BITS-RECE: Beyoncé, “COWBOY CARTER”. Il country non è una terra straniera

BITS-RECE: Beyoncé, “COWBOY CARTER”. Il country non è una terra straniera

 

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Il nome di Beyoncé non ha mai fatto – e probabilmente mai farà – rima con minimalismo.

Da quando il mondo della musica la conosce, la signora Carter non ha mai fatto nulla per passare inosservata e per nascondere una personalità, diciamo così, prorompente.

A fronte di un talento straordinario, forse l’unico vero appunto che si potrebbe fare a Queen Bey sta proprio nel non saper usare le mezze misure, nell’essere in tutto ciò che fa prepotente per indole, egocentrica, esagerata.
Ma se sei Beyoncé, se hai quella voce, se sei una belva da palco, se hai nel cuore tutto quel coraggio e se hai già dimostrato di saper cambiare le regole del gioco puoi bellamente fregartene di fare la modesta e puoi permetterti di fare quello che hai in testa.
E lei, ancora una volta, così ha fatto.

Dopo REINASSENCE del 2022, un omaggio alla club culture, da subito annunciato come il primo atto di un progetto più ampio, tutti erano in attesa di conoscere quale sarebbe stata la sua mossa successiva. Con quale poderosa zampata Beyoncé avrebbe scosso la scena musicale?

La risposta è arrivata netta e chiarissima nelle 27 (ventisette!) tracce di COWBOY CARTER, il suo nuovo, monumentale album, secondo atto del progetto.
Un disco solo dal punto di vista formale, si potrebbe dire, perché nei fatti si tratta di un manifesto di identità, di rivendicazione, di libertà. In poche parole, COWBOY CARTER è un atto politico messo in musica.

«Questo album ha richiesto più di cinque anni – ha dichiarato Beyoncé – È stato davvero fantastico avere il tempo e la grazia di poter dedicare il mio tempo. Inizialmente avrei dovuto far uscire Cowboy Carter per primo, ma con la pandemia il mondo era troppo pesante. Volevamo ballare. Meritavamo di ballare».

Come dire, prima vi ho fatto ballare, adesso mi ascoltate seriamente.

Lei, che aveva già brandito la musica come un’arma di orgoglio e indipendenza con Lemonade, adesso sferra un altro colpo fatale abbracciando un genere troppo a lungo e erroneamente considerato estraneo alla black culture: il country. Sì, proprio il genere americano per eccellenza, le cui origini sembrano essere state dimenticate dagli americani stessi.
Beyoncé lo va a riprendere, ci scava dentro e ne riscopre la comune ascendenza con il blues, che non è esattamente un genere “bianco”.

«[Questo album] È nato da un’esperienza che ho avuto anni fa, in cui non mi sono sentita ben accolta… ed era molto chiaro che non lo ero. Ma, a causa di quell’esperienza, ho fatto una ricerca più approfondita sulla storia della musica country e ho studiato il nostro ricco archivio musicale. È bello vedere come la musica possa unire così tante persone in tutto il mondo, mentre amplifica le voci di alcune persone che hanno dedicato così tanto della loro vita all’educazione sulla nostra storia musicale. Le critiche che ho affrontato quando mi sono approcciata per la prima volta a questo genere mi hanno costretta a superare i limiti che mi erano stati imposti. Act II è il risultato della sfida che mi sono lanciata, e del tempo che ho dedicato a mescolare i generi per creare questo lavoro».
Il riferimento sembra correre dritto al 2014, a Daddy Lessons, e alle controversie che si generarono attorno al genere musicale dentro cui far rientrare il brano (sì, in America sono ancora molto affezionati a questo tipo di etichette).

Libertà, dicevamo, rivendicazione, orgoglio.

Con COWBOY CARTER Beyoncé non sta parlando solo al suo pubblico, e non sta parlando neppure solo agli amanti della musica: sta parlando a tutti. Il suo è un messaggio universale di rivoluzione. Che sarebbe poi una delle principali missioni che la musica è da sempre chiamata a svolgere, ma quanti artisti della scena mainstream oggi hanno quel potere e quella forza?
E qui il discorso potrebbe andare avanti a oltranza.

Tornando al disco, sarebbe riduttivo liquidare Cowboy Carter semplicemente come un album country: è sicuramente un album che attinge a piene mani dal country, ma che non nasconde influenze r’n’b, soul, gospel, pop. C’è persino un inserto lirico, in cui Beyoncé canta in italiano (il brano è DAUGHTER, e l’inserto è tratto da Caro mio ben, un’aria del XVIII secolo di Tommaso Giordani).

In fondo, perché porsi barriere quando se ne può fare a meno?

A chiarire gli intenti dell’album sarebbero sufficienti le due tracce poste a introduzione e conclusione, rispettivamente AMERIICAN REQUIEM e AMEN, potenti e sacrali, due preghiere purificatrici, una sorta di De profundis intonato alle idee del passato, a ciò che a lungo è stato e che mai più sarà.

“Se prima vi eravate posti dei limiti, vi faccio vedere che quei limiti non sono mai esistiti”, sembra essere il sottotesto.

Per nulla casuale la scelta di riprendere anche BLACKBIIRD dei Beatles, da molti interpretata come una canzone sui diritti civili.

Ma in COWBOY CARTER non mancano nemmeno gli ospiti, che per la maggior parte sono stati arruolati dalla scena country: c’è Willie Nelson in SMOKE HOUR ★ WILLIE NELSON, c’è Dolly Parton, che presenta la cover della sua Jolene, di cui Beyoncé rivista anche anche il testo, c’è Miley Cyrus, che il country ce l’ha letteralmente nel sangue, in II MOST WANTED. E c’è Linda Martell, autentica pioniera nel country, essendo stata la prima donna di colore a debuttare al Grand Ole Opry, programma radiofonico dedicato a country, folk e bluegrass, e prima donna di colore a debuttare nella classifica country di Billboard.

Proprio Martell compare in SPAGHETTII, un brano di chiara impronta urban, perché come dicevamo questo non è semplicemente un album country.

Infine, due parole sul titolo: perché Cowboy – e non Cowgirl – Carter? Anche qui il riferimento è da ricercare nel passato, quando la parola cowboy era usata in modo dispregiativo per appellare gli ex schiavi, “i ragazzi, boys“, abili a svolgere i lavori più duri nel maneggiare cavalli e bestiame.
Ancora una volta, orgoglio.

Beyoncé non ha usato il country per togliersi un capriccio, o per inaugurare una nuova era con un cambio di look e di genere. E neppure aveva bisogno di dimostrare di saper fare il country.
Il suo bisogno era piuttosto quello di far capire che lei poteva farlo. E che ci sono barriere che possono e devono essere abbattute, nella musica, nella società, nella vita.

Insomma, l’album è uscito solo da pochi giorni, ma di una cosa sono abbastanza sicuro: COWBOY CARTER è un disco fatto per restare.

BITS-RECE: James Jonathan Clancy, “Sprecato”. Pastorale per animi inquieti

BITS-RECE: James Jonathan Clancy, “Sprecato”. Pastorale per animi inquieti

 

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.


Se è vero che un disco non andrebbe giudicato dalla copertina, nel caso di questo album un’eccezione penso sia più che lecita. Se non per giudicarlo prima di averlo ascoltato, almeno per farsi istantaneamente un’idea dello stato d’animo che lo permea.

Soprattutto se – come in questo caso – è il frutto di un intenso scambio di idee, di collaborazioni e di reciproche contaminazioni tra l’artista che l’ha realizzata e il cantautore che firma il disco. Il primo è il disegnatore bolognese Michelangelo Setola, il secondo è il cantautore italo-canadese James Jonathan Clancy. L’album invece si intitola emblematicamente Sprecato, ed è il primo lavoro da solista di Clancy, dopo le esperienze con His Clancyness, A Classic Education, Settlefish e Brutal Birthday.

Tornando alla copertina, ciò che colpisce subito lo sguardo è un’idea profonda di inquietudine e alienazione, uno stato d’animo di tensione fosca, “tempestosa”.

Ed è esattamente questo che traspare – limpido e oscuro – dalle tracce del disco.

Folk, psichedelia, synth-pop, darkwave, ambient, i riferimenti presenti nell’album sono tantissimi, intrecciati tra loro in una vibrazione costante.
I suoni sono ora profondissimi ora eterei, ora armoniosi ora dissonanti.

Clancy spazia tra minimalismo e magniloquenza, tra visioni ariose e oniriche e cadute vertiginose, e con la voce dipinge atmosfere immaginifiche.

Sprecato è un disco che si vede, quasi si tocca, è fatto di tinte ombrose, caliginose, plumbee. Castle Night apre all’insegna di un’intimità tipicamente notturna, A Workship Deal è una nerissima sinfonia post-punk che esplode in un finale ruvido e dissonante, Had It All è una disperazione senza possibilità di ritorno cullata su un arpeggio, mentre Out And Alive cresce e si cosparge di un’aura quasi liturgica.

Tra drums, chitarre e synth, molto interessanti le coloriture create dai sax.

Sprecato suona come quelle giornate di passaggio tra estate e autunno, o tra inverno e primavera, quando la quiete viene travolta da una cavalcata nera e minacciosa di cumulonembi. Quelle giornate in cui gelide e improvvise raffiche di vento scompigliano la natura e agitano i pensieri.

Quelle giornate che preannunciano un cambiamento.

Registrato tra Bologna e Londra, Sprecato è stato realizzato grazie a Suner, progetto di Arci Emilia-Romagna sostenuto dalla Regione Emilia-Romagna nell’ambito della Legge 2 sulla musica.

BITS-RECE: Done, “Popcorn”. Ti porto al club

BITS-RECE: Done, “Popcorn”. Ti porto al club

 

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Si può dire che sia cresciuto a pane hip-hop, ma per il suo nuovo progetto Done ha scelto di sperimentare qualche nuovo sapore. O almeno, ha mischiato i gusti dell’hip-hop con le spezie della house music e del new jack swing.

Ascoltando infatti i cinque inediti di Popcorn – questo il titolo dell’EP – sembra chiaro che il ragazzo aveva una gran voglia di ritmo e per trovarlo ha guardato Oltreoceano.

I riferimenti sono quelli dell’America degli anni’80, brulicante di club e di dj, da cui partivano i suoni che avrebbero riempito le classifiche di tutto il mondo: un melting pot sonoro che faceva convivere hip-hop, r’n’b, funky e house sotto l’egida della libertà e della voglia di evadere.

Proprio come nelle croccanti tracce di Popcorn.

L’apertura con Scandalous imprime subito una luccicante impronta house, e nella testa iniziano a vorticare le luci della mirrorball; Denim Blu affetta il ritmo secondo i tipici stilemi del new jack swing (avete presente i successi di Janet Jackson tra anni ’80 e ’90?), Cielo rosso ha un sapore di hip-hop old school, mentre sul finale la carica dei bpm di Joan Mirò si riprende la pista.

Completano l’EP i dub mix di Scandalous e Denim Blu, per chi avesse ancora voglia di fermarsi un po’ sotto le luci stroboscopiche, fino all’alba.

Come in un club di tanti anni fa.

BITS-RECE: Amalfitano, “Tienimi la mano, Diva!” Se Dioniso s’innamora

BITS-RECE: Amalfitano, “Tienimi la mano, Diva!” Se Dioniso s’innamora

 

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Se appena appena avete qualche familiarità con la cultura classica, vi sarà capitato di sentir parlare della dualità fra apollineo e dionisiaco, due elementi complementari alla base della natura dell’Uomo: due spiriti contrapposti, rivali, ma necessari l’uno all’altro per mantenere un equilibrio vitale.

Da una parte l’apollineo, la sfera razionale, luminosa, ordinata, ubbidiente; dall’altra il dionisiaco, lo spirito folle, ombroso, disordinato e ribelle. Due forze ataviche in costante lotta.

Ad apollineo e dionisiaco Nietzsche ha dedicato alcune delle sue pagine più celebri: secondo il filosofo tedesco, nella fase aurea della tragedia greca – massima espressione della cultura classica – si poteva riconoscere il trionfo del dionisiaco, che soccombendo progressivamente all’apollineo avrebbe portato alla corruzione del dramma.

Il dionisiaco è la forza dell’amore che arriva, devasta, fulmina, brucia, rende assetati; è la bellezza che acceca e quasi spaventa. E non c’è dubbio che ci sia stato proprio lo spirito dionisiaco ad animare l’ispirazione di Amalfitano per il suo nuovo album.

Il lavoro si intitola Tienimi la mano, Diva!, proprio come recita il primo verso della prima traccia, che è stata anche il primo singolo presentato al pubblico, Fosforo: un incipit epico, altisonante, spirituale, una dichiarazione d’intenti fin troppo chiara.
Se Omero – sempre per restare nel classico – invocava la Musa perché gli infondesse l’ispirazione per cantare le mitiche imprese degli eroi, Amalfitano sembra chiamare la sua dea perché corra a soccorrerlo, a sostenerlo, a tenergli la mano appunto, perché a lui “ballo lo sguardo”, proprio a causa di un amore che lo ha folgorato, un amore che brucia come il fosforo.

Ma nonostante tutto, potremo mai fare a meno di amare? Potremo mai rinunciare alla bellezza, alla sua forza disarmante? Ovviamente no.

Ed è proprio sui temi dell’amore e della bellezza che si concentra il cantautore romano nel suo secondo album: lo fa impregnando gli otto brani di rock e di blues, marchiando ogni canzone con il suo canto viscerale, stropicciato e sincero.

L’apertura con Fosforo è fulminante: sicuramente, uno dei migliori brani italiani usciti negli ultimi anni. Un pezzo incandescente, costruito su un climax che sembra tendere alle stelle. La collaborazione con Francesco Bianconi, che dell’album è anche produttore insieme a Ivan A. Rossi, calza alla perfezione: è la manifestazione al quadrato del dionisiaco.

Al posto di cimbali e crotali, tradizionali strumenti del corteo dionisiaco, di brano in brano Amalfitano conduce la sua danza pagana tra chitarre e archi: ogni pezzo è un concentrato di tensione, furore, erotismo, sarcasmo.

Tenerezza, ancora con Bianconi, ha il sapore intimo e agrodolce di una caramella che si scioglie lenta; E… ancora tu! ha il tocco di una carezza urticante; Cafona suona stralunata come una composizione di dallaniana memoria, mentre Battisti riecheggia nelle note di Lisbona.

Ma fino alla fine il disco non risparmia sorprese, quando Faccia di caffè, forse l’episodio dal tocco più felpato, si carica di pathos e si spalanca in una trionfale conclusione che guarda all’universo imaginifico dei Pink Floyd.

Tienici la mano, Diva, qui si canta d’amore.

BITS-RECE: Claudym, “Incidenti di percorso”. La vita è una cosa seria, ridiamoci su!

BITS-RECE: Claudym, “Incidenti di percorso”. La vita è una cosa seria, ridiamoci su!

 

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

“Mal di testa, penso troppo
Oggi non mi voglio alzare
Sono come una falena
Nel suo stadio larvale
Mi dimentico di bere il giusto
E lo ammetto mangio male
Frigo vuoto, orgoglio pieno
Non mi voglio mai aiutare
Provo a rendere poetico il disordine
Fare un po’ l’alternativa
Ma sono giorni che manco ti rifai il letto
Ma dai, chi vorresti fregare?”

(Claudym, Ragioni sbagliate)

“Se la vita ti offre dei limoni, tu facci una limonata”, recita più o meno così un celebre adagio. Ovvero, se la vita ti propina solo disgrazie e disagi, tu cerca di trarne il meglio e di farti amica la sorte.

Proprio questo detto era stato scomodato da alcuni critici e giornalisti quando si era trattato di recensire Lemonade, l’album di Beyoncé pubblicato nel 2016. Un album riconosciuto da subito come un manifesto epocale di orgoglio e indipendenza, ma che non risparmiava parecchie dosi di rabbia. Ecco, per restare nella metafora dei limoni, la signora Carter aveva preso i frutti che la vita le aveva offerto e ci aveva fatto una limonata decisamente acida.

Ben diversa è la ricetta seguita da Claudym, nome in ascesa del nuovo panorama italiano, che dopo un primo EP rilasciato nel 2022 arriva ora sul mercato con il primo album, Incidenti di percorso.

Un titolo molto eloquente, che mantiene la parola su quello che racconta: tradimenti, relazioni con maschi patriarcali, amicizie da salvare, propositi mancati, serate alcoliche… Un campionario di piccole e grandi sfighe quotidiane, episodi di una vita ordinaria, comune, fraterna.

Qui però c’è poco spazio per rabbia, rancore e grevi dolori. Piuttosto, la bevanda che Claudym ci serve ha tutto il gusto fresco e frizzantino del pop.

Un pop leggero e divertente che zampilla sbarazzino, vivace, ironico, sarcastico. Si gioca con le parole e con i beat, la musica vuole farci ballare, mentre le parole ci fanno sorridere delle nostre piccole miserie. A voler fare paragoni, si potrebbe pensare alla Rettore dei primissimi album, o – più recentemente – a Ditonellapiaga, giusto per restare in territorio nostrano.

A staccarsi dal generale mood giocherellone sono soprattutto brani come Joanne, dedicato a quell’amica con il cuore sempre inquieto, ed Ex, che descrive con grigio disincanto quei rapporti finiti ma che ancora si trascinano stanchi.

E poi c’è Ragioni sbagliate, il pezzo di apertura, punto di osservazione perfetto per affacciarsi sul mondo di Claudym.

Se volete invece farvi una bella scorpacciata di beat e bpm, li trovate in Trigger, proprio a metà del disco: un flashback diretto ad una festa dei primi anni ’00.

Segnatevi il nome Claudym ed evidenziatelo in colori fluo, perché lo risentirete…

Claudia Maccechini, in arte Claudym, è una cantante e illustratrice milanese.
La sua carriera musicale inizia con la pubblicazione dei primi brani, in lingua inglese, da indipendente.
Nel 2021 entra nel roster di Universal e inizia a scrivere in italiano. Scrive e compone personalmente le sue canzoni, nelle quali affronta tematiche molto intime e personali ma allo stesso tempo comuni alla maggior parte degli ascoltatori, fondendo il nuovo pop con tappeti elettronici dal retrogusto internazionale.

Amalfitano e Francesco Bianconi: bruciare d’amore. Anzi, di fosforo

Amalfitano e Francesco Bianconi: bruciare d’amore. Anzi, di fosforo

 

Hai mai provato l’effetto fosforo?
Io l’ho sperimentato diverse volte, sempre con le canzoni, ma magari tu lo hai provato con un film, o con un quadro. Con il tempo ho anche imparato a riconoscerlo da subito.
Non sapendo come definirlo, lo chiamerò “effetto fosforo”, e ti spiego anche il perchè.

Succede così: sento una canzone per la prima volta e penso “bah…”. Cioè, non è che non mi piaccia proprio, ma tutto sommato mi lascia indifferente. Anzi no, non è esattamente indifferenza, è più un “sì, carina, ma nulla di che”.

Poi, dopo qualche giorno, o la riascolto per caso o mi si ripresenta in testa da sola, ed è lì che si innesca “l’effetto fosforo“. Perchè inizio a capire che in quella canzone c’è qualcosa di magnetico, qualcosa che non so spiegare: forse è nel giro melodico, forse nel canto, forse in uno strumento, ogni volta può cambiare, e mi accorgo che quel brano lo voglio riascoltare, e ancora, e poi ancora, a loop, anche per giorni, fino a quando mi si pianta in testa e capisco che sarà amore. Anzi, lo è già.

Negli anni questa cosa mi è capitata diverse volte: andando a memoria, con “That don’t impress me much” di Shania Twain, “Bruci la città” di Irene Grandi, “Stand inside your love” degli Smashing Pumpkins, ma persino con “Poker face” di Lady Gaga.
Ogni volta sono farfalle nello stomaco.

Ovvio che col passare del tempo l’entusiasmo si ridimensiona, ma il bello sta proprio in quei primi momenti in cui capisci che da un “meh..” stai passando a un “WOW!!”

Come dicevo, con il tempo ho imparato a capire subito quando una canzone mi provocherà ‘l’effetto fosforo”. Ed è proprio quello che è successo in questi giorni – appunto – con “Fosforo” di Amalfitano e Francesco Bianconi.

L’ho sentita giorni fa, non mi ha colpito, ma sapevo che lo avrebbe fatto, e così è stato. Ci ha messo quasi una settimana, ma poi è esplosa come un’atomica, e lo ha fatto senza che forzassi nulla.

È entrata a gomitate nel cervello, e ancora adesso sta ferma lì. Anzi, non sta ferma per nulla, gira vorticosamente!
“Fosforo” è un brano matto, disgraziato, di quelli che ti fanno ridere e gridare.
“Tienimi la mano diva / che mi balla lo sguardo”, un incipit che sa di moderna saga epica. Una suggestione abbagliante che dura giusto il tempo di un lampo, prima che si inneschi la detonazione sonora: percussioni, chitarre, basso, persino archi. Tutto freme, arde, si scalda, brucia.
Il giro armonico è una giostra selvaggia, le note crescono e si scaldano mano a mano, mentre sotto scalpita e si agita una commistione salmastra di sensualità ustionante e disperazione d’amore.
Perché “Fosforo” è anche la più folle canzone d’amore uscita negli ultimi anni. Anzi, “Fosforo” è soprattutto una canzone d’amore.

Io l’amore non potrei immaginarlo diversamente, un’onda incandescente che ti arriva addosso “e mi prende la testa e scende giù nel cuore / e poi risale come di rimbalzo e mi fa lacrimare”.

Che sia anche questo l’effetto fosforo?

BITS-RECE: Francesco Bianconi Accade. Ovvero l’arte di bianconizzare

Mentre sul fronte Baustelle tutto resta silenzioso, Francesco Bianconi torna con il suo secondo lavoro da solista.

Dopo l’esordio nel 2020 con Forever, il cantautore toscano si mette ora alla prova con una raccolta di cover, Francesco Bianconi Accade. Il titolo, un po’ ironicamente e un maccheronicamente, prende spunto dalle performance live organizzate in streaming durante la pandemia: “accade” come traduzione di “happening”, nel senso di “ritrovo, evento”, ma anche come segno di qualcosa che nonostante tutto continua a muoversi, a esistere, ad accadere, appunto.

Dieci cover pescate nella musica italiana con l’unico criterio di avere tutte in sé almeno un “granellino” di Bianconi. E se per l’ascoltatore non è sempre facile scovarlo, questo granellino, una cosa è certa: insieme ai nuovi  arrangiamenti, la protagonista di questo disco è la voce di Bianconi, quella a cui ci ha sempre abituati fin dai primissimi esordi con i Baustelle.

Quella voce greve e sorniona, antica, volutamente aristocratica e rococò, solenne, in grado – volontariamente o no – di stendere un’ombra di decadenza su tutto quello che canta. E così accade qui.

Il cantautore si fa interprete e rivede ogni brano dalla sua prospettiva. In una parola, bianconizza.

Accade con i pezzi, non tra i più noti, scelti dal repertorio di due intoccabili come Guccini (Ti ricordi quei giorni) e Tenco (Quello che conta) e con l’omaggio ai Diaframma, band a cui molto devono i Baustelle (L’odore delle rose).

Quando rivede un classico come Domani è un altro giorno (a sua volta cover di The wonders you perform) Bianconi mette da parte l’interpretazione di Ornella Vanoni e aggiunge al brano un’aura quasi liturgica.

Ma questa è anche l’occasione per l’autore di farsi interprete di se stesso, e quindi ecco Io sono, scritta per Paola Turci, e poi La cometa di Halley e Bruci la città, portate al successo da Irene Grandi. Se nel primo caso la nuova formula funziona, negli altri due si sente perde purtroppo il luccichio e la forza delle versioni originali.

E poi c’è il vero colpo di teatro, l’eresia pop a cui Bianconi non ha voluto rinunciare, sicuramente non senza averci pensato con un mezzo sorriso.  Playa, ovvero il successone di Baby K di qualche estate fa. Ma dimenticatevi il reggaeton, il sole e le palme. In questo caso la bianconizzazione non si limita a trasformare, ma stravolge il mood della canzone. Il testo non cambia di una virgola, ma la leggerezza che tutti ricordavamo lascia il posto a una malinconia inedita, a dir poco sorprendente. Vincente la scelta di coinvolgere la stessa Baby K per il duetto: due poli opposti che escono dalle rispettive comfort zone per incontrarsi a metà strada. Poteva essere una collisione, è una rivelazione.

Anche questa è l’arte del bianconizzare.

BITS-RECE: L'”Universo” di Mara Sattei nella nuova galassia del pop italiano

Ormai è evidente, il pop italiano ha trovato una nuova voce. Non una voce nel senso fisico del termine, ma una nuova modalità di espressione.

Una voce fatta di nuovi codici, nuovi stimoli, nuove influenze, nuovi standard, nuove aspettative.

Una voce che col passare del tempo si fa sempre più forte e più chiara.

Che ci fosse una rivoluzione in atto, anche se sotterranea, lo si percepiva da tempo, ma è stato nel 2019, con la vittoria di Mahmood a Sanremo, che è stato evidente a tutti che i tempi stavano cambiando. Il pop italiano non poteva più accontentarsi di bel canto e belle note, soprattutto dopo anni in cui indie, hip-hop e trap l’avevano fatta da padroni.

Ecco allora, dopo Mahmood, l’affermarsi di artisti come Madame, Blanco e, ultima solo in ordine di tempo ad aver pubblicato un album, Mara Sattei, solo per fare qualche nome. Basta dare un rapido ascolto ai loro dischi per capire che non siamo davanti a singoli episodi, ma a un fenomeno in pieno fermento. Un pop gender fluid, ma che potremmo tranquillamente definire “promiscuo”, viste le sue innumerevoli frequentazioni con gli altri generi.

Prendiamo proprio l’album di debutto di Mara Sattei, Universo.

Un progetto solido e multiforme, in cui tutto suona fresco, decisamente attuale e sfacciatamente ibrido.

Merito della produzione e della lucida supervisione di tha Supreme (che di Mara Sattei è anche fratello), certo, ma merito prima di tutto di un’attitudine nuova, una voglia e un’esigenza di comunicare che mescola evasione e intimità, ritmiche urban ed eleganza melodica, scrittura serrata adatta alle barre e distensione cantautorale.

Basterebbe citare i nomi degli ospiti per avere una macromappatura dell’album: Tedua, Carl Brave, Giorgia, tha Supreme, Gazzelle, ovvero la trap, il rap, il pop della tradizione e l’indie.

Dai beat sincopati di Blu intenso alla frenesia di Cicatrici e al tocco felpato di Parentesi, dalla cassa dritta di 0 rischi nel love ai luccichii metallici della chitarra in Scusa, niente suona fuori posto, tutto convive pacificamente e tutto brilla con la stessa intensità come in una grande costellazione.

È il nuovo pop italiano che avanza. Finalmente.

Arriva al cinema “SIC” il docufilm su Marco Simoncelli.

DIOBÒ CHE FORTUNA
A dieci anni dalla scomparsa del campione Marco Simoncelli arriva al cinema solo il 28 e 29 dicembre SIC (regia di Alice Filippi), un documentario SKY ORIGINAL prodotto da Sky, FREMANTLE ITALY e MOWE e distribuito da NEXO DIGITAL
Ci sono storie che vale la pena raccontare.
Nel 2008, per esempio, nel circuito della Malesia, un ragazzo con le sembianze buffe che a molti ricorda Pippo sta girando sulla sua Gilera con le braccia aperte, il sorriso stampato in faccia e il cuore a mille che gli sta urlando “ce l’abbiamo fatta!”.
Ha appena finito la corsa e d è ufficialmente diventato “World Champion”, parole che tanti anni prima scrisse ripetutamente sui suoi quaderni promettendosi che un giorno sarebbe salito sul gradino più alto del podio insieme alla sua moto.
“Il mio sogno, da quando ancora non camminavo, è uno solo: andare forte sulle moto grosse” – SIC58
Alice Filippi, insieme a Vanessa Picciarelli e Francesco Scarrone, alla famiglia Simoncelli e al team di Sky, ha voluto rivivere la scalata del nostro Marco Simoncelli che lo ha portato dal difficile avvio di campionato alla vittoria del motomondiale della classe 250cc, diventando così una leggenda.
Non serve essere appassionati di motociclismo e non serve conoscere nel dettaglio il SIC, perché tanto dopo averlo sentito parlare due volte lo reputi già uno di famiglia, per apprezzare questo documentario.
Vi basta soltanto abbandonare per un’ora e mezza le vostre insicurezze, allacciare il casco e sgasare verso un orizzonte fatto di sogni che si realizzano.
Dimentichiamoci per un secondo del tragico incidente del 23 ottobre 2011 e focalizziamo la nostra attenzione sul percorso tortuoso ma epico di Marco dalle minimoto alla tanto ambita moto da gara ufficiale.
Una visione coinvolgente arricchita dagli interventi delle persone che hanno vissuto al fianco di Marco, dal padre Paolo onnipresente e fondamentale per la crescita del figlio alla fidanzata Kate, dall’idolo e poi grande amico Valentino Rossi all’avversario più ostico Alvaro Bautista.
Per poi passare dai racconti del pilota Mattia Pasini amico d’infanzia e primo compagno di team ai tempi delle gare in minimoto, di Carlo Pernat il manager del motomondiale con la “M” maiuscola, di Paolo Beltramo, amico di Marco e storico inviato dai box, del poetico Dottor Claudio Costa, del preparatore atletico Carlo Casabianca, dell’artista dei caschi Aldo Drudi, dei membri della squadra che insieme a lui hanno reso possibile la vittoria del mondiale, del capo tecnico Aligi Deganello, del meccanico Sanzio “Malabrocca” Raffaelli, e dell’allora direttore gestione sportiva gruppo Piaggio Giampiero Sacchi.
La prima nazionale di SIC si terrà a Riccione il 21 dicembre presso il Multiplex Giometti Cinema nel corso di una serata-evento organizzata anche con il supporto del Comune di Riccione e di APT Servizi, alla quale saranno presenti i protagonisti del docufilm e tanti personaggi di spicco del mondo del motorsport.
Diobò quanto sono belli i sogni…
Diobò quanto ci mancano i tuoi ricci tra i box Diobò che fortuna averti visto correre…
Ci sono storie che vale la pena raccontare, ma tu Marco sei stato una storia da vivere.
“Si vive di più andando cinque minuti al massimo su una moto come questa, di quanto non faccia certa gente in una vita intera” – SIC58

Francesco Bianconi, “Forever”. L’ambizione della malinconia

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Quando il cantante di una band, che di solito ne è anche il frontman, decide di realizzare un progetto solista, la reazione che ne segue da parte del pubblico può essere di dispiacere, per vedere ormai segnato il destino del gruppo (perché 90 volte su 100 lo sappiamo come va a finire), o di curiosità per l’imminente nuovo progetto in arrivo. Talvolta questi due sentimenti si abbracciano, e quel che ne vien fuori è un misto di rimpianto ed eccitazione.

Così è stato per me, quando – ormai alcuni mesi fa – Francesco Bianconi ha annunciato l’uscita del primo progetto come solista. Io, che seguo i Baustelle da almeno una quindicina d’anni, non sapevo bene come prendere la notizia. A chiarirmi le idee non è bastata neanche l’uscita dei primi singoli, ma ho dovuto aspettare che Forever, questo il titolo del disco, vedesse la luce nella sua interezza. E adesso lo posso dire: qualunque sorte toccherà alla band, è una fortuna che Bianconi abbia deciso di realizzare un album come questo.

Forever è uno di quei dischi che hanno l’impronta dell’ambizione in ogni singola traccia, in ogni nota, in ogni sequenza di parole: un’ambizione alla bellezza e alla sfida del tempo, che poi è un po’ la stessa cosa, visto che il vero bello per sua natura non è scalfito dalle mode e dalle epoche.
Un’ambizione austera e discretissima, declinata sulle musiche da camera del quartetto d’archi Balanescu Quartet, spogliata delle ritmiche del basso e della batteria e con minimali utilizzi di elettronica. Quella che ne viene fuori è una tessitura elegante e profondamente malinconica, veste elitaria, ma perfetta, sulla quale si avvolgono le parole e il canto di Bianconi, che forse mai come adesso si lascia andare a un’introspezione sincera che comprende riflessioni spirituali, cinismo sfrontato, ironia velata.
Il buon Francesco non è certo una rivelazione, e anzi ormai sappiamo bene che nel cantautorato italiano il suo nome non ha più bisogno di presentazioni, ma per capirlo fino in fondo vale la pena dare almeno un ascolto a Il bene, L’abisso, alla splendida Zuma Beach o a Certi uomini. Una scrittura che passa dalla poesia più lirica a improvvisi squarci prosaici, che riesce a coniugare scandalo e pudore, sacro e laico.

Nei 40 minuti che compongono Forever non mancano poi selezionatissime incursioni, come quella di Rufus Wainwright, che canta anche in italiano i versi d’amore di “Andante”, o il canto struggente in arabo di Hindi Zahara in Faìka Llìl Wnhàr. E anche questo è un elemento di ambizione di Forever, volare sopra i confini geografici per farsi musica universale.

Se un giorno i Baustelle torneranno, li accoglierò a braccia aperte: nel frattempo mi soffermo ad ascoltare il passo lieve e malinconico di Francesco Bianconi.