#BITS-RECE: Claudym, “Incidenti di percorso”.
La vita è una cosa seria, ridiamoci su!

#BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

“Mal di testa, penso troppo
Oggi non mi voglio alzare
Sono come una falena
Nel suo stadio larvale
Mi dimentico di bere il giusto
E lo ammetto mangio male
Frigo vuoto, orgoglio pieno
Non mi voglio mai aiutare
Provo a rendere poetico il disordine
Fare un po’ l’alternativa
Ma sono giorni che manco ti rifai il letto
Ma dai, chi vorresti fregare?”

(Claudym, Ragioni sbagliate)

“Se la vita ti offre dei limoni, tu facci una limonata”, recita più o meno così un celebre adagio. Ovvero, se la vita ti propina solo disgrazie e disagi, tu cerca di trarne il meglio e di farti amica la sorte.

Proprio questo detto era stato scomodato da alcuni critici e giornalisti quando si era trattato di recensire Lemonade, l’album di Beyoncé pubblicato nel 2016. Un album riconosciuto da subito come un manifesto epocale di orgoglio e indipendenza, ma che non risparmiava parecchie dosi di rabbia. Ecco, per restare nella metafora dei limoni, la signora Carter aveva preso i frutti che la vita le aveva offerto e ci aveva fatto una limonata decisamente acida.

Ben diversa è la ricetta seguita da Claudym, nome in ascesa del nuovo panorama italiano, che dopo un primo EP rilasciato nel 2022 arriva ora sul mercato con il primo album, Incidenti di percorso.

Un titolo molto eloquente, che mantiene la parola su quello che racconta: tradimenti, relazioni con maschi patriarcali, amicizie da salvare, propositi mancati, serate alcoliche… Un campionario di piccole e grandi sfighe quotidiane, episodi di una vita ordinaria, comune, fraterna.

Qui però c’è poco spazio per rabbia, rancore e grevi dolori. Piuttosto, la bevanda che Claudym ci serve ha tutto il gusto fresco e frizzantino del pop.

Un pop leggero e divertente che zampilla sbarazzino, vivace, ironico, sarcastico. Si gioca con le parole e con i beat, la musica vuole farci ballare, mentre le parole ci fanno sorridere delle nostre piccole miserie. A voler fare paragoni, si potrebbe pensare alla Rettore dei primissimi album, o – più recentemente – a Ditonellapiaga, giusto per restare in territorio nostrano.

A staccarsi dal generale mood giocherellone sono soprattutto brani come Joanne, dedicato a quell’amica con il cuore sempre inquieto, ed Ex, che descrive con grigio disincanto quei rapporti finiti ma che ancora si trascinano stanchi.

E poi c’è Ragioni sbagliate, il pezzo di apertura, punto di osservazione perfetto per affacciarsi sul mondo di Claudym.

Se volete invece farvi una bella scorpacciata di beat e bpm, li trovate in Trigger, proprio a metà del disco: un flashback diretto ad una festa dei primi anni ’00.

Segnatevi il nome Claudym ed evidenziatelo in colori fluo, perché lo risentirete…

Claudia Maccechini, in arte Claudym, è una cantante e illustratrice milanese.
La sua carriera musicale inizia con la pubblicazione dei primi brani, in lingua inglese, da indipendente.
Nel 2021 entra nel roster di Universal e inizia a scrivere in italiano. Scrive e compone personalmente le sue canzoni, nelle quali affronta tematiche molto intime e personali ma allo stesso tempo comuni alla maggior parte degli ascoltatori, fondendo il nuovo pop con tappeti elettronici dal retrogusto internazionale.

Amalfitano e Bianconi: bruciare d’amore. Anzi, di fosforo

Hai mai provato l’effetto fosforo?
Io l’ho sperimentato diverse volte, sempre con le canzoni, ma magari tu lo hai provato con un film, o con un quadro. Con il tempo ho anche imparato a riconoscerlo da subito.
Non sapendo come definirlo, lo chiamerò “effetto fosforo”, e ti spiego anche il perchè.

Succede così: sento una canzone per la prima volta e penso “bah…”. Cioè, non è che non mi piaccia proprio, ma tutto sommato mi lascia indifferente. Anzi no, non è esattamente indifferenza, è più un “sì, carina, ma nulla di che”.

Poi, dopo qualche giorno, o la riascolto per caso o mi si ripresenta in testa da sola, ed è lì che si innesca “l’effetto fosforo“. Perchè inizio a capire che in quella canzone c’è qualcosa di magnetico, qualcosa che non so spiegare: forse è nel giro melodico, forse nel canto, forse in uno strumento, ogni volta può cambiare, e mi accorgo che quel brano lo voglio riascoltare, e ancora, e poi ancora, a loop, anche per giorni, fino a quando mi si pianta in testa e capisco che sarà amore. Anzi, lo è già.

Negli anni questa cosa mi è capitata diverse volte: andando a memoria, con “That don’t impress me much” di Shania Twain, “Bruci la città” di Irene Grandi, “Stand inside your love” degli Smashing Pumpkins, ma persino con “Poker face” di Lady Gaga.
Ogni volta sono farfalle nello stomaco.

Ovvio che col passare del tempo l’entusiasmo si ridimensiona, ma il bello sta proprio in quei primi momenti in cui capisci che da un “meh..” stai passando a un “WOW!!”

Come dicevo, con il tempo ho imparato a capire subito quando una canzone mi provocherà ‘l’effetto fosforo”. Ed è proprio quello che è successo in questi giorni – appunto – con “Fosforo” di Amalfitano e Francesco Bianconi.

L’ho sentita giorni fa, non mi ha colpito, ma sapevo che lo avrebbe fatto, e così è stato. Ci ha messo quasi una settimana, ma poi è esplosa come un’atomica, e lo ha fatto senza che forzassi nulla.

È entrata a gomitate nel cervello, e ancora adesso sta ferma lì. Anzi, non sta ferma per nulla, gira vorticosamente!
“Fosforo” è un brano matto, disgraziato, di quelli che ti fanno ridere e gridare.
“Tienimi la mano diva / che mi balla lo sguardo”, un incipit che sa di moderna saga epica. Una suggestione abbagliante che dura giusto il tempo di un lampo, prima che si inneschi la detonazione sonora: percussioni, chitarre, basso, persino archi. Tutto freme, arde, si scalda, brucia.
Il giro armonico è una giostra selvaggia, le note crescono e si scaldano mano a mano, mentre sotto scalpita e si agita una commistione salmastra di sensualità ustionante e disperazione d’amore.
Perché “Fosforo” è anche la più folle canzone d’amore uscita negli ultimi anni. Anzi, “Fosforo” è soprattutto una canzone d’amore.

Io l’amore non potrei immaginarlo diversamente, un’onda incandescente che ti arriva addosso “e mi prende la testa e scende giù nel cuore / e poi risale come di rimbalzo e mi fa lacrimare”.

Che sia anche questo l’effetto fosforo?

BITS-RECE: Francesco Bianconi Accade. Ovvero l’arte di bianconizzare

Mentre sul fronte Baustelle tutto resta silenzioso, Francesco Bianconi torna con il suo secondo lavoro da solista.

Dopo l’esordio nel 2020 con Forever, il cantautore toscano si mette ora alla prova con una raccolta di cover, Francesco Bianconi Accade. Il titolo, un po’ ironicamente e un maccheronicamente, prende spunto dalle performance live organizzate in streaming durante la pandemia: “accade” come traduzione di “happening”, nel senso di “ritrovo, evento”, ma anche come segno di qualcosa che nonostante tutto continua a muoversi, a esistere, ad accadere, appunto.

Dieci cover pescate nella musica italiana con l’unico criterio di avere tutte in sé almeno un “granellino” di Bianconi. E se per l’ascoltatore non è sempre facile scovarlo, questo granellino, una cosa è certa: insieme ai nuovi  arrangiamenti, la protagonista di questo disco è la voce di Bianconi, quella a cui ci ha sempre abituati fin dai primissimi esordi con i Baustelle.

Quella voce greve e sorniona, antica, volutamente aristocratica e rococò, solenne, in grado – volontariamente o no – di stendere un’ombra di decadenza su tutto quello che canta. E così accade qui.

Il cantautore si fa interprete e rivede ogni brano dalla sua prospettiva. In una parola, bianconizza.

Accade con i pezzi, non tra i più noti, scelti dal repertorio di due intoccabili come Guccini (Ti ricordi quei giorni) e Tenco (Quello che conta) e con l’omaggio ai Diaframma, band a cui molto devono i Baustelle (L’odore delle rose).

Quando rivede un classico come Domani è un altro giorno (a sua volta cover di The wonders you perform) Bianconi mette da parte l’interpretazione di Ornella Vanoni e aggiunge al brano un’aura quasi liturgica.

Ma questa è anche l’occasione per l’autore di farsi interprete di se stesso, e quindi ecco Io sono, scritta per Paola Turci, e poi La cometa di Halley e Bruci la città, portate al successo da Irene Grandi. Se nel primo caso la nuova formula funziona, negli altri due si sente perde purtroppo il luccichio e la forza delle versioni originali.

E poi c’è il vero colpo di teatro, l’eresia pop a cui Bianconi non ha voluto rinunciare, sicuramente non senza averci pensato con un mezzo sorriso.  Playa, ovvero il successone di Baby K di qualche estate fa. Ma dimenticatevi il reggaeton, il sole e le palme. In questo caso la bianconizzazione non si limita a trasformare, ma stravolge il mood della canzone. Il testo non cambia di una virgola, ma la leggerezza che tutti ricordavamo lascia il posto a una malinconia inedita, a dir poco sorprendente. Vincente la scelta di coinvolgere la stessa Baby K per il duetto: due poli opposti che escono dalle rispettive comfort zone per incontrarsi a metà strada. Poteva essere una collisione, è una rivelazione.

Anche questa è l’arte del bianconizzare.

BITS-RECE: L'”Universo” di Mara Sattei nella nuova galassia del pop italiano

Ormai è evidente, il pop italiano ha trovato una nuova voce. Non una voce nel senso fisico del termine, ma una nuova modalità di espressione.

Una voce fatta di nuovi codici, nuovi stimoli, nuove influenze, nuovi standard, nuove aspettative.

Una voce che col passare del tempo si fa sempre più forte e più chiara.

Che ci fosse una rivoluzione in atto, anche se sotterranea, lo si percepiva da tempo, ma è stato nel 2019, con la vittoria di Mahmood a Sanremo, che è stato evidente a tutti che i tempi stavano cambiando. Il pop italiano non poteva più accontentarsi di bel canto e belle note, soprattutto dopo anni in cui indie, hip-hop e trap l’avevano fatta da padroni.

Ecco allora, dopo Mahmood, l’affermarsi di artisti come Madame, Blanco e, ultima solo in ordine di tempo ad aver pubblicato un album, Mara Sattei, solo per fare qualche nome. Basta dare un rapido ascolto ai loro dischi per capire che non siamo davanti a singoli episodi, ma a un fenomeno in pieno fermento. Un pop gender fluid, ma che potremmo tranquillamente definire “promiscuo”, viste le sue innumerevoli frequentazioni con gli altri generi.

Prendiamo proprio l’album di debutto di Mara Sattei, Universo.

Un progetto solido e multiforme, in cui tutto suona fresco, decisamente attuale e sfacciatamente ibrido.

Merito della produzione e della lucida supervisione di tha Supreme (che di Mara Sattei è anche fratello), certo, ma merito prima di tutto di un’attitudine nuova, una voglia e un’esigenza di comunicare che mescola evasione e intimità, ritmiche urban ed eleganza melodica, scrittura serrata adatta alle barre e distensione cantautorale.

Basterebbe citare i nomi degli ospiti per avere una macromappatura dell’album: Tedua, Carl Brave, Giorgia, tha Supreme, Gazzelle, ovvero la trap, il rap, il pop della tradizione e l’indie.

Dai beat sincopati di Blu intenso alla frenesia di Cicatrici e al tocco felpato di Parentesi, dalla cassa dritta di 0 rischi nel love ai luccichii metallici della chitarra in Scusa, niente suona fuori posto, tutto convive pacificamente e tutto brilla con la stessa intensità come in una grande costellazione.

È il nuovo pop italiano che avanza. Finalmente.

Arriva al cinema “SIC” il docufilm su Marco Simoncelli.

DIOBÒ CHE FORTUNA
A dieci anni dalla scomparsa del campione Marco Simoncelli arriva al cinema solo il 28 e 29 dicembre SIC (regia di Alice Filippi), un documentario SKY ORIGINAL prodotto da Sky, FREMANTLE ITALY e MOWE e distribuito da NEXO DIGITAL
Ci sono storie che vale la pena raccontare.
Nel 2008, per esempio, nel circuito della Malesia, un ragazzo con le sembianze buffe che a molti ricorda Pippo sta girando sulla sua Gilera con le braccia aperte, il sorriso stampato in faccia e il cuore a mille che gli sta urlando “ce l’abbiamo fatta!”.
Ha appena finito la corsa e d è ufficialmente diventato “World Champion”, parole che tanti anni prima scrisse ripetutamente sui suoi quaderni promettendosi che un giorno sarebbe salito sul gradino più alto del podio insieme alla sua moto.
“Il mio sogno, da quando ancora non camminavo, è uno solo: andare forte sulle moto grosse” – SIC58
Alice Filippi, insieme a Vanessa Picciarelli e Francesco Scarrone, alla famiglia Simoncelli e al team di Sky, ha voluto rivivere la scalata del nostro Marco Simoncelli che lo ha portato dal difficile avvio di campionato alla vittoria del motomondiale della classe 250cc, diventando così una leggenda.
Non serve essere appassionati di motociclismo e non serve conoscere nel dettaglio il SIC, perché tanto dopo averlo sentito parlare due volte lo reputi già uno di famiglia, per apprezzare questo documentario.
Vi basta soltanto abbandonare per un’ora e mezza le vostre insicurezze, allacciare il casco e sgasare verso un orizzonte fatto di sogni che si realizzano.
Dimentichiamoci per un secondo del tragico incidente del 23 ottobre 2011 e focalizziamo la nostra attenzione sul percorso tortuoso ma epico di Marco dalle minimoto alla tanto ambita moto da gara ufficiale.
Una visione coinvolgente arricchita dagli interventi delle persone che hanno vissuto al fianco di Marco, dal padre Paolo onnipresente e fondamentale per la crescita del figlio alla fidanzata Kate, dall’idolo e poi grande amico Valentino Rossi all’avversario più ostico Alvaro Bautista.
Per poi passare dai racconti del pilota Mattia Pasini amico d’infanzia e primo compagno di team ai tempi delle gare in minimoto, di Carlo Pernat il manager del motomondiale con la “M” maiuscola, di Paolo Beltramo, amico di Marco e storico inviato dai box, del poetico Dottor Claudio Costa, del preparatore atletico Carlo Casabianca, dell’artista dei caschi Aldo Drudi, dei membri della squadra che insieme a lui hanno reso possibile la vittoria del mondiale, del capo tecnico Aligi Deganello, del meccanico Sanzio “Malabrocca” Raffaelli, e dell’allora direttore gestione sportiva gruppo Piaggio Giampiero Sacchi.
La prima nazionale di SIC si terrà a Riccione il 21 dicembre presso il Multiplex Giometti Cinema nel corso di una serata-evento organizzata anche con il supporto del Comune di Riccione e di APT Servizi, alla quale saranno presenti i protagonisti del docufilm e tanti personaggi di spicco del mondo del motorsport.
Diobò quanto sono belli i sogni…
Diobò quanto ci mancano i tuoi ricci tra i box Diobò che fortuna averti visto correre…
Ci sono storie che vale la pena raccontare, ma tu Marco sei stato una storia da vivere.
“Si vive di più andando cinque minuti al massimo su una moto come questa, di quanto non faccia certa gente in una vita intera” – SIC58

Francesco Bianconi, “Forever”. L’ambizione della malinconia

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Quando il cantante di una band, che di solito ne è anche il frontman, decide di realizzare un progetto solista, la reazione che ne segue da parte del pubblico può essere di dispiacere, per vedere ormai segnato il destino del gruppo (perché 90 volte su 100 lo sappiamo come va a finire), o di curiosità per l’imminente nuovo progetto in arrivo. Talvolta questi due sentimenti si abbracciano, e quel che ne vien fuori è un misto di rimpianto ed eccitazione.

Così è stato per me, quando – ormai alcuni mesi fa – Francesco Bianconi ha annunciato l’uscita del primo progetto come solista. Io, che seguo i Baustelle da almeno una quindicina d’anni, non sapevo bene come prendere la notizia. A chiarirmi le idee non è bastata neanche l’uscita dei primi singoli, ma ho dovuto aspettare che Forever, questo il titolo del disco, vedesse la luce nella sua interezza. E adesso lo posso dire: qualunque sorte toccherà alla band, è una fortuna che Bianconi abbia deciso di realizzare un album come questo.

Forever è uno di quei dischi che hanno l’impronta dell’ambizione in ogni singola traccia, in ogni nota, in ogni sequenza di parole: un’ambizione alla bellezza e alla sfida del tempo, che poi è un po’ la stessa cosa, visto che il vero bello per sua natura non è scalfito dalle mode e dalle epoche.
Un’ambizione austera e discretissima, declinata sulle musiche da camera del quartetto d’archi Balanescu Quartet, spogliata delle ritmiche del basso e della batteria e con minimali utilizzi di elettronica. Quella che ne viene fuori è una tessitura elegante e profondamente malinconica, veste elitaria, ma perfetta, sulla quale si avvolgono le parole e il canto di Bianconi, che forse mai come adesso si lascia andare a un’introspezione sincera che comprende riflessioni spirituali, cinismo sfrontato, ironia velata.
Il buon Francesco non è certo una rivelazione, e anzi ormai sappiamo bene che nel cantautorato italiano il suo nome non ha più bisogno di presentazioni, ma per capirlo fino in fondo vale la pena dare almeno un ascolto a Il bene, L’abisso, alla splendida Zuma Beach o a Certi uomini. Una scrittura che passa dalla poesia più lirica a improvvisi squarci prosaici, che riesce a coniugare scandalo e pudore, sacro e laico.

Nei 40 minuti che compongono Forever non mancano poi selezionatissime incursioni, come quella di Rufus Wainwright, che canta anche in italiano i versi d’amore di “Andante”, o il canto struggente in arabo di Hindi Zahara in Faìka Llìl Wnhàr. E anche questo è un elemento di ambizione di Forever, volare sopra i confini geografici per farsi musica universale.

Se un giorno i Baustelle torneranno, li accoglierò a braccia aperte: nel frattempo mi soffermo ad ascoltare il passo lieve e malinconico di Francesco Bianconi.

BITS-RECE: Populous “W”. Si scrive queer, si legge libertà

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

W come women, “donne”.
Come quelle ritratte sulla già iconicissima cover dell’album, opera del digital artist della scena queer berlinese Nicola Napoli. Come quelle che animano i featuring del disco. Come quelle che Populous ha scelto di celebrare nel suo quinto lavoro in studio. Donne libere, immaginate, immaginarie, archetipiche, donne al di fuori di ogni definizione, esattamente come la musica da sempre proposta dal DJ e produttore, all’anagrafe registrato come Andrea Mangia.

W è tutto questo, la celebrazione della libertà di essere e di esistere, la realizzazione di un sogno impossibile, l’incarnazione della cultura queer, ma anche l’esaltazione di una femminilità del tutto nuova.
Se in copertina assistiamo a un party utopico e impossibile a cui partecipano Grace Jones, Missy Elliott, Loredana Bertè, RuPaul, Aaliyha, Amanda Lear, Beth Ditto, Divine e M¥SS KETA, forse per celebrare l’avvento di un mondo matriarcale e in cui la femminilità stessa ha sciolto i nodi da ogni aspettativa e convenzione, dentro all’album questa libertà prende la forma di una rottura di genere, tra fusioni e contaminazioni inedite.
In appena 10 brani, Populous compie un giro del mondo raccogliendo le più variegate ispirazioni esotiche dal sud America, dal Medio Oriente, dall’Oriente più estremo, dalle ballroom degli anni ’90, e fonde il tutto in un pastiche ipnotico, psichedelico, seducente e incredibile, quasi come fosse la musica di una nuova liturgia underground.
Voguing, ritmi afro-samba ispirati a Vinicius de Moraes, cumbia, dream pop, house, ma chissà quanto altro ancora si annida tra questi beat camaleontici.

L’artista argentina Sobrenadar è l’ospite chiamata in Desierto, che apre l’album all’insegna di beat e atmosfere oniriche, poi le suggestioni del dream pop si stendono in Soy Lo Que Soy, la seconda traccia, intrecciandosi alle ritmiche latine e bassi di ispirazione dance-hall con il duo elettronico messicano dei Sotomayor.

La voce ammaliante della brasiliana Emmanuelle fa da guida nella sensualissima Flores no mar, altro momento in cui Populous fa incontrare psichedelia e ambientazioni tropicali, rendendo un personale omaggio agli afro-samba di Vinicius de Moraes.
Un vortice di ipnosi sonora pervade Fuera de mi, vera e propria celebrazione dell’estasi, dove a farla da padrona è la voce della producer argentina Kaleema.
Con la quinta traccia, HOUSE OF KETA, lo scenario cambia radicalmente, e dai paesaggi esotici e tropicali ci si ritrova catapultati nel mondo glamouroso di una ballroom al suono della glitch house in compagnia di M¥SS KETA, incarnazione dell’anima delle notti milanesi, ma sempre più anche icona globale di una femminilità rivoluzionaria, nonché da anni sodale di Populous. Insieme a lei fa la sua comparsa, direttamente dalla House of Gucci, anche Gorgeous Kenjii, performer, danzatore e coreografo, “madre” della scena voguing italiana. L’ispirazione del brano è arrivata il giorno dopo il Milano Pride 2019: come in un’immaginaria riunione della massoneria queer, Populous ha chiamato a raccolta il creative director Protopapa, il producer RIVA e il collettivo Motel Forlanini.

Cumbia e sapori tropicali miscelati a un’attitudine dub, danno vita alla strumentale Banda, a cui prende parte la producer di Buenos Aires Barda, mentre Petalo vede il featuring dei Weste. Quando arriva il momento di Out of space, con il featuring della polistrumentista giapponese Mayuko Hitotsuyanagi aka Cuushe, si vola in estremo Oriente per una una danza senza fine, in un immaginario giardino zen illuminato dall’alba.
Lisergica e minimale, Getting Lost suona come un invito a perdersi. A dare un tocco di grazia eterea con il canto è L I M, mentre la chiusura dell’album è nelle mani di Matilde Davoli e Lucia Manca, che presta la voce a Roma, omaggio all’omonimo film di Alfonso Cuarón.

Se il viaggio di W si chiude metaforicamente a Roma, quello musicale sembra non concludersi mai, esattamente come il messaggio pulsante che anima l’arte di Populous: liberazione dagli stereotipi, liberazione dalle categorizzazioni, liberazione dalle convenzioni.

 

BITS-RECE: Andrea Nardinocchi, “La stessa emozione”. La delicata leggerezza dell’essere

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

C’è una cosa che mi è sempre piaciuta particolarmente in quello che fa Andrea Nardinocchi, ed è una forma di gentilezza e un’innocenza che immancabilmente emerge – forse inconsapevolmente – nella sua scrittura e nel suo modo di cantare. Era così in Un posto per me, il singolo che lo ha lanciato nel 2013 ed è così ancora oggi che torna con il terzo album, La stessa emozione, il primo dopo cinque anni di relativo silenzio rotto solo da alcuni singoli.
Nardinocchi sa raccontare l’amore, la felicità, la rabbia e la delusione con incredibile trasparenza, e allo stesso tempo con una leggerezza non comune. Lo ascolti cantare ed è come se ogni volta lui voglia aprire completamente il suo mondo a te, affidandoti pensieri e confidenze come si farebbe con un amico, e lo fa nel suo linguaggio personale che come sempre comprende pop, nu soul, funk, r’n’b ed elettronica.

Prodotto dai Mamakass, La stessa emozione è il risultato di una gestazione lunga, in cui sono racchiusi gli ultimi tre anni “di trip” di Andrea, come ha lui stesso dichiarato.
Ad aprire l’album è Tutto perfetto, un piccolo manifesto di felicità quasi silenziosa, il funk illumina la già raggiante dichiarazione d’amore di Quando ti ho visto, mentre Droga gioca su un’efficace metafora. Ma a caratterizzare l’atmosfera del disco è soprattutto l’introspezione, che torna tra le righe di Ridicolo e di Sanremo amore scusa, racconto agrodolce in cui si incrocia l’esperienza sanremese del 2013 e la fine di una relazione, e poi ancora di Solo pensieri, Sono sicuro, fino ad arrivare alla conclusione di Ti voglio bene, dichiarazione di affetto sincera e senza retorica.

La stesso emozione è un disco dai toni sfumati e dal carattere defilato, che non si vergogna però di mostrare anche un certo lato agrodolce. E proprio per questo il ritorno di Nardinocchi fa ancora più piacere.

Sul pianeta “Chromatica” si balla parecchio, ma quanto durerà la festa?


Dite la verità, non ve l’aspettavate, vero? Dopo il country-pop di Joanne e la fortunata esperienza di A Star Is Born vi eravate abituati a una Lady Gaga decisamente più sobria del passato. Cresciuta, matura, forse anche un po’ imborghesita, lontanissima dagli eccessi barocchi e talvolta discutibili dei tempi di Born This Way e Artpop. Una lady insomma, nel senso più pieno del termine.

E invece no, Lady Gaga fa dietrofront e per il suo sesto album in studio apre le vecchie ante dell’armadio e tira fuori di nuovo gli outfit esagerati, un po’ kamp, decisamente baracconi con cui è diventata famosa, mentre per la musica passa dal rassicurante pop melodico alla dance più sfacciata, affidando la produzione a BloodPop®.

Già, perché Chromatica – questo il titolo del suo ultimo lavoro – è un iperconcentrato di dance-pop, come da parecchio tempo non si sentiva. Un album che sembra avere come unico imperativo quello di far ballare, ballare e ancora ballare, senza sosta. Un disco così i little monsters lo chiedevo da tempo alla loro diva.
Ed ecco che Lady Gaga è tornata per esaudire il loro desiderio, e lo ha fatto con la cifra stilistica che l’ha da sempre contraddistinta, quella dell’esagerazione: ascoltare Chromatica ha infatti un po’ lo stesso effetto che negli anni ’90 aveva far partire un CD di Hit Mania Dance, una sfilettata di brani destinati al dancefloor, che da un lato andavano benissimo per svagarsi per una serata, dall’altro rischiavano però di scivolare via nel segno dell’anonimato per lasciare posto al tormentone successivo.

Ed è proprio questo il problema di Chromatica: siamo davvero davanti a un disco degno di portare la firma di Lady Gaga? Puntare tutto sulla dance e sul mondo dei DJ era davvero la soluzione giusta?

Si è parlato di un ritorno alle origini, ai tempi d’oro di The Fame e The Fame Monster, ma se l’ispirazione sonora ha indubbiamente molto in comune, in Chromatica manca quasi del tutto l’effetto sorpresa di quei primi album e più che un lavoro realmente ispirato pare di ascoltare un esercizio di stile, per quanto ben confezionato.
A scandire lo scorrere delle tracce sono tre interludi di stampo cine-operistico permeati di archi, che sono anche gli unici momenti di relativa quiete tra una sezione e l’altra. In mezzo i brani si susseguono facendo eco agli anni ’90, età aurea della dance, tra house, EDM, techno e funk.
Tiene bene il tiro di Alice, che arriva appena dopo il primo interludio Chromatica I, seguito dal gustoso elettropop di Stupid Love e poi da Rain On Me, furbissimo duetto con Ariana Grande che strizza l’occhio alla nu-disco e che forse non avrebbe goduto di tanta attenzione se non fosse stato per i nomi delle due interpreti. Fun Tonight offre una bella prova vocale della Germanotta, pur non raggiungendo le vette di The Edge Of Glory.
Neanche il tempo di riposarsi con Chromatica II ed ecco il beat molleggiato di 911, farcito di giocosità elettroniche che tanto devono al passato (riascoltate la mai dimenticata Funky Town dei Lipps Inc. per farvene un’idea). Nulla di speciale il duetto con le sudcoreane BLACKPINK in Sour Candy, mentre house e funk la fanno ancora da padroni in Enigma e Replay.
Dopo il terzo interludio, l’ultima sezione dell’album parte con quello che è probabilmente il vero momento topico, Sine From Above, una cavalcata dal sapore quasi trance in cui Gaga prende per mano Elton John per portarlo sorprendentemente in un territorio musicalmente distante anni luce. E quel che più stupisce è che il risultato sbalordisce e funziona.
Il compito di chiudere è affidato a Babylon, altro pezzo figlio indiretto dei primi anni ’90 e altro momento funky-furbetto a cui sembra mancare solo una coreografia ufficiale di voguing per farne l’ennesimo inno queer.

In un progetto che sembra essere stato totalmente affidato a DJ e produttori e in cui il rischio di confondere le tracce una con l’altra è incombente, a portare valore sono i testi, l’elemento che più di tutti fa sentire ancora la presenza di Lady Gaga: Chromatica è il riassunto della sua storia, un racconto che passa dai momenti bui, dalla paure e dalla cadute per arrivare alla salvezza, portata inevitabilmente dalla musica.

Stilisticamente Chromatica è un album molto più affine al territorio europeo che a quello americano, e in questo va reso merito a Lady Gaga di aver fatto una mossa per nulla scontato. Quello che resta da capire è fino a quando durerà questa ostentata voglia di ballare, o se non era forse lecito aspettarsi uno sforzo di ingegno in più.

BITS-RECE: Inude, “Clara Tesla”. Quando l’elettronica si fa poesia

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

 

Metabolizzare l’elettronica per trasformarla in poesia. Sembra essere questo l’obiettivo di Clara Tesla, primo album degli Inude.
Dopo la pubblicazione dell’EP Love Is In the Eyes Of the Animals nel 2016, per il trio pugliese arriva ora il momento del grande esordio: il risultato è condensato in nove tracce sospese in un’atmosfera sintetica dai colori candidi e luminosi.
Un’elettronica che si muove lenta, a passo appena accennato, quasi senza voler fare troppo rumore, ma accarezzando le corde dell’anima a chi porge l’orecchio. Clara Tesla è il suono che hanno i bei sogni, il suono delle primi luci di un mattino d’inverno, è il suono di una visione così dolce da arrivare a sfiorare la malinconia,

La poesia di Clara Tesla trova il naturale completamento nei videoclip dei singoli, diretti da Acquasintetica. Una delicata delizia.