La delusione che si trasforma in forza dopo la fine di una storia fatta di bugie. Parla di questo Non ho più lacrime, l’ultimo singolo di Antonella Lo Coco. Un brano potente, che segna una virata verso sonorità rock, dopo i variegati colori pop dei suoi primi album. Ma Non ho più lacrime è anche il primo frutto dell’incontro tra Antonella e Fiorella Mannoia, che del brano ha scelto di curare la produzione.
Un brano che mette al centro il dolore, ma che si conclude con una dichiarazione di libertà. Perché dal dolore si impara sempre.
Non ho più lacrime nasce dall’incontro con Fiorella Mannoia: come siete entrate in contatto? E come si è sviluppata l’idea di dar vita prima a questo singolo e poi all’album, che vedrà proprio la produzione di Fiorella? Siamo entrate in contatto alla finale di X Factor nel 2012..in quell’occasione duettammo su una sua canzone. Successivamente Fiorella mi contattò perché aveva una bramo che riteneva perfetto per me: ci incontrammo per ascoltarlo insieme e da lì iniziammo il progetto. Proseguire oltre il brano è stata un’idea nata spontaneamente per dare una continuità al primo singolo. Sono felice di avere questa opportunità di lavorare con Fiorella e il suo team di lavoro soprattutto perché lavoreremo anche su alcuni brani da me scritti.
Il singolo sembra aprire un nuovo capitolo anche per quanto riguarda i suoni, che dal pop si spostano su un versante più rock: è così? L’album avrà questo taglio? Assolutamente si. Le sfumature rock sono sempre state in me e finalmente posso tirare fuori al mia anima musicale. L’album è ben rappresentato dalle sonorità di Non ho più lacrime.
Quali artisti, italiani e internazionali, vedi come punti di riferimento? Negli anni i punti di riferimento sono cambiati e sono tanti. Gli spunti internazionali hanno influenzato molto la mia scrittura, ho sempre ascoltato molto Tori Amos, i Depeche Mode, i Muse.
Credi che sia vero che il tempo aggiusta le cose e cura dal dolore? Credo che il tempo aiuti a essere più lucidi per poi affrontare le situazioni che la vita ci pone davanti. Ci sono vari tipi di dolore: il dolore per la fine di una storia d’amore è destinato a finire e a svanire con il tempo, il dolore per la perdita di una persona cara credo possa attenuarsi, ma mai finire.
In genere come ti poni di fronte alle situazioni dolorose: le affronti, pur sapendo a cosa porteranno, oppure cerchi il più possibile di evitarti di soffrire? Il mio carattere e la mia indole istintiva mi portano sempre a prendere di petto tutte le situazioni, positive e negative, e quindi a vivere le emozioni fino in fondo nel bene e nel male.
Per quella che è stata la tua esperienza, cosa hai imparato dalle esperienze dolorose? Il dolore è in qualche modo terapeutico? Le esperienze dolorose insegnano sempre qualcosa. Non credo che il dolore sia terapeutico, ma dal dolore si può imparare.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: cosa significa per te il termine “ribellione”? Il mio soprannome da sempre è Ribella, quindi direi che di ribellione ne ho masticata. Una ribellione adolescenziale sana e costruttiva che mi ha sempre portato a raggiungere i miei obiettivi.
BITS-CHAT: La mia semplice complessità. Quattro chiacchiere con… Nesli
“Ma se io mi ricopro di tatuaggi e mi faccio fotografare in copertina mezzo nudo, voi la mia musica la ascoltate?”
Nesli questa domanda l’ha buttata lì così, nel bel mezzo della chiacchierata. Una domanda che ha posto direttamente lui e che non può non lasciare stupiti, sorpresi, interdetti per la sua schiettezza. In effetti che i tatuaggi sul corpo di Nesli siano prolificati a dismisura negli ultimi due anni non è certo un dettaglio, lo si era già visto l’anno scorso a Sanremo, e lo si vede oggi sulla copertina del nuovo album, Kill Karma, dove Francesco Tarducci si è fatto ritrarre sfacciatamente a torso nudo, con il torace completamente ricoperto di inchiostro e i due medi alzati con le mani che tengono ben aperta la giacca rossa.
Ma come – direte – non era lui il rapper buono, quello che “il bene genera bene”? E adesso ci si presenta così spudorato? Sì, è lui, e che il bene genera bene lo crede ancora, oggi come ieri. E allora perché questa copertina? Narcisismo? Mah, forse un po’, dopotutto a Nesli si possono muovere tutte le critiche di questo mondo, tranne quella di non essere un brutto figliolo e di non potersi permettere di fare bella mostra del proprio corpo. Ma il gioco sta proprio qui, nel voler fare quasi mercificazione del “contenitore” per far arrivare la musica. Una verità che governa le regole del pop da sempre – quasi alla pari tra uomini e donne – ma che molto raramente viene rivelata con tanta limpidezza.
Nesli però è così, ti spiazza: tu credi di avere davanti un qualsiasi cantante piacione e ti ritrovi invece a parlare con un sorta di un animaletto selvatico. Come quando ti dice che il suo album precedente (Andrà tutto bene) era un disco che aveva quasi “dovuto” fare, perfettamente consapevole che non lo rappresentasse fino in fondo, perché nella sua testa c’era già l’idea di Kill Karma, il secondo capitolo di una trilogia che si concluderà verosimilmente l’anno prossimo: in Kill Karma Nesli ha voluto uccidere se stesso (il suo karma), togliere ti mezzo definitivamente il rapper per far posto al cantautore. Ma per arrivare a questo punto ha dovuto passare per la strettoia di Andrà tutto bene, con la partecipazione a Sanremo.
Cosa è successo tra Andrà tutto bene e Kill Karma? Il cambiamento è evidente… In passato ho sempre scritto con gli occhi degli altri, in questo caso invece ho scritto con i miei occhi, tutto è riconducibile a un fatto, un giorno, un nome. Mi piace far credere di fare tutto a caso, ma in realtà niente è lasciato al caso: ho voluto che questo album arrivasse dopo il libro perché già nel libro mi ero raccontato attraverso la scrittura, ora lo faccio attraverso la musica. Ho anche già pensato al prossimo disco, quello che chiuderà la trilogia: sarà molto visivo, fumettistico, ho già pensato alla grafica e alla copertina, e ci sono almeno sei o sette pezzi pronti. Lo lancerò in maniera particolare: mi sono inventato un alter ego che ucciderà definitivamente Francesco Nesli Tarducci, che da quel momento non esisterà più. Ho una visione molto dark e maledetta di questo progetto, e ho dovuto renderla pop il più possibile.
In un’epoca in cui si ragiona per singoli, tu pensi a una trilogia? Io sono nato in un periodo in cui si pensava per trilogie, basta pensare al cinema. Oltre alla musica non ho altri impegni o altri passatempi, per cui passo il mio tempo a immaginarmi tutti i dettagli dei dischi, penso alla pubblicazione. Oggi invece mi sembra che tutti siano interessati alle visualizzazioni su YouTube, come se quello fosse il metro per capire se sei un artista di successo: ma se un giorno YouTube si spegnesse, cosa resterà di questi giovani artisti illusi di fare successo in questo modo? Io scrivo tutto su carta e registro subito dopo con un giro di piano. Di tutto quello che faccio resta traccia, non dipendo dai server: vivo nell’era digitale, ma sono passato dall’analogico.
Nel 2013 avevi già portato un cambiamento forte: mentre tutti andavano verso il rap, tu con Un bacio a te e poi con l’album Nesliving vol. 3 facevi il percorso opposto. Perché allora hai sentito il bisogno di cambiare ancora? Il karma del titolo indica un cambiamento fisico: non si tratta di un cambiamento musicale, ma di un cambiamento di materia e di materiale, perché il cambiamento musicale c’era già stato.
Ultimamente sul tuo corpo sono comparsi numerosi tatuaggi: anche questo fa parte del cambiamento? È una provocazione: sapevo che avrei fatto questo disco con questa copertina. Non mi sono tatuato perché mi piacessero i tatuaggi, sono rimasto della stessa idea che ne avevo prima. Di solito chi si tatua lo fa per abbellirsi: io invece mi sono ricoperto di nero in maniera quasi indecente, mi sono rovinato. L’ho fatto a 35 come follia: per avere attenzione serve un bel contenitore. E allora se io mi tatuo tutto e mi metto mezzo nudo, mi ascoltate? Vi accorgete di me? Dentro di me la risposta è stata sì, la nostra società vuole questo. Volete questo da me per ascoltare il mio contenuto? Benissimo, lo faccio.
Una considerazione un po’ amara… Amarissima.
E se tra 10 anni ti guardi allo specchio e ti penti di questa scelta? Mi sono pentito di tante cose che ho fatto. Questa è stata una scelta drastica, ma in fondo ogni scelta lo è: in questo caso è molto visibile perché mi sono deturpato il corpo, ma ogni scelta implica un cambiamento, un non poter tornare indietro. Potrei pentirmi di questi tatuaggi, così come potrei pentirmi di molte altre decisioni che ho preso, si tratta sempre di un sentimento, una sensazione. Per me i tatuaggi sono come le uniformi militari: chi sta in esercito ha una divisa, chi sta in marina ne ha un’altra. Anch’io ho cambiato guerra: nel 2013 dovevo portare un cambio a livello musicale, oggi cambio rotta in un altro senso. Sono un artista, un folle, e come tale faccio delle scelte folli, radicali.
Una forma di follia che io stesso non avevo colto molto bene ascoltando le tue canzoni, ma che emerge ora dalle tue parole…. Ho sempre dovuto e voluto tenerla a bada, non potevo propormi così fin dall’inizio. Dentro di me vive una schizofrenia che mi fa avere davvero tante personalità: per me essere bipolare è una specie di antipasto, io di personalità ne ho molte più di due, tutte distorte, diverse, e nel tempo non ho voluto fare niente per aiutarmi. Anche nella musica mi vedo come un prisma con tante facce, e non mi sono mai venduto per qualcosa di diverso da ciò che sono. Cantante, cantautore, rapper: sono tutto, e forse non sono niente, ma questo per me è un dono del cielo.
In questa schizofrenia sta anche la scelta di aver messo come prima traccia dell’album una canzone come Anima nera? Tu eri quello che fino all’anno scorso cantava che “andrà tutto bene”, che “il bene genera bene”. Spiazzante, direi! In realtà sono due aspetti complementari, non possono esistere uno senza l’altro. Il mio “bene genera bene” passa attraverso le tenebre: in questo sono abbastanza un darkettone ottimista. I miei amici dicono che sono il principe delle tenebre e quando c’è troppo sole scherzano e mi chiedono di concentrarmi per far venire il brutto tempo. Sono un po’ come Carletto, il personaggio del cartone animato. Ma non potevo presentarmi da subito in questa veste “diabolica”, doveva esserci un percorso. Sono partito dal rap senza avere neanche un tatuaggio, adesso faccio pop e mi sono tatuato come uno che fa punk: un percorso affascinante direi. Sono io, nella mia semplice complessità.
Prima parlavi del terzo album della trilogia come di un progetto molto grafico: a livello fisico invece ti spingerai ancora oltre? Il cambiamento radicale dei tatuaggi c’è già stato, ormai restano poche parti del mio corpo che potrei riempire, e vorrei evitare di tatuarmi le mani, il collo e la faccia: sarebbe davvero troppo e darebbe fastidio anche a me. Al di là dei tatuaggi però, il prossimo album sarà il mio paradiso dantesco, con una libertà espressiva che non mi sono mai preso finora. Ho anche un pezzo da presentare a Sanremo: ditelo a Conti!
In Kill Karma quanta libertà ti sei preso rispetto ad Andrà tutto bene? Nel disco precedente mi sono auto inflitto una non-libertà: era una tappa obbligata che dovevo attraversare. Per me cantare è una passione, ma è anche un lavoro che implica delle dinamiche. Sapevo dove volevo arrivare, ma per farlo sapevo anche di dover passare per gradi, e non aggirare gli ostacoli come è mio solito: una di queste tappe è stato Sanremo, dove ho mostrato il primo cambiamento, mi sono staccato definitivamente dal pubblico di prima e dalla scena rap. Arrivavo da Carosello, un’etichetta indipendente, Universal mi aveva ripreso dopo avermi licenziato nel 2008, per cui per la major era come ammettere un errore e tornare sui propri passi. La pressione che avevo addosso era altissima. Con Sanremo dovevo limitare il Nesli maledetto: Andrà tutto bene è stato realizzato in otto mesi con una squadra che non conoscevo e al cui interno c’erano delle incomprensioni, sentivo che una parte dei collaboratori non credeva in me. Dalla mia parte avevo il mio produttore, Brando, che mi spronava a continuare il lavoro perché avevamo tempi strettissimi prima di Sanremo: avrei voluto sparire, morire. Sentivo gli occhi di tutti addosso, sapevo che molti aspettavano il mio fallimento. Inoltre, Buona fortuna amore l’ho provata pochissimo prima del festival, in studio non avevamo tempo e a casa non riuscivo: la prima prova sul palco è andata malissimo perché a Sanremo si usano gli ear monitor e io non ero abituato, poi in qualche modo mi sono arrangiato e l’ho cantata, non bene come avrei potuto, ma è andata. Per Kill Karma è stato tutto diverso, non avevo i fucili puntati, non c’era Sanremo come tassello obbligato e il disco è stato fatto come volevo io.
Se pensi alla tua vita fino ad oggi, qual è stato il più grande errore che hai compiuto? Ne ho fatti davvero tanti: quando c’era da scegliere, io sceglievo puntualmente di fare una cazzata, non saprei dirti perché. Non so neanche se non li rifarei, forse semplicemente li affronterei in maniera meno istintiva. Una cosa che dico sempre ai ragazzi è quella di portare avanti le proprie idee, mi piacciono le persone con le idee chiare, anche a costo di intestardirsi su un unico pensiero. Non penso che per forza si debbano fare mille esperienze: non è facile trovare persone che sanno quello che vogliono senza sentire il bisogno di aver provato tutto.
Che opinione hai dei ragazzi di oggi? Quasi tutti i giovani se ne vogliono andare all’estero, e a me viene da dire “ma dove andate tutti? Perché ve ne andate? E qui chi resta? Solo i disillusi, quelli che non votano?”. Se mi dicono di andare all’estero, io dico no, resto qua: se andare via significa evoluzione, io preferisco l’involuzione. Non ho nemmeno il passaporto! Ho viaggiato pochissimo, e mi sembra che i ragazzini di 14 anni abbiano viaggiato più di me, eppure del mondo non sanno nulla, non conoscono più di quanto non potrebbero conoscere attraverso le foto di Instagram. Nelle situazioni, il segreto non è esserci, ma starci. Mi piacerebbe vedere giovani che imparano i veri mestieri, a fare gli artigiani, a restare legati alla vita vera.
Ti riferisci anche all’ambito musicale? Non dobbiamo pensare di avere tutti il sacro fuoco dell’arte che ci brucia dentro. Tutti vogliono fare i cantanti, gli attori, le modelle, i broker, mentre nessuno vuole più fare il macellaio o il panettiere: e come mangiamo? In questo sono molto estremo, non si può instillare nei giovani l’idea che tutti possono fare gli artisti. Stiamo costruendo un mondo finto: tra cinque anni i social saranno modificati profondamente, tutto si sarà trasformato unicamente in business. E i ragazzi non lo sanno, nessuno glielo dice.
Se nella tua vita non ci fosse stata la musica, come l’avresti riempita? Sarei stato un viaggiatore.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: cosa significa per te il termine “ribellione”? Ribellione è stare fermi e riuscire a cambiare ciò che sta intorno. Ribellione è qualcosa di solido, silenzioso, fermo in una piazza, capace però di creare una manifestazione esterna.
BITS-CHAT: Un rap violento, che parla (anche) d’amore. Quattro chiacchiere con… Luchè
“Un disco molto personale, con momenti introspettivi e dark: ho voluto trovare un suono che mi distinguesse da quello che c’è in giro. Ho lavorato tanto sui ritornelli. Ci sono pezzi più forti, altri più intensi, parlo anche d’amore. Non ci sono invece pezzi crudi, O’ Primmo ammore in questo senso è un’eccezione, perché non voglio ripetermi: ho voluto parlare di me, ma in modo diverso dal passato, ho messo davanti la mia persona rispetto al contesto.”
Così Luchè parla del suo ultimo album, Malammore, il terzo lavoro solista da quando nel 2012 il progetto Co’ Sang, di cui faceva parte con il collega ‘Ntò, ha cessato di esistere. Da allora sono arrivati gli album L1 e L2.
O’ Primmo ammore è stato uno dei primi brani che il pubblico ha ascoltato del nuovo disco, essendo stato inserito nella colonna sonora della serie TV Gomorra. Già, Gomorra, proprio quella “di Saviano”, quella di Napoli, la città di Luchè, anche se ormai vive da parecchi anni a Londra.
“Spesso mi capita di spiazzare le aspettative: non sono per forza il rapper del ghetto di Napoli. Sono anche quello, ma non solo, e mi piace cambiare direzione ogni volta, far venire fuori qualcosa di nuovo, anche se all’inizio chi mi ascolta potrebbe non capire.”
Perché scegliere Che Dio mi benedica come singolo di lancio? Quella è una canzone che difficilmente ci si aspetta da me. Parla di un ragazzo che non si piace, ha dei complessi, sta uscendo da una relazione. Una situazione che ho vissuto sulla mia pelle, ma ognuno di noi ha delle insicurezze, tutti almeno una volta ci siamo odiati, ecco perché ho voluto scriverla.
E la scelta del titolo dell’album? Che cos’è il Malammore? Non potevo continuare la serie L3, L4, L5… Forse in futuro ci tornerò. Malammore è stato il mio primo tatuaggio, fatto a 17 anni, ma è anche il nome di uno dei personaggi di Gomorra. E’ una parola che indica l’amore, la passione, il dramma, racchiude il mood del disco: è un amore dannato, una passione che ti annienta, come la musica per me. Rimettermi in gioco ogni volta, cercare di superarmi mi distrugge, anche se io amo la musica: amo la canzone finita, non amo il processo di creazione. Malammore è questo, un compromesso di amore e sofferenza.
Questa sofferenza si combatte? Sì, ma non so bene come: si combatte e basta. Io continuo a fare musica perché mi sento spronato da quelli che mi ascoltano, so che ci sono loro che aspettano le mie canzoni, e questo mi fa continuare a scriverne di nuove.
In Violento fai riferimento al fatto che alle major non piaceva la tua musica: resta il fatto però che questo album esce per Universal. Cos’è successo? Ti sei censurato per poterlo pubblicare? No, no, la libertà che mi sono preso è stata totale. Ho firmato con Universal a disco già chiuso: negli incontri che ho avuto con i discografici per definire l’accordo, mi hanno dimostrato di aver capito che esiste un mercato hip hop fatto da un determinato numero di persone, e che quel mercato se lo dividono i vari rapper, ognuno con la propria fanbase. Quindi non è tanto importante avere un singolo radiofonico, ma è l’artista che tira: se c’è un singolo forte a disposizione meglio, ma insieme siamo arrivati alla considerazione che il pubblico segue il rapper indipendentemente dal passaggio in radio. Ecco perché non mi hanno imposto nulla. Nella canzone dico che alle major non piaccio perché il mio sound è violento, ma è sempre stato così.
Tra le collaborazioni ci sono Gue Pequeno, Baby K e CoCo: perché hai scelto di coinvolgere loro? Con Gue Pequeno abbiamo fatto Bello, un pezzo forte, pieno di punchlines, “spaccone”, tamarro, come ama fare lui. Baby K invece l’ho coinvolta per un pezzo d’amore, Quelli di ieri: ho fatto io il beat e ho chiamato lei per la parte cantata, sapendo già che le sarebbe piaciuto. CoCo lo seguo dagli inizi, è il mio migliore amico: insieme stiamo creando il movimento “black Friday”. Per il resto, ho lavorato con il gruppo di lavoro che già mi seguiva.
Malammore è un album piuttosto lungo, con 19 pezzi: avevi tanto da raccontare? Dopo due anni dall’ultimo album, non volevo tornare con un disco di 11 pezzi, sarebbe stato incompleto: inoltre, 3 tracce erano già uscite, per cui di fatto gli inediti sono 16. Volevo bilanciare i vari stili, le influenze. Quando scrivo, di solito scarto pochissimo: se non mi sento sicuro di un pezzo, non lo finisco neanche.
Pensi che l’hip hop sia cambiato in questi ultimi 3-4 anni di grande esposizione mediatica? E’ cambiato molto: la nuova generazione di rapper strizza molto l’occhio all’America, molto più di quanto non facessimo noi. Tra le cose che vedo e che non mi piacciono c’è la ricerca della canzone trash, fatta per una comicità “alla Pierino e Bombolo”, come se fossimo un pubblico di cretini. Dall’altra parte, ci sono però dei rapper che hanno sonorità internazionali, che si richiamano alla Francia o, come dicevo, all’America: sono giovani, per cui magari devono crescere, ma ci portano fuori da quel fastidioso “rap all’italiana”. Il pubblico cerca dei messaggi, cerca dei leader, dei punti di riferimento, e i rapper possono essere in questo senso dei modelli.
Una domanda di rito per BitsRebel: cosa significa per te il termine “ribellione”? La ribellione non la definisci, la provi. In questa società, la più grande forma di ribellione è essere se stessi: oggi i ragazzi si muovo in massa, non ragionano da soli, ma per schemi. La ribellione è importante se ha uno scopo, non se è fine a se stessa: penso a Napoli, una città dove la ribellione è necessaria, perché siamo stati strumentalizzati e spesso viviamo credendo che questa sia la situazione che ci meritiamo. Per Napoli, ribellarsi vuol dire opporsi a un destino che sembra già scritto: dobbiamo ritrovare la dignità, meritiamo di avere degli input, meritiamo un sistema che funzioni, meritiamo di non sentirci inferiori. Perché in Italia quasi nessuno ha parlato dell’evento di Dolce&Gabbana che si è svolto a Napoli, mentre i media stranieri sì? Perché Napoli serve per essere strumentalizzata, per farci Gomorra: c’è razzismo, dà fastidio vedere Napoli capitale della moda, anche solo per qualche giorno. Apprezzo Saviano soprattutto quando parla di politica, meno quando analizza l’attualità: le sue denunce sarebbero state utilissime se poi fosse cambiato qualcosa, ma nella sostanza la rivoluzione sociale non c’è stata.
Nell’assopimento delle coscienze, la musica ha delle colpe? La musica no, sono gli artisti ad averle: dipende da come si usa la musica, e oggi molti la sfruttano solo per diventare famosi. La musica potrebbe fare tantissimo, ma deve scontrarsi con queste situazioni, e con una grande ignoranza del pubblico.
“E di colpo avere trent’anni
Sentirne il morso sul culo
E convincerti che sei uno dei tanti
Di quella generazione
Cresciuta dalla televisione
Figlia di un ventennio
Di ruberie sotto il sole”
Trent’anni. Uno dei primi, grandi traguardi del calendario biologico delle nostre vite, dopo quello dei 18.
Con la differenza che se tutti non vedono l’ora di potersi finalmente dire maggiorenni, molti meno sono quelli che ambiscono a vedere quel “3” nel posto delle decine della propria età. Un traguardo per alcuni così tremendo che nel 2001 Gabriele Muccino ci ha fatto ruotare attorno il suo film L’ultimo bacio, tratteggiando – in toni tragicomici – una generazione disperata e senza punti di ancoraggio.
Perché se a 18 anni hai ancora tutto (o quasi) da programmare, arrivato ai 30 devi iniziare a fare i primi conti. E’ quel “morso sul culo” di cui parla Paolo Simoni in Io non mi privo, il primo singolo estratto da Noi siamo la scelta, il suo nuovo album, dedicato proprio alla sua generazione, i trentenni di oggi.
Un disco tanto gradevole all’ascolto, quanto amaro nei contenuti, anche se non del tutto disilluso. La speranza di salvarsi questa generazione ce l’ha, ma deve agire – anzi, reagire – insieme, superando l’egoismo e la tentazione di scappare. Come ha fatto lui, che a un “viaggio della speranza” oltre la Manica ha preferito un genuino bicchiere di lambrusco qui in Italia. Alla faccia della Brexit.
Noi siamo la scelta è un disco “dedicato” alla generazione dei trentenni di oggi: perché hai sentito la necessità di far ruotare l’intero album su questo argomento? Perché da trentenne – ne ho trent’uno per l’esattezza – mi sono ritrovato a dover affrontare faccia a faccia il problema. Essere giovani in Italia, con tanta voglia di fare e magari con un po’ di talento, spesso non paga. Le canzoni mi hanno indicato la strada. Io mi sono solo fatto attraversare da questo flusso creativo. Mi piacerebbe donare speranza ai miei coetanei. Sono uno di quelli che ha deciso di non partire per l’Inghilterra qualche anno fa… Ad oggi, in base agli ultimi fatti accaduti, mi sembra di aver scelto bene.
Come hai vissuto il traguardo dei trent’anni? Io ci sono arrivato a marzo: in alcuni momenti se ci penso ho un piccolo brivido, altre volte invece l’idea di avere trent’anni mi lascia del tutto indifferente… Per certi versi mi sento con molte più energie. A mio avviso è una bellissima età. Capisci più cose, sei meno stupido, vai meno in discoteca e di più al cinema. Credo che i trentenni siano il punto di svolta possibile per questo paese. Se solo lo volessimo veramente…
Se ti guardi intorno, che generazione vedi? Ti senti parte di essa o in qualche modo ti senti diverso dai tuoi coetanei? Mi sento uno come tanti altri. In realtà siamo tutti uguali, con gli stessi problemi, solo che facciamo battaglie personali e non collettive. Forse siamo distaccati anche da certe tendenze modaiole a cui ci hanno abituati. Questo è il nostro più grande difetto, sempre secondo il mio punto di vista.
Al di là della mancanza di reazione, come canti in Una reazione, quali colpe pensi possano essere attribuite ai trentenni? Di cosa possono essere ritenuti responsabili? Ci sono margini di miglioramento, di ripresa, insomma, speranza? Noi trentenni ci ritroviamo un conto da pagare senza aver consumato. Questo purtroppo non dipende da noi ma da quelli che sono venuti prima e che ci hanno consegnato questo bel pacco. La speranza c’è! Bisogna volerla e soprattutto è ora di incazzarsi per le cose che veramente ci riguardano. Se fossimo capaci di innamorarci di noi come “gruppo di persone” sarebbe già un grande passo… Come ti ho detto prima, tendiamo a isolarci piuttosto che fare massa.
L’immobilità dei trentenni di oggi a cosa pensi sia dovuta? Incapacità innata di prendere posizione? Pigrizia morale? Mancanza di stimoli? Oppure, girando la domanda, cosa avevano i “trentenni di ieri” in più? Secondo me un po’ tutte le cose che hai detto tu, più il rincoglionimento di vent’anni di TV, aggiungerei. Ci hanno abituati a “non reagire” e a “delegare”. La troppa informazione ci ha inibiti e desolati. Abbiamo ascoltato troppo i consigli di mamma e papà.
Nel primo singolo estratto dall’album, Io non mi privo, fai anche riferimento a quelli che hanno scelto di trasferirsi all’estero. Come giudichi questa scelta? In parte ho risposto già all’inizio: sono uno di quelli che pensa che sia necessario restare e cercare di cambiare le cose. Ho amici laureati che sono partiti, fanno i camerieri e sono comunque infelici. Che senso ha? Stai qua e soffri con noi, no?
L’estero offre davvero maggiori e migliori opportunità oppure sono solo illusioni frutto della nostra abituale esterofilia, che ci fa sembrare più belli e appetibili i “giardini” dei nostri vicini di casa? La tua domanda contiene già una bella risposta. A qualcuno forse fa bene, perché magari ha un tipo di lavoro o un obiettivo preciso, ma se è solo per scappare a cercare altra identità lo trovo controproducente. Un mio amico bolognese dopo otto mesi di Londra è tornato con dieci chili in meno, pieno di brufoli in faccia e con un accento e una spocchia da schiaffi. Sembrava avesse capito tutto del mondo. Era insopportabile. Per fortuna ora è tornato e beve lambrusco come allora.
Musicalmente parlando, in Noi siamo la scelta mi è sembrato di sentire molta più elettronica rispetto ai dischi precedenti: è così o è solo un’impressione? E’ il segno di una nuova strada che hai voluto intraprendere? Si! Mi sono divertito molto con i sintetizzatori e le batterie elettroniche. Volevo un suono nuovo, più fresco. Credo che sia la strada che continuerò a percorrere. Invece di snaturami mi da un valore aggiunto e questa cosa mi fa molto piacere. Il pianoforte rimane comunque alla base. L’incastro di questi due mondi mi affascina.
Chi è la Giuly a cui è dedicato uno dei brani? E’ stata la mia insegnante di vita. Era una pittrice e donna fortissima, molto colta. Mi ha salvato e mi ha fatto conoscere il mondo sensibile dell’arte quando ero ancora adolescente. Le devo tutto. Che Dio la benedica!
Credi che la musica – e l’arte in generale – possa avere ancora qualche potere civile, la forza di condizionare la società? Certo che sì! C’è un cambiamento in corso, solo che è più invisibile. Gli artisti in generale oggi dovrebbero prendere forza e reagire per primi. Le persone a loro volta seguiranno e il mondo nuovo arriverà!
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: cosa significa per te il termine “ribellione”? E c’è stata almeno un’occasione nella vita in cui ti sei sentito un ribelle? Sono un ribelle nato. Fin da piccolo decidevo e cercavo di non far decidere agli altri per me. La ribellione è vita, cultura, poesia e talvolta verità! La ribellione mi ha portato a emanciparmi: ribellarsi soprattutto con se stessi, anche quando si sono raggiunti degli obiettivi importanti. E’ carburante vitale!