Tra sacerdoti e impiegati delle Poste, tutti pazzi… per Rovazzi!

L’estate sarà anche finita, ma la fregola per i tormentoni continua alla grande!
Mentre Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi, trionfatore assoluto delle vacanze 2016, staziona ancora altissima nelle classifiche di streaming e download, c’è chi ha ben pensato di prendere il brano del giovane pupillo di Fedez e J Ax e farne una versione diciamo così… alternativa.

Come per esempio gli impiegati dell’ufficio postale Napoli 60, che hanno riletto la canzone trasformandola in Andiamo a lavorare, infilando nei versi le tragicomiche esperienze quotidiane vissute dai lavoratori che ogni giorni devono vedersela con file di utenti scalpitanti agli sportelli. Il tutto naturalmente riproponendo anche l’ormai iconico scrollamento di spalle nel ritornello, anche questo con risultati… alternativi. 

Ma gli impiegati napoletani non sono stati gli unici a rileggere la canzone: in mezzo alle decine di parodie, già da agosto circola per il web Ci andiamo a confessare?, rilettura in chiave cristiana del brano fatta da don Roberto Fiscer, sacerdote 38enne, viceparroco nella chiesa di San Martino d’Albaro di Genova, non nuovo a questo tipo di esperimenti: sotto alla sua “lente” sono passati infatti anche Sofia di Alvaro Soler, ribattezzata Eucaristia, e Maria Salvador di J AX, O Gesù salvator.

Che l'”effetto Sister Act” funzioni davvero?

Se Lady Gaga abbandona la festa pop…

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Immaginatevi un palazzo con grandissimi saloni affrescati, uno di quei palazzi che di solito si usano nei film, insomma. E immaginate che dentro ci sia una grande festa, di quelle con centinaia di ospiti, musica, buffet presi d’assalto da mani bramose che sbucano da ogni lato, camerieri che fanno avanti e indietro con enormi vassoi pieni di bicchieri con ogni sorta di bevanda.

È una festa magnifica, di quelle proprio fighe, dove per entrare ti chiedono non solo l’invito, ma anche di esibire un certo dress code, e non è ancora detto che ti facciano passare. Un evento a cui tutti vorrebbero partecipare. Immaginate che questa sia la grande festa del pop, sì, proprio la musica pop, un gigantesco ritrovo di tutte le piccole e grandi star dello showbiz riunite a celebrare il più commestibile dei generi musicali, quello che invade le classifiche e intasa i canali radio.

Immaginatevi di essere davanti a quel palazzo per sbirciare un po’ chi arriva e di vedere, attraverso le sagome che vanno verso il portone, una ragazza che invece se ne sta andando. Esce, va via, torna a casa. È presto, la festa non accenna a finire, anzi, eppure lei saluta tutti e va verso il parcheggio.

Quella ragazza è Lady Gaga.

 

Perdonate l’impiego di questa metafora alambiccata, ma volevo cercare di spiegare al meglio la strada che, a mio modesto parere, Stefani Germanotta sta prendendo. 

Lady Gaga si sta allontanando dal pop, che detta così può sembrare un’indicibile tragedia o un’epocale minchiata, ma ora mi spiego.

Per anni Lady Gaga è stata abbondantemente nutrita dal pop, ci ha sguazzato dentro, ricevendone una fama e un successo superiori forse a ogni migliore aspettativa: quando ha esordito, nel 2008, i suoi primi due singoli Just Dance e Poker Face hanno entrambi superato i 7 milioni di copie vendute solo in America, poi nel 2009 Bad Romance ha dato al pop una sberla che da anni non riceveva più e il video è stato il primo a scuotere YouTube, prima che Youtube diventasse quello che è oggi. 

Se poi fate un giro nel quartiere e a un qualsiasi passante fate il nome di Lady Gaga, probabilmente vi risponderà che è quella con i costumi strani, quella vestita di bistecche, quella che cammina sui trampoli. Cioè, anche se non conosce le sue canzoni, la gente – tutta la gente – sa chi è Lady Gaga, perché Lady Gaga ha saputo incarnare, per un certo periodo, l’essenza stessa del pop, ovvero la capacità di arrivare dappertutto, e non necessariamente con la musica.

La stessa cosa potreste dirla con altrettanta sicurezza di Katy Perry o Rihanna?

Tra decine di aspiranti dive dello starsystem, Lady Gaga è emersa, si è fatta notare, in un mare di chiacchiericcio indistinto, lei è quella che ha urlato più forte per farsi sentire. E c’è riuscita. È stata la prima a cavalcare il web e a utilizzarlo in tutta la sua potenzialità come mezzo di comunicazione, ha costruito una delle prime fanbase e le ha dato un nome, i little monsters, è stata tra gli artisti che hanno ridato slancio ai videoclip, dopo che per anni se n’era perso l’interesse. 

Ma soprattutto, Lady Gaga ha abituato il suo pubblico all’eccesso, all’andare sempre oltre, con il rischio talvolta di non esserne lei per prima all’altezza. Quando nella primavera del 2011 è uscito Born This Way, il gaga-mondo ha raggiunto sotto tutti i punti di vista il culmine, con una presenza in scena talmente massiccia che ha reso il suo personaggio quasi indigesto, outfit assurdi, spesso imbarazzanti, esibizioni forzate. Tutto pur di esserci, ovunque. Fino al 2012, quando si è chiusa l’era Born This Way ed è iniziato qualcos’altro.

Quel qualcos’altro avrebbe portato ad Artpop, pubblicato nell’autunno del 2013.
Le premesse per un altro terremoto c’erano tutte, la collaborazione con Jeff Koons e Marina Abramović, il lancio dell’app, l’esibizione sull’abito volante. Eppure…
Eppure ci siamo tutti dovuti rendere conto che qualcosa era cambiato. Commercialmente parlando, quel disco è stato un mezzo fiasco, il primo vero fiasco di Gaga, e non senza motivo: quella musica non era ciò che il pubblico si aspettava. Se non è tracollato del tutto è perché i fan l’hanno comprato e se lo sono fatto piacere, ma il resto della gente l’ha evitato. D’altronde, chi dal pop vuole immediatezza e facilità non poteva non trovarsi disorientato davanti a quelle canzoni così slegate, caotiche e rumorose. Ecco, penso che sia da lì che Lady Gaga ha iniziato il suo lento allontanamento dal pop, proponendo qualcosa che forse appagava molto lei, ma non si incontrava con le aspettative generali.
E questo valeva per la musica come per l’immagine, perché si è sempre più capito che il tempo delle mascherate era finito. Nel bene e nel male.
Quando lo scorso febbraio ha ritirato il Golden Globe per la sua performance in American Horror Story, con quella messa in piega pareva sua madre. Lei, che 5 anni prima era andata a farsi cucire l’abito dal macellaio, si presentava agli eventi come una gran dama.

Per non parlare dell’operazione jazzistica con Tony Bennett, condensata in Cheek To Cheek: grande stoffa, ottima attitudine, perfetta combinazione di voci e generazioni a confronto, critica entusiasta, ma il mondo del pop era ancora più lontano. Certo, quell’operazione i suoi frutti li ha portati, perché lo zoccolo duro dei little monsters ha continuato a seguire la sua stella e in quel disco ha riscoperto una fetta di musica forse ignota, ma tra la Gaga di Bad Romance e quella della cover di Anything Goes c’è di mezzo una foresta nera. Se da una parte Madonna chiamava a duettare la trentenne Nicki Minaj per cercare l’attenzione dei teenager, Gaga prendeva per mano nonno Tony, che ha gloriosamente superato le 80 primavere, e anziché darsi al reggaeton si buttava sullo swing.

Adesso è arrivata l’ora del nuovo album, Joanne, atteso per il 21 ottobre: si sa che ci ha lavorato tanto Mark Ronson e che ci saranno collaborazioni anche con Beck e Florence Welch. Cosa ci dobbiamo attendere, francamente, non lo so, e ho un po’ paura di scoprirlo. Il primo assaggio di Perfect Illusion non è certo stato esaltante: una canzone senza spessore, musicalmente piatta, che appare più un pretesto per parlare della fine della storia con il fidanzato che non il vero ritorno di una delle più grandi popstar del decennio. A detta sua, la scelta di usarla come singolo di lancio è stata operata dalla casa discografica, specificando inoltre che il sound dell’album sarà piuttosto diverso. Che a voler essere malpensanti è un modo diplomatico per prendere le distanze in caso le cose si mettano male.

Anche il video sembra indicare intenzioni assai diverse dal passato: un simil-rave in un deserto californiano, lei che afferra il microfono, canta, balla, si dimena, e tutt’intorno una folla invasata in un montaggio da mal di mare. Stop.
I tempi dei mini-film di Paparazzi, Telephone e Alejandro sembrano risalire a millenni addietro. Anzi, sembrano appartenere a qualcun altro.
lady_gaga_joanneIl popolo giù in strada chiedeva una bomba pop, qualcosa che lo mandasse fuori di testa come fece a suo tempo Bad Romance, ma dall’alto del suo appartamento con vista su Central Park, Gaga ha optato per sonorità simil-rock e una canzoncina da prendere e mettere da parte dopo il terzo ascolto. Sono pronto a scommettere di non essere il solo ad aver storto il naso davanti al nuovo singolo.

Lady Gaga è un’artista di talento, di grandissimo talento, e mi pare indiscutibile che possa togliersi degli sfizi che molti colleghi possono solo sognare, ma davanti a un percorso musicale così indefinito non posso che chiedermi dove voglia andare a parare la Germanotta, e se sia davvero consapevole del grande rischio a cui sta andando incontro. Che abbia usato il pop dei primi anni per guadagnarsi celebrità e ora inizi a fare di testa sua? Possibile. Anzi, quasi sicuro.

Di solito in questi casi si usano frasi del tipo “lei vuole fare musica più impegnata, non vuole restare nel pop banale e facile”: a parte il fatto che ci sono infiniti modi di fare pop e di farlo bene, riconosco che sia legittimo cambiare strada, ed è ancora più legittimo alzare l’asticella per dimostrare di essere cresciuti, inerpicarsi per sentieri meno battuti, ma egoisticamente a me la Lady Gaga del periodo iper-pop, quella dei vari po-po-po, ma-ma-ma, Ale-Alejandro, inizia a mancare molto. E credo anche a molti dei suoi più fedeli seguaci, anche se forse non lo ammetteranno nemmeno sotto tortura.

Aspetterò allora con ansia l’uscita di Joanne, sperando in un miracolo che difficilmente arriverà.

Poi ho già sentito parlare di un nuovo album con Tony Bennett, forse il prossimo anno.

Nel frattempo, a palazzo, la festa del pop va avanti, e io vorrei tanto capire dove sta andando Lady Gaga…

Pietà per Britney Spears

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La bionda con le extension più famose del pianeta è da pochi giorni tornata con l’ennesimo album, Glory, e se dovessimo basarci sulla sua rilevanza musicale il discorso potrebbe chiudersi qui. A partire dal primo singolo, Make Me, fino al l’esibizione ai VMA, quello che ci resta di Britney è un ricordo, un ricordo di quello che è stata. Parliamoci chiaramente, l’ultima cosa musicalmente interessante che la ragazza è riuscita regalarci risale forse ai tempi di Blackout, e di anni ne sono passati un po’. Per non parlare del fatto che i fasti di …. Baby One More Time o della tutina rossa in latex di Oops! I Did It Again sembrano appartenere a un’altra era geologica.

Da troppi anni ormai Britney si trascina dietro il personaggio che è stata negli anni ’90, quando irruppe sulle scene probabilmente come la prima vera erede di Madonna: d’altronde, tra la prima comparsa pubblica della Ciccone e i primi ancheggiamenti di Britney vestita di scolaretta nel suo video d’esordio erano trascorsi più di 15 anni, un intervallo fisiologico per permettere a Madonna di guadagnarsi lo status di maestra del pop.

Era la fine degli anni ’90 e la giovanissima Spears macinava milioni e milioni di copie, come la prima vera icona pop dell’epoca post-Madonna. C’erano solo lei e l’Aguilera. La storia ci avrebbe poi insegnato che l’epoca delle puttan pop non era che all’inizio. A sancire il riconoscimento ufficiale di questa “adozione”, l’esibizione ai VMA del 2003, entrata di diritto negli annali, con lo sposalizio profano tra Madonna e le due virginali fanciulle, collaudato dalla doppia slinguata in salsa lesbo.
A quel tempo Britney era ancora Britney e nulla pareva fermarla.

Poi sono arrivati i problemi, le crisi private prima che professionali, e anche la sua carriera ha iniziato a risentirne. Quante volte ci siamo sentiti dire che “Britney sta tornando alla grande”, che il colpo di testa di quella rasatura dei capelli immortalata dai giornali e di quell’ombrello scagliato sul fotografo non erano altro che ricordi?

La verità è che da quel momento Britney è sembrata sempre meno interessata alla sua musica, i dischi che faceva uscire avevano il sapore di prodotti arraffati in qualche modo per giustificare la sua presenza nello showbiz, ma della ragazzina rivoluzionaria degli inizi non c’era più nulla, nessuna spinta, nessuna passione. Ha smesso lei per prima di crederci. Il mondo della musica andava avanti, Britney pareva abitare in una bolla a parte, da cui ogni tanto usciva a prendere aria. Sull’imbarazzante questione dei playback non voglio nemmeno infierire: la Spears non è mai stata una grande voce, non ne ha mai fatto mistero e i suoi archetti indossati solo per scena erano quasi diventati un marchio di fabbrica. Certo però che veniva un po’ da ridere a guardarla.

Ma arriviamo a Glory, alla sua copertina visibilmente (ma non volutamente?) plasticosa, e alle sue canzoncine -ine -ine. Meglio di Britney Jean, ha sentenziato la parte autorevole della critica, e ci mancherebbe, aggiungo io!!
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Il nuovo album non aggiunge e non toglie niente a quanto già non sapevamo di Britney, è un disco che può essere tranquillamente lasciato sugli scaffali dei negozi, tanto il mese prossimo nessuno se ne ricorderà. Tranne i fan.

Ecco, i fan di Britney: se c’è una cosa che in questi anni mi ha sempre colpito, è stato il loro amore incondizionato, la loro presenza assidua, quasi come un manipolo di missionari impegnati nel proprio compito di portare salvezza alla loro beniamina. Non importava se e cosa Britney facesse, se lei c’era loro erano con lei, pronti al suo fianco a sostenerla. E così è stato per l’uscita di Glory e per la performance ai VMA, in total playback, con scossoni di chioma e glutei alzati. E chissenefrega se Beyoncé se l’è mangiata con un mini show di un quarto d’ora, così come Rihanna: i brittini hanno speso lacrime e preghiere per lei, Britney.

E in fondo, nonostante la consapevolezza che la Spears sia oggi l’emblema del vuoto cosmico in musica, non riesco a detestarla quanto Kim Kardashan: c’è qualcosa in lei che me la fa amare, o almeno mi fa provare uno strano affetto, quasi a proteggerla per i momenti bui del passato, al di là del fatto che pubblichi nuova musica o no.
Se oggi si vuole bene a Britney lo si fa per quello che ci ha dato in passato e forse perché lei è un po’ il nostro specchio, il riflesso di chi ha conosciuto la gloria – quella vera -, è caduto, si è rialzato, ma con il disincanto che di superumani a questo mondo non ce ne sono. Si tira a campare fra un frappucino take away, i figli da accompagnare a scuola e, ogni tanto, un disco da far uscire.
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Quindi vi prego, se il vostro istinto è quello di scagliarvi sul suo playback, sulle sue canzoni usa e getta, sui suoi atteggiamenti svogliati e da ma-che-ci-faccio-qui agli eventi, pensateci un momento, e abbiate pietà di lei.

Che lo vogliate o no, Britney Spears siamo un po’ tutti noi.

Brooke Candy. La più cattiva delle popstar

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Per questione di sintesi, nel titolo di questo articolo ho scritto “popstar”, ma il mondo di Brooke Candy ruota in realtà attorno tanto al pop quanto all’hip hop, e non è raro leggere per lei la definizione di “rapper”. Resta comunque il fatto che il suo è il volto più perverso e più cattivo tra quelli attualmente in circolazione nel pop e nell’hip hop: un volto sfrontato, provocatorio e provocante, distorto, assolutamente affascinante.

Pensate alla Lady Gaga di qualche anno fa (diciamo il periodo Bad Romance/Alejandro), prima cioè che decidesse di vestire i panni di dama del jazz: outfit estremi, e un deciso gusto per il “non bello”, il blasfemo, persino il macabro (vi ricordate i teschi, i litri di sangue finto, l’abito di carne cruda?). Ecco, pensate a quella Lady Gaga e poi ripensatela al quadrato o al cubo, e avrete un’idea più o meno precisa di quello che è Brooke Candy.
Probabilmente, se non fosse arrivata Lady Gaga a buttare sul pop quella secchiata di vernice color petrolio, oggi non avremmo Brooke Candy (così come non avremmo mai avuto Gaga se non ci fosse stata prima Madonna, che a sua volta deve molto a icone come Debbie Harry, e via così all’indietro, con buona pace di tutti): questo non perché Lady Gaga abbia davvero inventato qualcosa, ma è stato il personaggio che è riuscito a dare enorme visibilità a certe scelte di stile.
Ecco, la giovane Brooke si è messa su questa strada: nonostante il confronto inevitabile, pare però che non ami essere accostata alla Germanotta, ma piuttosto ha dichiarato di ispirarsi a un’altra diva del music biz, Lil’ Kim.

Nata a Oxnard, in California, nel 1989, Brooke è figlia del direttore finanziario della rivista a tinte porno Hustler. I primi passi nella musica li ha mossi nel 2012, quando i suoi primi video sono apparsi su Youtube: fra questi c’era Das Me, che la vedeva in versione cyber con capelli fucsia e mega zatteroni. Sono arrivate le prime collaborazioni (Charlie XCX, Grimes), le prime citazioni su magazine di musica e di moda e il suo nome ha iniziato a girare.

Il primo punto di svolta è però arrivato nel 2014, quando Brooke ha fatto il colpaccio aggiudicandosi la regia dell’arcipatinato Steven Klein per il video di Opulence, il singolo – firmato anche da Sia e prodotto da Diplo – che avrebbe dato il titolo al primo EP: scenario violentissimo, atmosfere claustrofobiche, distopiche, visionarie, un’orgia di delirio e sesso. In poche hanno osato così tanto, Brooke Candy si è spinta ben al di là delle bistecche crude di Gaga, ci ha mostrato il lato più malato e perverso a cui può arrivare il pop.
Ad oggi il video conta solo 2 milioni di visualizzazioni, il disco non ha lasciato segno in classifica e il nome di Brooke Candy è rimasto nel limbo dell’underground o poco più.
Forse ci si aspettava un altro riscontro…

La ragazza non si è comunque fermata, ma anzi si è legata sempre di più al mondo del fashion, seguendo la stessa ricetta delle colleghe più celebri, ma facendo le cose a modo suo: come aveva fatto Lady Gaga nel periodo Born This Way, ha lavorato a stretto contatto con lo stylist Nicola Formichetti, un altro a cui piacciono molto le bizzarrie noir, e si è fatta splendidamente immortalare – tra gli altri – da Klein, Terry Richardson, Richard Burbridge, in servizi fotografici che difficilmente hanno lasciato indifferenti. Tra il 2015 e il 2016 ha collaborato con il colosso M.A.C. per lanciare sul mercato due linee di cosmetici.
Non bisogna certo essere Madonna per sapere quanto sia fondamentale per una popstar vendere bene la propria immagine: Brooke Candy lo fa portando il gioco all’estremo, con un’immagine potente e sfacciata, eppure bellissima. Restando perfettamente a metà strada tra pop e hip hop, Brooke li concentra anche nel suo universo visivo: più patinata di Lil’ Kim, più cattiva di Lady Gaga, molto più sporca di Nicki Minaj, ancora più eccessiva di Rihanna. 

Se volete fidanzarvi con lei, sappiate che si definisce “pansessuale”, mentre se entrerete a far parte della schiera dei suoi fan, sarete dei #FagMob.

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Nell’ultimo anno Brooke Candy ha pubblicato diversi singoli (quasi tutti accompagnati dai relativi video), molti dei quali quali finiranno probabilmente in The Daddy Issues, il suo primo album, che dovrebbe arrivare entro la fine del 2016: uscirà per la Sony e si parla di una produzione curatissima, in cui è stata coinvolta anche Sia.

Insomma, sembra arrivato anche per lei il momento del grande salto.
E io lo aspetto, con una certa impazienza.

Se Sister Act ti fa capire che stai invecchiando

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Se c’è un potere che il cinema possiede da sempre incontrastato è quello di bloccare il tempo, congelare l’orologio in un preciso momento: capita allora che certi attori, che magari non vediamo spessissimo in giro, conquistano fama imperitura per un solo ruolo e i loro volti e i loro corpi restano nell’immaginario collettivo di noi spettatori gli stessi di quell’esatto istante, proprio con quelle voci e quei vestiti addosso.

L’incantesimo è talmente efficace che siamo convinti che, magari a distanza di 20 o 30 anni dalla pellicola che li ha trasformati in “vips”, potremo ritrovarceli davanti ancora così, proprio come li ricordavamo nei panni di quel personaggio che tanto ci era piaciuto. Salvo poi rivederli in TV o su qualche giornale inevitabilmente invecchiati. E allora sì, ti rendi conto che il tempo è inserorabile e non risparmia nessuno.
Non è che invecchiare sia una colpa, ben inteso, è solo che se a invecchiare sei tu o il tuo vicino di pianerottolo è normale e quasi non te ne accorgi, se succede alle stelle del piccolo e grande schermo la cosa un po’ ci deprime, non neghiamolo.

Tutto questo per arrivare al punto: qualche sera fa stavo girovagando per il web e, non so come e perché, mi sono ritrovato a spulciare su Wikipedia il cast di Sister Act.
Il film l’abbiamo, credo, visto tutti: Deloris Van Cartier, cantante di incerta carriera a Las Vegas, è testimone involontaria di un delitto compiuto dall’amante gangster Vince La Rocca ed è perciò costretta a rifugiarsi sotto copertura in un convento di suore. Qui inizia a sovvertire le regole e crea scompiglio tra le consorelle, soprattutto dopo essere stata nominata direttrice del coro, trasformando i canti liturgici in performance rock/blues. Il boss mafioso riesce però a scovarla, proprio alla vigila della visita del papa in parrocchia, ma grazie all’aiuto delle altre suore – ormai solidali compagne di avventure – tutto si risolve per il meglio e Deloris/suor Maria Claretta può tornare alla sua vita.

Commedia spassosissima, successo garantito a ogni replica televisiva, con una colonna sonora favolosa e ormai diventata un classicone.
Bene, il film è datato 1992, che nella mia mente di trentenne è come dire la scorsa settimana, ma sul calendario sono ben… 24 anni. Ventiquattro anni. VENTIQUATTRO.
Cioè, per intenderci, nel ’92 Justin Bieber non era ancora nato, Lady Gaga stava imparando a scrivere, la Pausini era ancora una semplice interprete di piano bar a Solarolo, il Grande Fratello era conosciuto ancora solo per 1984 di Orwell e il termine “smartphone” non era probabilmente ancora stato pronunciato.

Quello che però mi ha colpito e rattristato davvero (molto…) è stato scoprire che molte delle attrici del film non ci sono più. Al di là di Whoopi Goldberg, Maggie Smith (la Madre superiora), Kathy Ann Najimy (la prosperosa suor Maria Patrizia) e Wendy Makkena (la novizia suor Maria Roberta), moltissime delle altre attrici sono morte: Mary Wickes (la fantastica suor Maria Lazzara), Rose Parenti (suor Alma, quella con l’apparecchio acustico che suonava il piano), Ellen Albertini Dow, Carmen Margarita Zapata, Susan Johnson, Ruth Kobart, Susan Brown Browning, Edith Diaz.

 

Se oggi, per caso, volessero realizzare un terzo episodio di Sister Act (il secondo è arrivato nel 1994, con il cast praticamente al completo), gli spalti del coro sarebbero semivuoti, o riempiti da altre attrici.

Normale, il tempo passa, e le allegre “sorelle” erano già in là con gli anni all’epoca delle riprese, ma – per allacciarmi a quello che dicevo all’inizio – nella mia testa loro si erano fermate lì, pimpanti e sempre pronte a scatenarsi sull’altare.
Ma così non è…

E’ il meraviglioso regalo del cinema, e insieme il suo inganno.
Se il tempo va, l’arte è l’unico mezzo a nostra disposizione per fermarlo.
Sister Act, nel suo piccolo, ne è stata per me la prova.

E allora via questo velo di malinconia e 3… 2… 1… Play!
Haaaa…..lle…..luuuuu…..jaaaa!!!!

Da JLO ad Adele: il folle karaoke di James Corden

Da JLO ad Adele: il folle karaoke di James Corden

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Si intitola Carpool Karaoke e se non l’avete ancora visto dovete assolutamente rimediare perché è una delle cose più assurde e irresistibili che ci siano in giro.

Di cosa si tratta? Molto semplice: il Carpool Karaoke è un segmento del The Late Late Show with James Corden, programma trasmesso dal 2015 sulla CBS e condotto dall’inglese James Corden.
In ogni episodio, Corden ospita a bordo della propria auto una star della musica e insieme iniziano a girare con la radio a palla facendo karaoke. Un po’ quello che almeno una volta abbiamo fatto tutti in auto, solo anziché avere di fianco l’amico dei tempi delle medie o la prozia ottantenne, James Corden si ritrova a cantare con Jennifer Lopez, Mariah Carey, Gwen Stefani, Chris Martin, Elton John, Sia, i Red Hot Chili Peppers, Stevie Wonder o Adele, e anziché girare per le strade di Rozzano o Tor Pignattara lo fa per le vie di Los Angeles.

Tra musica e chiacchiere, il risultato è qualcosa di semplicemente spassoso.
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Prendete per esempio l’episodio con Jennifer Lopez (il mio preferito…), quando Corden si cimenta nelle mosse sexy di Waiting For Tonight, o quando invia un messaggio “hot” a un contatto della rubrica telefonica di JLo.

Oppure l’episodio con Gwen Stefani, George Clooney e Julia Roberts, alle prese con We Are The Champions.

O la lotta nel prato di Corden con Anthony Kiedis dei RHCP e la loro sfida a colpi di addominali…

Prendi una star, portala in macchina, accendi la radio… e lo spettacolo è servito!

… e intanto io sogno già anche gli episodi con Madonna e Lady Gaga…

Dai James, portale a fare un giro!

Roma-Bangkok… un anno dopo

1438210297_Giusy-Baby-K-evidenza-1280x62819 giugno 2015.

Estate alle porte, scuole finite, studenti in libertà, un caldo record che di lì a poche settimane avrebbe fatto boccheggiare l’intera penisola.

All’estate mancava solo una cosa, un elemento che – a dire il vero – latitava ormai da parecchi anni: il tormentone disco-radiofonico. Ma qualcosa, quel giorno, sarebbe successo. Da casa Sony infatti usciva quello che nel giro di un paio di mesi sarebbe diventato il più grande successo discografico italiano degli ultimi anni.
A dar vita al progetto era un’accoppiata del tutto inedita e forse un po’ bislacca, almeno a prima vista, Baby K e Giusy Ferreri: rapper-femmina alpha la prima, interprete dall’inconfondibile timbro a singhiozzo la seconda. Il brano era, ovviamente, Roma-Bangkok.

Un po’ dancehall, un po’ reggaeton, molto pop, la canzone era la quintessenza della voglia di svagare, viaggiare da Milano fino ad Hong Kong, passando per Londra da Roma fino a Bangkok. Un perfetto brano estivo come molti altri ne sono usciti ogni anno, ma qui la ricetta deve aver avuto un ingrediente misterioso.

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Dopo i primi giorni di fisiologico rodaggio, Roma-Bangkok ha infatti iniziato una lenta, inesorabile salita nelle classifiche di ogni tipo: dalle discoteche, ai network radiofonici, passando per i download, i canali streaming e i video on line, non c’è stato angolo d’Italia in cui la canzone non abbia risuonato almeno una volta.

Un successo forse inaspettato anche per le dirette interessate: mettere insieme Baby K e Giusy Ferreri era infatti una scommessa, una di quelle roventi, perché entrambe avevano alle spalle due esperienze discografiche accolte tiepidamente (rispettivamente gli album Una seria e L’attesa), e avevano perciò bisogno di un rilancio “col botto”.

Concentrata in meno di 3 minuti e scritta da Baby K insieme a Federica Abbate, Takagi e Mr. Ketra, Roma-Bangkok era lì, pronta per uscire, l’occasione giusta per lanciare una bomba. Come in effetti è stato.
Passavano le settimane, ma l’entusiasmo per il brano non accennava a diminuire: è arrivato settembre, i ragazzi sono tornati sui banchi, l’estate si è sciolta, ma Roma-Bangkok era ancora lì, altissima nelle chart, e dava filo da torcere alle nuove uscite autunnali. A fine anno il brano è risultato il più venduto e il più ascoltato in streaming.

I dischi di platino si sprecavano: uno, due, tre, quattro…. Alla fine, con il 2016 già inoltrato, saranno ben sette, con la vertiginosa cifra di oltre 350 mila copie vendute.

Un successo che ha scavalcato i confini nazionali per arrivare nelle classifiche di Francia, Svizzera, Spagna, Russia, Sud America.

E intanto, silenziose, crescevano a dismisura le visualizzazioni del video su Vevo: le marachelle di Baby K e Giusy a bordo della Cadillac guadagnavano milioni e milioni di clic, fino a raggiungere l’ennesimo record. L’11 aprile 2016, a meno di un anno dall’uscita, la clip ha tagliato la soglia dei 100 milioni di visualizzazioni, primo video italiano a registrare un simile risultato.

Lo scorso febbraio, con una mossa francamente un po’ poraccia e decisamente economica, il video è stato riutilizzato pari pari anche per accompagnare la versione spagnola.

Ma oltre alle versioni ufficiali sono arrivate, immancabili, tantissime parodie:

Difficile, se non impossibile, dire cosa ha decretato un successo di questa portata: probabilmente una fortunata coincidenza di fattori. Di sicuro, se c’è qualcuna che da questa esperienza esce trionfatrice è Giusy Ferreri, chiamata in teoria a ricoprire il ruolo dell’ospite, ma che di fatto ha dato alla canzone il tratto decisivo che tutti abbiamo conosciuto, lasciando sullo sfondo il rap della compagna Baby K.

Oggi, a un anno dalla sua uscita, Roma-Bangkok è ancora presente nelle principali classifiche di vendita, senza esservi praticamente mai uscita, e c’è da scommettere che l’arrivo della nuova estate farà ripartire il forsennato viaggio delle due ragazzacce…

andata senza ritorno