD LTD Edition, vinile (in varie opzioni di colore) e digitale.

Pre-order disponibile a questo link.

“Il consiglio di papà per qualsiasi cosa, sia che si trattasse di vita o di fare musica, era sempre: segui il tuo cuore”, ha dichiarato John Carter.
E questa ovvia verità lo ha guidato in ogni fase del processo di creazione di Songwriter.

Nel momento di pensare alla back-up band due musicisti erano indispensabili: il chitarrista Marty Stuart, che suonò con Johnny nei Tennessee Three dal 1980 al 1986, e il bassista Dave Roe, che andò in tour con la band di Cash nei primi anni ’90 e poi per quasi un decennio. Il batterista Pete Abbott, già con l’Average White Band, completa il trio, insieme ad altri musicisti ospiti.

Arricchendo i demo originali con una band completamente nuova, John Carter e Fergie, insieme al tecnico Trey Call, hanno portato Johnny nell’era moderna e hanno realizzato un disco che suona come se Johnny l’avesse registrato oggi.

“Nell’approccio siamo andati dritti alle radici, per quanto riguarda il suono, e abbiamo cercato di non esaltarlo eccessivamente. – prosegue John Carter –  L’abbiamo costruito come se papà fosse nella stanza. Questo è quello che abbiamo cercato di fare. Detto tra noi, Fergie e io abbiamo trascorso migliaia di ore con papà nello studio di registrazione, quindi abbiamo cercato di comportarci come se fosse lì”.

“Penso che questo disco sia il modo in cui mi sarebbe piaciuto realizzarne uno se ne fossi mai stato responsabile, prima di Rick Rubin o dopo Jack Clement”, ha detto Fergie. “Conosco John Carter da quando era un ragazzo, quindi è stato fantastico poter finalmente lavorare con lui. Mi ha dato molta libertà d’azione, soprattutto in termini di groove e cose del genere. Siamo andati proprio nella stessa direzione. Non c’è mai stata una conversazione o un piano su un prodotto finale, si è semplicemente trattato di fare del nostro meglio”.

Songwriter sarà disponibile anche in un DOPPIO CD LTD EDITION con 12 bonus tracks nel secondo CD, registrazioni di alcuni dei suoi maggiori successi o brani più conosciuti re-incisi negli anni ottanta.

Tracklist:

  • CD/Digital
  1. Hello Out There
  2. Spotlight
  3. Drive On
  4. I Love You Tonite
  5. Have You Ever Been to Little Rock?
  6. Well Alright
  7. She Sang Sweet Baby James
  8. Poor Valley Girl
  9. Soldier Boy
  10. Sing It Pretty Sue
  11. Like A Soldier

2CD LTD Edition

  • CD 1: Songwriter
  • CD 2: Icon
  1. I Walk The Line (1988 Version)
  2. The Night Hank Williams Came To Town (with Waylon Jennings)
  3. Sixteen Tons
  4. Long Black Veil (1988 Version)
  5. Cry, Cry, Cry (1988 Version)
  6. Guess Things Happen That Way (1988 Version)
  7. Get Rhythm (1988 Version)
  8. Ring Of Fire (1988 Version)
  9. Folsom Prison Blues (1988 Version)
  10. Cat’s In The Cradle
  11. Hey Porter
  12. Wanted Man
  • Vinile

Side A

  1. Hello Out There
  2. Spotlight
  3. Drive On
  4. I Love You Tonite
  5. Have You Ever Been To Little Rock?

Side B

  1. Well Alright
  2. She Sang Sweet Baby James
  3. Poor Valley Girl
  4. Soldier Boy
  5. Sing It Pretty Sue
  6. Like A Soldier

BITS-RECE: Mazzariello, “Antisommossa”. À la guerre comme à la vie

BITS-RECE: Mazzariello, “Antisommossa”. À la guerre comme à la vie

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.

“À la guerre comme à la guerre”, recita un celebre adagio. Ovvero, prendi le cose per quel che sono. E se proprio devi andare in guerra, preparati a combattere, perché altro non potrai aspettarti.

Sia che la guerra sia reale, all’esterno, sia che tu la senta dentro.

Lo sappiamo bene, essere giovani, trovarsi a crescere, non è mai stato un gioco; e non lo è a maggior ragione in questi tempi, fatti di un futuro che si può declinare solo al condizionale. Inquietudini, paure, ossessioni, aspettative. Se questo scenario non è una guerra, come lo si può chiamare?

Sarà forse anche per questo che nel suo nuovo EP, Mazzariello ha usato un lessico lessico da combattimento, a cominciare dal titolo del disco, Antisommossa. Che di per sé è l’atteggiamento di chi lo scontro cerca di evitarlo, ma che sembra piuttosto nascondere un senso di rassegnazione verso qualcosa che non si può cambiare. In ogni caso, un termine plumbeo, “pesante”, come il mood generale del disco.

A confermarlo arrivano poi titoli come Atti estremi in luogo pubblico, Blindati, Bombe carta, infilati uno dopo l’altro nelle prime tre tracce.

In 6 brani, e in poco meno di 20 minuti, nelle canzoni di Antisommossa si fanno strada amori, frenesie, abbandoni, mancanze: un ritratto stropicciato di una generazione che cerca il proprio posto, che non sa stare ferma ma che non sa neanche dove andare.

Lo stile gira attorno a un elettro rock bello carico, un funky pop allegrotto e influenze indie, che non mancano mai, specie quando il mood si veste di tinte uggiose.

E allora, “À la guerre comme à la guerre”, dicevamo. Forse, sarebbe meglio dire “À la guerre comme à la vie”. Ma anche vicersa.

BITS-RECE: Ainé, “Buio”. Un calendario per il dolore

BITS-RECE: Ainé, “Buio”. Un calendario per il dolore

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Ovunque andrai
Portami con te
in quella lacrima
ma cosa posso fare
se tutto mi ricorda
quel disordine
(
da Lacrima – Aprile)

In psicologia si dice che per metabolizzare un lutto occorra passare attraverso cinque fasi, cinque step necessari affinché la nostra anima possa assorbire e metabolizzare davvero il dolore.

Cinque passaggi la cui durata non può però essere stabilita da altri, ma solo da noi stessi. Perché quando c’è di mezzo un dolore, soprattutto se questo è sull’anima, sono solo la nostra forza, la nostra sensibilità, il nostro mondo interiore a stabilire i tempi per cancellarlo o trasformarlo in qualcos’altro.

Sulla trasformazione del dolore, causato da una separazione, Ainé ha costruito una sorta di calendario emotivo.
Un diario interiore fatto di giorni, mesi, stagioni, da attraversare passo dopo passo
, nell’attesa che qualcosa cambiasse, lasciando fluire le emozioni, il tempo. Un movimento di sentimenti lungo un anno, che dal buio lo ha portato verso la luce, o meglio, alla consapevolezza che possa esistere un’armonia tra luce e ombra.
Poi, sopra questo calendario dell’elaborazione del dolore, ci ha costruito le sue nuove canzoni. Dodici brani, uno per ogni mese dell’anno.

Davanti allo specchio
non mi vedo
parla più forte
non ti sento
tutte le mie cattive abitudini
bussano al tempo
ma in questo momento
tu

(da Disordine – Maggio)

Tutto questo ha preso forma in Buio leggero, un concept album rilasciato in due parti.
La prima, Buio, arriva adesso con le prime cinque tracce, che – come dichiara il titolo – coprono la fase più difficile del percorso.
Si parte dalle lacrime (Lacrima – Aprile), si passa per la perdita di tutti i riferimenti e i sostegni (Disordine – Maggio), e poi ecco riaffiorare la forza che si credeva perduta, il coraggio di affrontare la realtà (Scappare – Giugno), e soprattutto ecco che si rifà sentire l’amore per sé stessi (Giganti – Luglio), fino a ritrovare l’orgoglio (Pareti – Agosto).

Siamo in piedi nella notte
Baci sulle labbra rotte
Lo rifarei mille volte
Sono qui per te

Prendi e te ne vai
Non cambiamo mai
Che cosa hai visto per scappare da me
Che cosa hai visto per tornare da me

(da Scappare – Giugno)

Ad accompagnare questo sfaccettato racconto emotivo è un’attenta alchimia di nu soul e r’n’b, altrettanto sfaccettata e caleidoscopica.

Tra atmosfere in penombra, ritmi accomodanti e venature black, ogni brano è occasione per una diversa declinazione sonora: si va così dall’abbraccio soffuso di Lacrima, di stampo r’n’b, all’intimità acustica di Disordine, mentre la cadenze di Scappare attingono direttamente dall’hip hop old school. Il carattere più morbido di Giganti, a cui prendono parte anche Altea e Lauryyn, riduce gli arrangiamenti strumentali per lasciare più spazio agli intrecci vocali di matrice soul.
A chiudere la prima parte dell’album è Pareti, in cui tornano protagonisti i beat dell’hop hop.

Questa volta ho detto no
Non te lo permetterò
Di fermare le mie vibes
Puoi provare a prendermi
Togliermi il sorriso
Non te lo permetterò

(da Pareti – Agosto)

 

“Non c’è più tempo”: le angosce e le paure dei 30 anni nel primo album di Michelangelo Vood

“Non c’è più tempo”: le angosce e le paure dei 30 anni nel primo album di Michelangelo Vood

Anticipato dai singoli 2000 anni, Due morsi e Scemo, esce venerdì 10 maggio per Carosello Records Non c’è più tempo, il primo album di inediti di Michelangelo Vood.

L’album rappresenta una sorta di taccuino un po’ consumato e pasticciato, in cui Michelangelo racchiude e racconta il suo punto di vista e le sue riflessioni su cosa significa e cosa comporta avere 30 anni oggi.

«Tutti i giorni penso che io della vita non ci ho capito niente. Alla mia età i miei genitori avevano già una casa, un lavoro stabile e due figli, io invece sto a Milano in affitto con altre 3 persone, ho un lavoro precario e a malapena potrei prendermi cura di un cane, figurati di un figlio. Nella testa sento un orologio che non si ferma mai, mi dice che non c’è più tempo, che devo muovermi se non voglio rimanere un fallito per tutta la vita. E io mi muovo, ma non so dove sto andando. Paura, amore, futuro, solitudine, sacrifici, rassegnazione, speranza, metropoli, genitori, amicizie, provincia, delusione, fame, treni, scelte, dipendenze, fallimenti, insonnia, verità. Ho messo tutto questo nel mio primo disco»

In mezzo a frammenti di vita ordinaria la sua penna scrive fitta, cancella, mette punti, ricomincia, con un’urgenza espressiva che manifesta la necessità di condividere ciò che prova con chi può e ha voglia di capirlo.
I 30 anni significano consapevolezza, domande, ancora poche risposte, significano impegno, volontà, rimpianti, provare a  perdonarsi, un continuo tentativo di accettazione e di capire quale sia il nostro posto nel mondo.

E significano preoccupazioni: c’è il costante pensiero di non essere più in tempo per realizzare ciò che si è sempre sognato.
Questo provoca frustrazione, mina l’autostima, ci fa sentire falliti talvolta. Ci sono situazioni in cui ci sembra impossibile cambiare il nostro stile di vita ma esiste sempre una via d’uscita, una strada “nostra” da percorrere.
I 30 anni sono il momento in cui è ancora tutto in discussione, e finché è così, paradossalmente, la mancanza di certezze può rappresentare l’opportunità giusta di tracciare percorsi alternativi per realizzare ciò che si vuole e in cui si crede.

L’album è disponibile in pre-save e pre-order (https://orcd.co/michelangelovood-noncepiutempo).

Michelangelo Vood, nome d’arte di Michelangelo Paolino, è un cantautore originario della Basilicata.
Vood non è solo il cognome della madre, alla quale egli dedica il suo percorso artistico, ma anche un richiamo alla parola “wood” (bosco), omaggio alla natura selvaggia e incontaminata della sua terra. Dopo il trasferimento a Milano, città in cui la mattina insegna italiano e storia agli studenti delle scuole superiori, nel 2019 pubblica “Ruggine”, il suo primo singolo autoprodotto. Nello stesso anno vince il concorso per autori Genova per voi, indetto da Universal Music Publishing. Nel 2020 pubblica da indipendente il suo EP di debutto “Rio nero”.
Nel 2022 firma con Carosello Records e pubblica il singolo “Souvenir”, seguito da “Sotto il diluvio (nessuno tranne te)” .
Inaugura il 2023 con il brano “I love you” e prosegue a distanza di qualche mese con il singolo “Senza mani”. L’estate del 2023 è l’occasione per portare live nei principali festival italiani le canzoni che ha scritto in questi anni.

BITS-RECE: faccianuvola, “le stelle il sole l’arcobaleno”. Come se a Narnia suonassero l’elettronica

BITS-RECE: faccianuvola, “le stelle il sole l’arcobaleno”. Come se a Narnia suonassero l’elettronica

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Se siete appassionati di fantasy, conoscerete probabilmente Il leone, la strega e l’armadio, il più famoso romanzo della saga de Le Cronache di Narnia di C.S. Lewis.
L’armadio a cui fa riferimento il titolo è solo all’apparenza un semplice guardaroba: in realtà è una porta che mette in comunicazione il mondo reale con un mondo fantastico, quello di Narnia appunto.

Ecco, il paragone con il romanzo calza alla perfezione per descrivere l’album d’esordio di faccianuvola, giovane producer di Sondrio, che dopo la pubblicazione di alcuni singoli arriva ora al suo primo progetto esteso. E il paragone non regge solo per via del parallelismo del titolo del disco, le stelle il sole l’arcobaleno – stilizzato in le stelle* il sole; l’arcobaleno)) – ma anche, e soprattutto, perché, come nel romanzo l’armadio era un varco per un altro mondo, anche questo disco sembra essere una porta per un mondo di fantasia.

Un mondo fatto di giochi elettronici, tricks e triggers sintetici, solletichi sonori, pitch vocali; un universo coloratissimo che l’artista si è creato precisamente a sua misura, nel quale noia e grigiore sembrano essere banditi.
Varcata la soglia del suo territorio, come il fauno Tumnus di Narnia, faccianuvola ci accoglie e ci prende per mano saltellando da una traccia all’altra per farci esplorare un immaginario sonoro caleidoscopico e frizzante, alla ricerca della felicità. Qualunque sia lo stato d’animo con cui ci si approccia a questo disco, è praticamente impossibile non lasciarsi sfuggire un sorriso, anche se la tentazione più forte sarà quella di seguire con il corpo le raffiche di bpm.

le stelle il sole l’arcobaleno è il frutto di esperimenti in libertà sulla consolle: ascoltandolo non possono tornare alla memoria le colonne sonore dei videogiochi degli anni ’80 e ’90, ma non è difficile cogliere anche influenze pop, indie o urban. Su tutto, domina comunque l’elettronica, la vera protagonista di questa storia.

Sarebbe però un errore ridurre questo disco a un semplice divertissiment da cameretta.

Per quanto possa sembrare impossibile, l’album è nato da un periodo non particolarmente “luminoso”, che lo stesso faccianuvola definisce “di cambiamenti e perdizione, come il ricordo dei primi momenti vissuti a Milano, lontano dalla sua realtà e dagli affetti.
L’amore, la lontananza, la ricerca di sé: sono tanti i sentimenti presenti nel disco, non di rado velati di una certa malinconia. L’artista riesce però sempre ad accarezzarli tutti con delicatezza ed estrema sensibilità, trasportandoli in una dimensione onirica, lasciando comunque sempre posto alla ricerca della bellezza.

Inoltre, la scrittura non è priva di sorprese e “easter eggs”.
Non mancano infatti riferimenti letterari, classici, cinematografici: si inizia con un rimando a John Donne in uragani, per passare al poeta latino Lucrezio in di carta mille baci, fino al cortometraggio d’animazione Il riccio nella nebbia di Jurij Norstein che ha ispirato policromia/felicità.

E cercando bene tra le tracce, emerge quello che è forse il messaggio più importante del disco.
È racchiuso nella prima strofa di Giove: “Ho perso la parte migliore di me / L’avrò lasciata su Giove, su Venere / In un posacenere / Non ci vuoi credere / Mi va poi bene così / Sono partito per un’altra galassia / E non ti incontrerò più / E non ci penserò più a te / A quei tuoi lontani torrenti di montagna / E Cassiopea”.
Quante volte ci siamo persi, smarriti? Quante volte abbiamo perso la fiducia, il focus su chi siamo, e abbiamo addirittura pensato che sarebbe stato impossibile ritrovarci?

Ecco, molto spesso la risposta è là fuori, oltre la porta di un mondo immaginario: basta un breve viaggio nella fantasia per sentirsi di nuovo a casa.