BITS-CHAT: Il mio Ego r&b. Quattro chiacchiere con… Biondo

Biondo
Il serale dell’edizione 2018 di Amici sarà ricordato anche per l’affaire autotune, che ha tenuto impegnati i professori del talent di Canale 5 in una discussione tra chi ne permetteva l’utilizzo durante le esibizioni e chi invece ne chiedeva il divieto. Al centro della polemica ci era finito suo malgrado Simone Baldasseroni, meglio conosciuto dal pubblico come Biondo. Romano, classe 1998, il ragazzo è stato a tutti i diritti uno dei protagonisti dello show, e seppure qualcuno lo ha scambiato per l’ennesimo rappresentante della trap, la sua musica si muove in ben altra direzione, quella dell’r’n’b.

Dopo la pubblicazione nei mesi scorsi dell’EP Deja vù, lo scorso 2 novembre è uscito Ego, il suo primo album. Dieci tracce che vanno al di là della patinata idea televisiva che il pubblico può essersi fatto di lui, per offrire una nuova prospettiva su un ragazzo che ha saputo guardarsi dentro e rivelare a se stesso anche nuove inquietudini.
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Perché Ego?

E’ un titolo che può avere una doppia lettura. Questo è il mio primo vero album ufficiale, ed è il lavoro più personale che ho realizzato, ci ho lavorato a lungo negli ultimi mesi. Ho scritto i primi brani a gennaio, quando ero ancora ad Amici, ma il lavoro si è svolto soprattutto quest’estate. Capitava spesso che durante il giorno fossi in mezzo a molte persone e alla sera mi ritrovavo da solo in hotel, e questa solitudine mi ha portato a guardarmi dentro. E’ stato un viaggio introspettivo che ho voluto riportare nel disco, invitando le persone a entrare nel mio mondo, nel ego appunto. Ma Ego rimanda anche all’esposizione pubblica degli artisti, a quella componente narcisistica che hanno un po’ tutti quelli che fanno questo lavoro.

Quella che si percepisce nel disco è un’atmosfera spesso cupa, inquieta: è corretto?
Sì, esattamente: anche questo fa parte di quel viaggio interiore che mi ha portato a scoprire nuovi lati di me, angoli della personalità che non sapevo di avere. E’ stata una scoperta che a volte mi ha anche fatto paura, ma credo che faccia parte della crescita, è la vita che va così. Ho imparato a conoscermi di più e ho chiuso rapporti che si sono rivelati falsi.

Non hai paura che mostrare questi nuovi lati della tua personalità possa allontanare chi ti ha conosciuto durante Amici?
Forse quelli che seguono la moda del momento e si fermano alle apparenze televisive, ma se parliamo di veri fan, non credo che possano allontanarsi, perché mi conoscono bene e sono davvero interessati a quello che faccio.

Facetime si chiude con una domanda: “e tu mi vuoi per il mio nome o per Simone?”. Da quando è arrivata la notorietà è cambiato il tuo modo di relazionarti con le persone?
Sì, sia con le ragazze che con gli amici. Ho capito che ci sono persone che si avvicinano a me perché solo sono interessate al personaggio: spesso riesco a riconoscerle in tempo e a distinguerle da chi mi sta vicino per un vero sentimento di amicizia, ma non è sempre facile.
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Oggi le classifiche sono dominate dal rap e dalla trap, mentre il tuo percorso ti ha portato a seguire una via diversa quella dell’r’n’b. Pensi di essere in questo un precursore in Italia?
Io credo di sì, non mi sembra che in passato ci sia stato qualcuno qui da noi che abbia affrontato questo genere, almeno tra gli artisti affermati, mentre in America l’r’n’b ha una tradizione molto forte. E sto parlando dell’r’n’b moderno, perché se invece intendiamo il Rhythm And Blues il discorso è diverso. Non ho inventato nulla, ma sicuramente ho aperto le porte a qualcosa di nuovo, che in Italia non era mai arrivato al grande pubblico. Da una parte questo è stato difficile, perché non avevo modelli italiani a cui potermi ispirare e non ci sono altri artisti con cui posso collaborare, ma dall’altra ho avuto la possibilità di crearmi un linguaggio totalmente personale.

Sogniamo in grande: a livello internazionale con chi ti piacerebbe collaborare?
Drake e Post Malone.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
La ribellione è un senso di sfogo, che nella musica prende forma nell’r’n’b e nell’hip-hop. E’ da sempre nella natura di questi generi. Se penso alla mia generazione, lo sfogo della ribellione è molto attuale, perché siamo cresciuti sentendoci dire che siamo senza futuro, per cui lo stimolo a ribellarci ci viene istillato dall’alto.

BITS-CHAT: “Un album? Forse. E per il futuro penso all’Africa”. Quattro chiacchiere con… Elettra Lamborghini

BITS-CHAT: “Un album? Forse. E per il futuro penso all’Africa”. Quattro chiacchiere con… Elettra Lamborghini


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Nel suo ultimo singolo canta di essere sempre stata “mala”, cattiva, ma forse non c’è molto da crederle.
Elettra Lamborghini
è una delle grandi rivelazioni del panorama pop televisivo e musicale italiano, anche se lei guarda al di là dell’oceano: rampolla della ben nota casa automobilistica bolognese fondata dal nonno Ferruccio, si è fatta conoscere al grande pubblico nella seconda stagione di Riccanza.

Un amore smisurato per il reggaeton, un talento innato per il twerking (“mi culo es verdadero”, dichiarava orgogliosa nel featuring di Lamborghini con Gue Pequeno) e una buona dose di ironia l’hanno portata a pubblicare due singoli nel corso dell’ultimo anno: il primo, Pem Pem, è stato certificato disco di platino e ha un video che conta oltre 70 milioni di visualizzazioni; il secondo, Mala, è nato sotto l’etichetta di Sfera Ebbasta, la BHMG.

Durante questa intervista parla del suo amore per il mondo latino, del sogno di un album, mentre per il futuro rivela di avere in mente qualcosa che non ha a che fare con il mondo dello spettacolo. E neanche con il twerking.

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Facciamo un bilancio di quest’annata pazzesca?

Ti dico la verità, sono molto grata a Gesù. Ho conosciuto persone meravigliose, ho viaggiato un sacco, ho pubblicato due singoli, e poi gli impegni televisivi con Ex On The Beach. E’ stato un allineamento di stelle fortunato. Speriamo che l’anno prossimo sia ancora meglio!

Ma ti immaginavi una risposta così forte da parte del pubblico?
Sì e no. Sulle canzoni lavoro sempre tanto, sono molto puntigliosa, cerco il pelo nell’uovo e a volte faccio saltare fuori dei problemi all’ultimo momento se qualcosa non mi convince. Non mi piace fare le cose a caso. Ma c’è ancora tanto da lavorare, siamo solo all’inizio.

Recentemente sei anche stata assoldata da BHMG, l’etichetta di Sfera Ebbasta.
Mi trovo molto bene e stiamo lavorando un sacco in studio: ho già alcuni brani pronti, e uno in particolare mi piace moltissimo. Non è ancora finito e non posso dire altro, ma lo ascolto in continuazione e credo che sarà il prossimo singolo. Ovviamente, canto sempre in spagnolo.
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Quindi ci dobbiamo aspettare anche un album?
Mah, chi lo sa? Di pezzi ce ne sono e mi piacerebbe molto. Il mio obiettivo è quello di concentrami sul mercato latino-americano, perché è quello il mio ambiente. Mi sto trasferendo in Brasile e prossimamente andrò anche a Miami: l’Italia resterà sempre casa mia, ma per quello che voglio fare è giusto che vada là. 

Sogni qualche collaborazione?
Anni fa ti avrei detto Bad Bunny, Ozuna o Daddy Yankee, che per me è il re del reggaeton. Ultimamente però preferisco cantare da sola: vedo tanti cantanti buttarsi continuamente in featuring e poi non riuscire a fare niente da soli. Io vorrei fare le collaborazioni giuste, sceglierle bene, ma costruirmi da sola la mia carriera.

Musica, televisione… cos’altro ti piacerebbe fare?
Per ora direi che va bene così, almeno se parliamo del mondo dello spettacolo. In futuro invece mi piacerebbe aprire un’associazione o comunque fare qualcosa per aiutare i bambini dell’Africa. Un mio desiderio sarebbe anche quello di adottarne uno, ma in Italia è molto difficile, bisogna essere sposati da almeno tre anni e non so se potrei farcela (ride, ndr). Sarebbe bello se attraverso il mio lavoro riuscissi ad aiutare chi ha bisogno.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Me stessa! (ride di nuovo, di gusto, ndr) Faccio sempre un po’ quello che mi pare, e non me ne rendo conto, perché la trovo la cosa più naturale del mondo. Tutti dovrebbero poter fare quello che vogliono, non c’è niente che debba essere vietato, a meno che non limiti la libertà degli altri. Non si dovrebbe mai aver paura di dire una parola o fare un gesto che ci nasce spontaneo.

BITS-CHAT: Indie pop made in Parma. Quattro chiacchiere con… I Segreti

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Angelo Zanoletti, Emanuele Santona e Filippo Arganini arrivano da Parma e sono rispettivamente voce e tastiere, basso e batteria dei I Segreti, un progetto musicale nato nel 2015 con un EP autoprodotto e approdato ora al primo album ufficiale, Qualunque cosa sia.
Suonano indie pop, e la loro musica rimanda agli echi del passato, come dimostrano anche i singoli L’estate sopra di noi e Torno a casa.
Dopo un lungo percorso, il loro disco vede la luce, portando un senso di libertà e soddisfazione, soprattutto perché di solito – dichiarano – aDa Parmagli artisti delle città di provincia manca la voglia di guardare fuori.

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Quali sono i “segreti” che custodite? 
Angelo: Se ci fai caso, nei nostri testi c’è sempre qualcosa di introspettivo, le nostre canzoni rappresentano la nostra parte più intima, ecco perché abbiamo scelto di chiamarci così.

Ascoltando i brani dell’album sembra di risentire echi del passato. Con quali riferimenti musicali siete cresciuti?
Filippo: Ognuno di noi ha i suoi riferimenti personali, ma in generale tutti amiamo molto la musica degli anni ’70 e ’80. Anche la copertina dell’album rimanda un po’ a quell’epoca.
Angelo: Tra gli italiani, a me piacciono molto i Baustelle. Credo siano una delle realtà più interessanti in circolazione, e anche nel loro sound ci sono riferimenti agli anni ’70.
Emanuele: Io ho da sempre un amore grandissimo per Lucio Dalla, un grandissimo.

Pensando a Dalla non può non venire in mente Bologna, una città importantissima per il cantautorato italiano. Parma com’è la situazione?
Emanuele: Io direi che tutta l’Emilia è una regione che ha dato molto alla musica italiana, più di tutte le altre regioni. Parma però è purtroppo una città di medie dimensioni, come lo sono Reggio o Modena: queste città tendono a chiudersi in se stesse, si fanno bastare, perché non sono abbastanza grandi da offrire le opportunità di Bologna o Milano e non hanno quella spinta verso l’esterno che invece anima chi viene dai piccoli paesi. Vasco e Ligabue, per esempio, arrivano da due paesini di provincia, Zocca e Correggio, e sono realtà come quelle che danno agli artisti la voglia di uscire verso le grandi città, di “spaccare tutto”. In città come Parma invece si tende a restare fermi, chiusi nei soliti circuiti.

In quanto tempo è nato il disco?
Filippo: E’ stato un lavoro piuttosto veloce: in 6 mesi era pronto. Ma tutto è partito ormai due anni fa, quando abbiamo conosciuto Simone Sproccati, il nostro produttore. Da allora sono successe un sacco di cose, ma in queste canzoni ci ritroviamo ancora perfettamente: è come se le avessimo chiuse qualche giorno fa.

Avete trovato qualche ostacolo in particolare?
Filippo: Direi di no, è stato un percorso lungo, ma armonico: grazie all’EP precedente abbiamo incontrato tante persone che hanno creduto in noi.
Emanuele: Forse il momento più difficile è stato dopo la chiusura del disco, quando davanti a noi si è aperta l’incognita del futuro: non sapevamo cosa sarebbe successo, e per mesi siamo rimasti fermi, quando invece ci aspettavamo di vedere subito dei movimenti.
Filippo: Questa però è anche forse la cosa che ci ha in qualche modo salvato, perché se avessimo fatto uscire subito il disco, oggi saremmo qui a preoccuparci di doverne far uscire un altro. Invece siamo stati fortunati ad aver avuto un percorso più lento, ma ci meritiamo tutto.

In un periodo come questo, difficile per la discografia, molti artisti vedono la realizzazione del disco come un passaggio verso il live, che è spesso considerato l’obiettivo finale. Anche per voi è così?
Angelo: Il live è sicuramente importante, ma mentirei se dicessi che è il momento che preferisco di questo lavoro. Per me è semplicemente un passaggio, una tappa: fa parte del gioco, forse è più importante per chi viene ad ascoltarti.
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Venite indicati come una delle nuove realtà dell’indie italiano. Ma per voi cosa significa essere “indie”?
Filippo: Noi scriviamo semplicemente delle canzoni, facciamo la nostra musica senza pensare a come potrebbe essere catalogata. Definirla indie serve per inserirla in un canale, che attualmente è quello più in voga in Italia.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
Emanuele: E’ un atteggiamento, essere quello che si vuole essere Non è facile, perché può turbare gli altri, e infatti sono in pochi a riuscirci davvero.
Filippo: Per me è più una liberazione dagli schemi che vengono imposti dall’esterno, dalla società, è qualcosa che ha a che fare con se stessi.
Angelo: E’ l’applicazione dei propri il principi e dei propri valori, il coraggio di seguire il proprio istinto.

Il 26 ottobre partirà da Parma il “Qualunque cosa sia un tour”, una serie di appuntamenti live nei club di tutta Italia.
Queste le date confermate
:

26 ottobre – Parma @PULP – Release Party
16 novembre – Trento @BOOKIQUE
17 novembre – Fucecchio (FI) @LA LIMONAIA CLUB
24 novembre – La Spezia @TBA
30 novembre – Milano | FUTURA DISCHI PARTY @LINOLEUM (ROCKET)
1 dicembre – Varese @CANTINE COOPUF
2 dicembre – Como @OSTELLO BELLO
14 dicembre – Treviso @HOME ROCK BAR
21 dicembre – Torino @OFF TOPIC
22 dicembre – Carpi (MO) @MATTATOIO
29 dicembre – Rimini @BRADIPOP CLUB
12 gennaio 2019 – Rosà’ (VI) | FUTURA DISCHI PARTY @VINILE
19 gennaio 2019 – Bologna | FUTURA DISCHI PARTY @COVO CLUB
25 gennaio 2019 – Santa Maria a Vico (CE) @SMAV
26 gennaio 2019 – Avellino @TILT
27 gennaio 2019 – Roma @SPAGHETTI UNPLUGGED
1 febbraio 2019 – Foggia @THE ALIBI
8 febbraio 2019 – Asti @DIAVOLO ROSSO
9 febbraio 2019 – Pistoia @H2O

BITS-CHAT: Una “pausa” tra Friends e Roma. Quattro chiacchiere con… i Geller

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Fanno un indie pop sul “deprimente andante”. Anzi, lo hanno definito loro stessi “PresammalepoP”.
Sono i Geller, un duo romano emergente che da qualche settimana si sta facendo conoscere con Pausa, il singolo d’esordio: un racconto di serate ordinarie, tra serie TV, chiacchiere su Whatsapp e qualche sano bicchiere.

Per conoscerli un po’ di più abbiamo chiesto a Valerio, una delle due anime del progetto.
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Partiamo dalle basi: chi sono i Geller?

Siamo Valerio e Dario, siamo di Roma, quartiere Centocelle, e scriviamo canzoni.

Come avete deciso di iniziare a fare musica insieme? Sulla vostra pagina Facebook si parla di una festa in una casa che “fluttuava”…
Sì, è stato uno di quei momenti in cui sei un po’ per aria e ti arrivano idee brillanti. E niente, io avevo dei testi scritti e altri da scrivere, li ho fatti leggere a Dario e lui li ha messi in musica. Sintetizzando molto, è andata così.

È quella stessa sera che è nata Pausa?
È nata qualche giorno dopo. È stata la prima canzone che abbiamo scritto e che ha dato il via al disco.

Sempre sulla vostra pagina Facebook, alla voce “genere” si legge PresammalepoP 90’s. Cosa vi piace ascoltare?
Tante cose, dall’indie al pop, dagli Arctic Monkeys agli 883, così tanto per dire.

Prima di diventare i Geller quali erano i vostri progetti?
Abbiamo avuto altre band, ma di tutt’altro genere. Suoniamo comunque da quando abbiamo quattordici anni, forse anche da prima. Di esperienze ne abbiamo fatte.

Da dove avete preso il nome?
DaRoss Geller, un personaggio della serie Friends.

Dopo Pausa cosa aspetta i Geller?
Uscirà il video fra pochissimo, e poi il nuovo singolo il 23 ottobre.

BITS-CHAT: Partire e sentirsi a casa. Quattro chiacchiere con… Valentina Parisse

BITS-CHAT: Partire e sentirsi a casa. Quattro chiacchiere con… Valentina Parisse

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Quando incontro Valentina Parisse, lei mi accoglie con un sorriso e una delle più vigorose strette di mano che abbia mai ricevuto. Ha addosso un entusiasmo luminoso, che ti mette subito a tuo agio. “A volte ho paura di sembrare una bambina il giorno di Natale” confessa durante la chiacchierata parlando del suo lavoro, la musica. In realtà, la sensazione che comunica è quella di una ragazza che sta vivendo nella maniera più giusta le enormi occasioni che le stanno capitando, e che ha imparato a tenersi la valigia sempre pronta perché non sai mai quando potrebbe arrivare una chiamata.

Dopo essere volata in Canada nel 2011 per realizzare l’album d’esordio, Vagabond, e aver recentemente scritto per Renato Zero e Michele Zarrillo, il suo ultimo singolo, Tutto cambia, è nato sul suolo americano ed è il frutto dalla collaborazione con Tyrone Wells, Danny Larsh e Timothy Myers, ex bassista dei One Republic. Ma anche tutto il suo nuovo album, in uscita il prossimo anno, pare che respirerà aria internazionale grazie ad altre importanti collaborazioni, in una combinazione tra musica organica e sintetica.
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Da dove è partito tutto?
Proprio da Tutto cambia, e dalla collaborazione con Tyrone Wells, che è il co-autore del brano. Ho ricevuto un invito per una collaborazione a Los Angeles: ho messo quattro cose in valigia e sono partita, con un grandissimo entusiasmo, ma anche tanta paura. Quando ti trovi a lavorare con personalità così grandi ti senti sempre un chicco di riso.

Quindi tu e Tyrone vi conoscevate già da prima?
No, c’era solo una conoscenza indiretta. Avevo ascoltato alcuni suoi lavori e lo stimavo molto come cantautore.

Collaborazione internazionale, ma testo in italiano, come mai?
Le canzoni nascono da sé, è difficile prevedere come si svilupperà un processo creativo, non è scientifico. Sentivo semplicemente la necessità di dire quelle cose in quel modo. Italiano e inglese sono semplicemente due possibilità comunicative, sono complementari tra loro. È come suonare la chitarra, piuttosto che il basso o il pianoforte.

Molti tuoi colleghi usano l’inglese perché li fa sentire più protetti, sentono di esporsi meno.
Per me non è del tutto così, non riesco a percepire il velo. Nel momento in scrivo mi sento già esposta e a volte sento proprio il bisogno e la voglia di espormi. Nella mia esperienza posso dire che la differenza tra italiano e inglese la sento nella scelta dei termini, ma come dicevo prima è più un discorso di possibilità che ho a disposizione: quanti tasti e quante corde ho a disposizione? Sono modi diversi di esprimersi.

Cosa significa per te oggi dire che tutto “cambia”?
Tanto. Tutto cambia è una canzone lucida, in cui ho riassunto quello che ho vissuto. Viviamo in un periodo difficile, frenetico, in una rincorsa feroce alla perfezione, in continua guerra con gli altri. Dovremmo invece concederci di sbagliare, siamo umani, e spesso sono gli errori a suggerirci di cambiare direzione.

In genere come vivi i cambiamenti?
Purtroppo non sono zen (ride, ndr). Ci sono cambiamenti che mi spaventano, anche se non ho avuto paura di cambiare casa e di andare dall’altra parte del mondo. Mi terrorizza invece lo scontro con l’altro e sono messa a dura prova dai cambiamenti personali improvvisi, quelli che non puoi prevedere e controllare. Nella canzone ho voluto proprio fotografare quel momento, quando ti ritrovi a pensare “e adesso che faccio?”.
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La scelta di girare il video di Tutto cambia nel deserto del Mojave?
È stata un’occasione. Mi trovavo a Los Angeles per le sessioni in studio di registrazione e ho conosciuto Vonjako, un videomaker incredibile, un artista che riesce a mantenere uno sguardo lucido su quello che fa senza perdere un innato velo di poesia. Non mi piacciono molto i video che raccontano troppo, perché una canzone deve essere intellegibile. Il video è una possibilità in più per mostrare qualcosa che magari non emerge dal brano.

Hai la valigia sempre pronta per spostarti da una parte all’altra del mondo: cosa significa per te essere a casa?
Ci sono due luoghi fisici in cui mi sento a casa: Roma, dove sono nata e dove ci sono i miei affetti, e lo studio di registrazione. E poi mi sento a casa quando sto bene con chi ho davanti: sono molto curiosa delle persone che incontro, per me è sempre un’occasione. Ascoltando gli altri ci si ascolta molto dentro.

Oltre a Tutto cambia, in questi giorni è in uscita anche Blindfold, il nuovo singolo del progetto di Rawbach a cui preso parte (link).
Andrea Mariani (tastierista dei Negramaro, ndr) è un musicista pazzesco ed è una gioia quando si ha la possibilità di lavorare con le persone che stimi. Insomma, i Negramaro sono i Negramaro! Andrea ha pensato di coinvolgermi in questo suo progetto e io mi sono buttata: mi piace molto la musica elettronica, ma non è il mio territorio, gliel’ho detto subito, e lui si è fidato.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Ribellione è una parola bellissima, non senti che bel suono che ha? È fondamentale la ribellione, senza essere aggressivi: vuol dire non accettare le cose per come è più facile che siano, cimentarsi, mettersi in gioco per cambiare quello che non piace, mettersi in discussione. È una parola strepitosa.

BITS-CHAT: Un’esplorazione umana e sonora. Quattro chiacchiere con… Aerostation

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Gigi Cavalli Cocchi
e Alex Carpani sono due musicisti con la “pellaccia” dura, due che la musica l’hanno conosciuta molto da vicino, entrambi animati da una passione genuina che li porta a guardare sempre avanti, senza paura di entrare in territori inesplorati.

Due solide carriere parallele alle spalle all’insegna del rock e del prog: Cavalli Cocchi è uno storico collaboratore di Ligabue, per il quale ha curato anche la grafica di diverse copertine, e ha suonato tra gli altri nei Clan Destino e con i C.S.I, mentre Carpani ha dato vita alla Alex Carpani Band, oltre a collaborare con artisti internazionali come l’ex King Crimson David Gross.
Negli anni le loro strade si erano già incrociate, ma mai per dare vita a un intero progetto condiviso. Succede ora, con Aerostation, che è il titolo dell’album (in uscita il 5 ottobre) e il nome del progetto che li vede finalmente collaborare insieme. Con loro, terza anima del gruppo, il bassista Jacopo Rossi, attivo sulla scena metal in band come Dark Lunacy e Antropofagus.
Non c’è un nome per la loro musica: rock, prog, elettronica, pop, crossover. Ci sono solo le sue suggestioni ibride e contaminate, con uno slancio internazionale e uno sguardo puntato lassù, nello spazio.  

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Perché Aerostation?
Alex Carpani: Tu sai il significato di questa parola? Molti pensano che significhi “aerostatzione”, invece vuol dire “aerostatica”, e ha a che fare con tutto ciò che riguarda le mongolfiere e i palloni che volano attraverso l’aria. Abbiamo fatto diverse ipotesi per il nome da dare a questo progetto, cercavamo qualcosa che indicasse il viaggio, l’esplorazione.
Gigi Cavalli Cocchi: Siamo appassionati di fantascienza e abbiamo voluto inserire anche visivamente nell’album alcuni elementi che rimandano a quel mondo. C’è stata quindi una grande attenzione alla parte grafica del disco, di cui mi sono occupato personalmente ideando anche il logo con i triangoli, una figura centrale per il nostro progetto. Proponevo le mie idee ad Alex, e lui approvava sempre tutti: credo che ormai ognuno sa quello che l’altro sa fare.

E l’idea di dar vita al progetto da dove è partita?
Alex: È nata da dieci anni di conoscenza, con carriere parallele, conoscenze comuni e collaborazioni occasionali. Gigi ha anche suonato in un mio disco nel 2010. Abbiamo voluto creare un progetto di respiro internazionale che guardasse anche al di fuori dell’Italia, non per rinnegare il nostro Paese, ma perché non ci si può fermare al nostro Paese. La scelta dell’inglese non è stata dettata da esterofilia, ma da ragioni artistiche, perché il rock si può cantare solo in inglese, e solo con l’inglese si può avere un carattere cosmopolita. Questo non toglie che la nostra sensibilità e le nostre radici italiane possano comunque venir fuori.  
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Che taglio avete voluto dare ai brani?
Alex: Un rock molto diretto, potente, senza fronzoli, con aperture melodiche all’ambient. Entrambi arriviamo da esperienze prog, ma abbiamo voluto alleggerire il nostro bagaglio da tutti i fronzoli e i virtuosismi. Non è stato facile dire tutto con pochi elementi, perché viene più semplice aggiungere tanti ingredienti e poi mescolare i vari sapori. L’intento era quello di proporre qualcosa di nuovo, di diverso, e se il pubblico se ne accorgerà sarà il miglior riconoscimento: fare qualcosa di derivativo oggi è perfettamente inutile.

Siete un “trio power”, ma senza chitarra, anche se si fa fatica a capire che la chitarra non c’è.
Gigi: Lavorando al disco ci sono venute in mente diverse possibilità, da quella di utilizzare una band a quella di prendere un chitarrista. Arrivati a definire il suono che volevamo dare al progetto, abbiamo iniziato a togliere, come diceva Alex. Qualche chitarra c’è, ma poi i suoni sono stati presi da Alex, che li ha rimanipolati, filtrati, trasformati, destrutturati, al punto che non ci si rende conto quando c’è la chitarra elettrica. È stato un lavoro di corrosione dei suoni.
Alex: Inoltre dal vivo abbiamo scelto di non avere un chitarrista, così come di non avere un tastierista, perché io non suono tastiere orizzontali.
Gigi: Un apporto importantissimo è stato dato anche dal nostro fonico, Daniele Bagnoli, un giovane collaboratore che si è innamorato da subito del nostro progetto ed è riuscito a rendere perfettamente il suono che volevamo.
Alex: Ha 26 anni ed è un fonico straordinario, capace di lavorare sia studio che sul palco, due situazioni molto diverse.
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Il concept che lega le canzoni del disco è quello della comunicazione e dell’esplorazione. Come pensate che si sia evoluto il modo in cui l’uomo va alla scoperta dell’altro?
Alex: Intesa verso l’esterno, l’esplorazione fa pensare alla ricerca di altri mondi da scoprire per spostare in là i propri confini di conoscenza. In questo, lo spazio, la cosmonautica e l’avventura spaziale ci ha aiutato molto, soprattutto dal punto di vista iconografico ed estetico, perché piace a entrambi e lo abbiamo tradotto nella parte grafica. I testi invece affrontano di più il tema dell’esplorazione interiore e dell’incomunicabilità dell’uomo moderno: siamo tutti perennemente connessi, eppure siamo tutti abbandonati a noi stessi, soli. Nel disco si parla di persone che si parlano e si innamorano e di persone che si sfiorano e non si incontreranno mai, perché passano veloci attraverso non-luoghi in cui nessuno lascerà alcun segno.
Gigi: Esplorazione è soprattutto evoluzione: l’uomo che esplora l’universo compie un’evoluzione nella storia, ma poi c’è anche l’esplorazione all’interno di noi stessi per portare in evidenza quello che siamo. Riuscire a riproporre quello che siamo senza nessun filtro e nessuna maschera è il punto massimo a cui potremmo ambire, la nostra massima evoluzione. Non so se ci riusciremo mai.

Il titolo dell’ultima traccia dell’album, Kepler-186F, prende spunto da un pianeta scoperto nell’universo con caratteristiche simili alla Terra, e che potrebbe ospitare la vita. Possiamo considerarlo come una metafora di una seconda possibilità?
Gigi: Assolutamente, è come l’altra faccia della medaglia di tutto ciò che salta subito all’occhio, di tutto quello che possiamo vedere subito davanti a noi. È la nostra seconda chance.
Alex: Vuole un po’ essere la chiusura del cerchio del messaggio lanciato nel disco.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
Gigi: È la capacità di vivere al di fuori degli schemi prestabiliti. Qualcuno ha detto che il compromesso è il lubrificante della convivenza: ecco, mi piacerebbe evitare di oliare continuamente la nostra vita, per poter fare esattamente quello che vogliamo senza limitare la libertà altrui. Poter arrivare a una convivenza di ribellioni e all’accettazione della ribellione altrui.
Alex: La ribellione è un moto dell’animo, ed è necessaria, prima di tutto a se stessi. Bisogna capire quando non è utile soccombere alla pigrizia, ai propri limiti, alle proprie paure per poter andare avanti. E poi il moto di ribellione deve indirizzarsi all’esterno contro le ingiustizie, per esempio: deve associarsi al dolore e allo shock, perché solo quando qualcosa ci colpisce e ci fa male noi facciamo in modo di stare meglio.

BITS-CHAT: Moltiplicare l’amore. Quattro chiacchiere con… Niccolò Agliardi

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“Vita: istruzioni per l’uso”.
Sugli album di Niccolò Agliardi potrebbe tranquillamente essere stampata questa dicitura, come buon viatico di ogni singolo giorno. La sua è l’opera di uno che la vita sembra conoscerla molto bene nei suoi rettilinei, nelle sue deviazioni, nei labirinti, nei suoi percorsi aperti solo a pochi, e altrettanto bene sa raccontarla in parole e musica. Lo si intuisce anche dal tono quasi intimo con cui durante questa intervista parla del suo lavoro e di quello gli sta intorno e dall’attenzione con cui sceglie le parole. Non a caso la sua penna è quella a cui si affidano spesso molti tra i più importanti interpreti della scena italiana (un nome su tutti, Laura Pausini).

Ma a quella di autore, Agliardi ha affiancato negli anni anche una carriera di cantautore, che viene riassunta ora in Resto, doppio album antologico diviso nei due dischi Ora e Ancora e in uscita il 14 settembre. Accanto a piccoli gioielli come Da casa a casa, Perfetti e L’ultimo giorno d’inverno, nella raccolta – che non ha nessun intento celebrativo, precisa lui – c’è spazio anche per tre inediti, Johnny, Di cosa siamo capaci e Colpi grossi.
Niccolò Agliardi_a_foto di Francesca Marino_b
Quando si arriva a pubblicare un’antologia, soprattutto se è doppia, è il segno che di strada se ne è fatta tanta…

Sei troppo benevolo, ma ci tengo subito a dire che dietro a questo disco non c’è nessun intento celebrativo: semplicemente sono in un momento molto fortunato della mia vita in cui faccio cose che mi piacciono molto, ma mi mancava un po’ sentirmi rappresentato dalle mie canzoni. Oggi, a 44 anni, sento di aver scritto delle buone canzoni che forse ho un po’ abbandonato a loro stesse e che meritavano un vestito diverso: con i miei adorati musicisti ci siamo guardati in faccia e abbiamo iniziato a pensare a quali sono le canzoni che amiamo suonare dal vivo perché sanno di realtà e di vita, ma che sui dischi non ci convincevano fino in fondo. È stato un lavoro di restauro corale, vissuto come un divertimento: per me questi brani sono come degli inediti.

Come ti sei sentito nel riprendere in mano canzoni che avevi scritto magari 10 o 15 anni fa? Ti sei riconosciuto in quei testi?
Sì, pienamente, ed è il motivo per cui ho scelto di mettere nell’album proprio quelle canzoni. Quelle parole mi rappresentano ancora, sono autentiche, come se le avessi scritte un mese fa. Quello che volevo cambiare era il modo in cui suonavano o come le avevo cantate.

E come hai scelto di dividerle tra Ora e Ancora?
In Ora ho messo le canzoni che avevano bisogno di un restauro o di una rivisitazione totale, perché ci siamo resi conto che non funzionavano e meritavano una seconda possibilità: siamo ripartiti da zero, cambiando anche la tonalità e la velocità. Ho voluto inserire anche due omaggi: uno a Fossati con Naviganti, un pezzo che nella sua semplicità mi dilania l’anima, e uno alle sorelle Bertè con Stiamo come stiamo, una canzone del 1993 che trovo formidabile per il suo messaggio di riscatto e dolore. E poi ci sono due inediti, Johnny e Di cosa siamo capaci. In Ancora invece c’è il terzo inedito, Colpi forti, e ci sono canzoni che andavano già bene così com’erano, ma sulle quali mi ero fissato per alcuni particolari. Ho voluto ricantare alcune parti o anche solo alcune parole, ritoccare la voce perché magari era troppo bassa: per usare una metafora, è stato un po’ come fargli un’iniezione di botulino.

Ti confesso che trovare una cover di Stiamo come stiamo è stata una bellissima sorpresa.
Credo che sia un brano potentissimo per il suo essere spaccato tra dolore e speranza, ma non ha avuto la fortuna che meritava, e per questo ho deciso di metterlo nella mia antologia. Ha avuto un destino simile a molte mie canzoni, l’ho sentito affine: non ho voluto rifarlo per ergermi a paladino della giustizia, ma ho pensato che forse riproponendolo potevo farlo conoscere a chi nel ’93 era troppo piccolo o magari se l’era distrattamente perso.
Niccolò Agliardi_foto di Giovanni de Sandre b

Gli inediti invece come li hai scelti? Sono lì dentro per un motivo particolare?
Sono tre brani accomunati dal concetto di famiglia, visto da tre punti di vista diversi. Per descriverli mi piace utilizzare il paragone, forse un po’ azzardato, con la trilogia di Titanic di De Gregori. In Johnny parlo della mia famiglia di oggi e racconto la mia esperienza di papà affidatario di un ragazzo, quindi c’è una visione paterna; Di cosa siamo capaci parla invece delle nuove famiglie, quelle formate da persone che si vogliono bene e si sentono protette pur non essendo imparentate da legami di sangue e che non necessariamente sono rappresentate della bandiera arcobaleno; il terzo inedito, Colpi forti, è un po’ più duro, ma altrettanto pieno d’amore: mi rivolgo per la prima volta a mio padre non più solo da figlio ma a mia volta da padre.

L’esperienza da papà affidatario ti sta insegnando qualcosa?
Mi sta insegnando tantissimo e mi sta facendo scoprire molte cose di me che non conoscevo: è un’esperienza che ti mette in gioco da quando apri gli occhi al mattino a quando li richudi alla sera, e non è detto che la sfida non continui poi anche durante i sogni. Devi imparare a dividere tutto per due, per scoprire che non si tratta di una divisione, ma di una moltiplicazione di amore, di affetto, di possibilità e di opportunità, non solo per Johnny, ma anche per me. Richiede impegno e coraggio, altrimenti rischia di diventare un boomerang pericoloso. Sto imparando la pazienza, e sto imparando a non desiderare che Johnny diventi una mia copia, ma a essere per lui una guida.
Niccolò Agliardi_cover RESTO
L’artwork dell’album è popolato da tante figure di origami, una per ogni brano: le associazioni sono casuali?
Non le ho fatte io, ma è tutta opera di due miei carissimi amici grafici, Simone Valentini e Manuele Capone. Non ho mai chiesto ai ragazzi se le associazioni siano state casuali o mirate. L’idea degli origami è nata una sera, guardando un cavalluccio marino che nuotava solitario e aristocratico.

Riguardo invece al titolo della raccolta, nella vita quanto coraggio pensi che serva per restare?
Tanto, tanto, tanto. Scappare è da vigliacchi, ma a volte ci salva la vita: restare significa non essere codardi e rispettare la propria coerenza, mantenere un impegno preso. Andare fino in fondo, giocando fino all’ultima carta, che spesso è quella vincente.

Cosa diresti oggi al Niccolò Agliardi che ha scritto Fratello pop?
Gli direi di andare avanti, anche se farà fatica, perché a 40 anni si ritroverà nelle tasche qualcosa di prezioso. Da un punto di vista più umano invece gli direi di non arrabbiarsi se il suo fratello pop non è come lui: anche se l’altro non gli assomiglia, non è detto che non lo capisca.

Pensi che il cantautore abbia ancora un ruolo preciso nella società di oggi?
Magari non si chiama cantautore, ma rapper, trapper o interprete. Non so se oggi il cantautore, categoria alla quale sento di far parte, sia ancora una figura necessaria: quello che invece è sicuramente necessario è la letteratura che si condivide, sono importanti i messaggi, i contenuti. La forma può cambiare come cambiano le epoche.

E tra i nuovi cantautori italiani c’è qualcuno che ti piace in particolare?
Mi piace molto Motta.
Niccolò Agliardi 6b_Credito fotografico di Francesca Marino
Come ti sei trovato nell’esperienza televisiva di Dimmidite?
Benissimo! Mi sono divertito molto anche perché ho lavorato insieme ai miei musicisti: Giacomo e Tommaso Ruggeri, Francesco Lazzari e Giordano Colombo, che è anche il produttore dell’antologia. Ho potuto fare quello che mi piace, raccontare le storie degli altri e trasformarle in canzoni, e ho potuto farlo con persone divertenti. Mi piace farmi spiegare dagli altri quello che non so fare: scrivere canzoni è una cosa che si fa spesso in solitudine, invece in televisione lo abbiamo fatto in tanti. E mi piace affidarmi agli altri, perché se sono complici e alleati ti aiutano a diventare più bravo in ciò che fai.

Di solito concludo le interviste chiedendo di darmi una definizione di ribellione, ma a questa domanda avevi già risposto in un’intervista precedente. Ti propongo allora cinque parole che ho scelto pensando a te e per quella che preferisci ti chiedo di darmi una tua definizione: parola, famiglia, silenzio, fragilità e paura.
Ti voglio dare un aggettivo per ognuna. (prima di pronunciare ogni definizione Niccolò medita alcuni secondi, ndr) Per parola ti dico “facoltativa”, per famiglia “libera”, per silenzio “necessario”, per fragilità “preziosa” e per paura scelgo… “insidiosa”.

 

Agliardi presenterà la raccolta in Feltrinelli il 22 settembre a Roma (Red Tomacelli) e il 26 settembre a Milano (Red Porta Romana).

BITS-CHAT: Da Pitagora al fujabocla. Quattro chiacchiere con… Renato Caruso

Un brano si intitola Aladin Samba, un altro Napoli caput mundi, un altro ancora Bossa de Sheila, poi c’è Passeggiando per New York, e più avanti Reggae lake. In Pitagora pensaci tu Renato Caruso fa giro del mondo in un giro di album.
Crotonese, chitarrista e compositore con una solida base classica ma le orecchie aperte al pop, Caruso ha fatto tesoro delle lezione del filosofo greco che proprio a Crotone diede vita alla sua scuola filosofica, e ha allargato i suoi interessi alla matematica e all’informatica musicale, mentre il suo nuovo lavoro raccoglie le esperienze fatte sul campo e mostra contaminazioni eclettiche e cosmopolite.
In una parola, fujabocla.

PITAGORA PENSACI TU_COVER LOWIl primo elemento che colpisce all’ascolto del disco è il suo carattere cosmopolita: si va dall’oriente al Brasile, passando per Napoli.
Fa tutto parte di un bagaglio che mi sono formato con il tempo: da una parte ci sono i classici che ho studiato in conservatorio, dall’altra c’è stata la necessità di adattarmi alle diverse occasioni che mi sono capitate, e che mi hanno portato a cimentarmi con generi diversi: ad alcuni mi sono appassionato, come è successo con la bossanova. Nell’album ho riportato la contaminazione di esperienze che avevo in testa.

Quali sono stati gli artisti con cui ti sei formato?
Come chitarrista mi sono formato soprattutto con i classici, Gangi, Giuliani, Segovia, poi con chitarristi che mi hanno mostrato una veste più pop di quello che facevo, come Alex Britti, Eric Clapton, Pino Daniele, fino a Jimi Hendrix, Santana, Mark Knopler. Come musicista e compositore ho imparato molto anche da Sting, dai Beatles, dai Rolling Stones, Chopin, Schubert, Beethoven, Puccini. Ho una base classica che arriva al pop, l’unico ambito che non mi appartiene è quello dell’hard rock e del metal.

Hai citato Pino Daniele ed Eric Clapton, di cui nell’album riproni le cover rispettivamente di Quando e Tears In Heaven. La scelta di quei brani è dovuta a qualche motivo in particolare?
Sono due brani rappresentativi della loro carriera e sono due brani che ho sempre suonato. Inoltre, considero Pino Daniele un mio “maestro nascosto”: anche se non l’ho mai conosciuto ho imparato molto da lui, e Quando è una canzone perfetta per far incontrare melodia e armonia. La mia è una versione molto semplice riproposta con la chitarra classica, non ho voluto stravolgere niente. Lo stesso vale per la cover di Clapton: ho provato a farne una versione con la chitarra classica e visto che il risultato mi piaceva ho deciso di inserirlo nell’album.
RENATO CARUSO_PH. LORENZO TAGLIAFICO
Il titolo del disco richiama Pitagora, che ha vissuto proprio a Crotone, la tua città d’origine. Hai avuto modo di studiare un po’ anche la musica degli antichi greci?
Ho letto parecchi libri sull’argomento. Pitagora è stato il primo teorico della musica, il primo a parlare di frequenza, di ottava, consonanza, dissonanza, è stato il primo a usare la parola “armonia” e ha lui si deve il primo utilizzo del termine “filosofia”. Nell’antica Grecia i diversi generi musicali prendevano il nome dalla regione d’origine, e quindi si parlava di melodia eolica, lidia, misolidia, ionica. Poi con il passare del tempo alcuni di questi generi si sono persi, altri si sono evoluti, e quelle che oggi chiamiamo scala maggior e scala minore non sono altro che l’evoluzione di alcuni di quei sottogeneri.

La tua cultura variegata comprende anche studi di informatica musicale: come ci sei arrivato?
Mi interessa tutto quello che riguarda la scienza, la matematica. Sono partito con degli studi di informatica, e dopo diversi anni sono arrivato all’informatica musicale: nell’era digitale odierna credo sia interessante capire come il suono di una chitarra entra in un computer.

Cos’è il fujabocla?
Non ho ancora ben capito se è un genere, uno stile o qualcos’altro (ride, ndr). Il nome l’ho coniato io e non è altro che la fusione di quattro parole: funk, jazz, bossanova e classico, i quattro generi che rientrano nella mia musica. È la contaminazione di cui parlavo prima, ed è stato anche l’argomento della mia tesi di laurea. Lo considero un po’ come uno sguardo sul futuro, una contaminazione che guarda avanti e che riassume quella varietà musicale che si può trovare per esempio andando in giro una sera per i locali di Milano.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Credere fino in fondo in una cosa, fino a far capire agli altri che quello che stai dicendo è giusto. Penso per esempio a Steve Jobs e all’introduzione del palmare, o ad Einstein e alla teoria della relatività. Quella è stata ribellione.

BITS-CHAT: Elogio della lentezza. Quattro chiacchiere con… i Secondamarea

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Chi si ferma è perduto, recita la saggezza popolare, che insegna anche però che la fretta è una cattiva consigliera. Forse la giusta soluzione sta come sempre nel mezzo, ed è quella di rallentare: godersi il viaggio, gustarsi il panorama, raccogliere i dettagli.
Una filosofia di vita che i Secondamarea hanno fatto propria già da tempo e che hanno trasferito in Slow, il loro nuovo disco di inediti, un concept album dedicato appunto alla lentezza e ai suoi vantaggi. Coppia nella vita oltre che nella musica, Ilaria Becchino e Andrea Biscaro ormai da 12 anni hanno preferito lasciare Milano per trasferirsi nei più selvaggi scenari dell’isola del Giglio, dove è nato anche l’album. Ma sarebbe un errore affrettarsi subito a una facile conclusione: nessun inferno metropolitano contrapposto a un paradiso incontaminato. Perché anche negli angoli di Milano si può trovare la lentezza, magari sotto forma di farfalla.

Slow, un titolo di un disco, ma forse, e soprattutto, anche un manifesto di intenti…
Andrea: Sì, è un vero e proprio manifesto, il titolo di un concept album che è anche un modo di vivere, il nostro, un invito che auspichiamo possano accogliere anche gli altri: rallentare, guardarsi intorno, prendersi tempo.

Un modo di vivere che avete sempre avuto o che avete iniziato a seguire da un certo momento in poi?
Ilaria: Non c’è stata una vera rivoluzione nel nostro modo di vivere: sicuramente stabilirci sull’isola del Giglio ci ha aiutato, perché ci permette di stare a contatto con una natura più incontaminata, possiamo osservare il mare, guardare quello che porta a riva la marea, ma questa indole selvaggia, il desiderio di vivere seguendo i ritmi della natura, tra gli animali, era già dentro di noi. Già da prima di decidere di trasferirci sull’isola, anche quando stavamo a Milano: in città ci sono i parchi e gli angoli della metropoli offrono dei bellissimi scorci. Qualche anno fa in Sempione avevo visto una farfalla particolarissima, rossa e viola, che non sono più riuscita a trovare.

A Milano, la città più caotica e frenetica per eccellenza?
Ilaria: Eppure ci sono un sacco di luoghi molto vicini al cuore, luoghi che offrono occasioni di sconfinamento. Se si vuole, anche a Milano si può cogliere il silenzio.
Andrea: Se ci fai caso, Milano ha una fortissima dimensione umana. Abbiamo imparato a misurarla a passi, perché sull’isola ci spostiamo a piedi, e quando torniamo qui percorrere la città a piedi è come attraversare un paese.
Ilaria: Milano è come un insieme di tanti paesi, ognuno con la propria vita: i Navigli, Isola, Lambrate.

Per quanto anch’io riesca a vedere la magia nella città di Milano, quello che state offrendo è un ritratto un po’ inedito della città.
Andrea: In realtà non ci piace molto il luogo comune che vuole Milano come centro della frenesia, perché quella c’è ovunque, anche al Giglio. Non vogliamo contrapporre l’inferno al paradiso, perché tutti i luoghi sono potenzialmente dei paradisi, sta a noi riuscire a vederli in un certo modo.
Ilaria: Anche quando si dice che Milano è grigia si dice una grande bugia, qui ci sono degli azzurri bellissimi.

E allora perché la scelta di trasferirvi sull’isola del Giglio?
Ilaria: Ci siamo conosciuti là e abbiamo voluto vedere cosa riservava quel luogo oltre al mese di vacanza, osservarlo nell’intero ciclo delle stagioni. A volte ci chiedono come abbiamo fatto a abituarci, visto che lì non c’è niente, ma in realtà c’è tutto quello di possiamo aver bisogno.
Andrea: È sicuramente un luogo molto energetico, ma la verità è che ogni persona porta il mondo dentro di sé, dobbiamo imparare a coltivarlo per poterlo ritrovare anche all’esterno.

Contrariamente al titolo del disco, le canzoni sono nate però abbastanza in fretta.
Andrea: Sì, sono tutti brani che ci assomigliano molto e che probabilmente ci portavamo dentro da molto tempo, forse è per questo che poi la realizzazione dell’album è stata piuttosto rapida.
Ilaria: E poi c’è anche da dire che la velocità non è sempre in opposizione alla lentezza. Quando vado a fare un giro in bici posso anche andare veloce, ma se mi lascio andare al momento che sto vivendo sto in realtà rallentando. La velocità può in qualche modo essere lenta.

Quindi quale potrebbe essere una buona definizione di lentezza?
Ilaria: Assecondare il tempo che c’è, non invadere la realtà, ma lasciarsi invadere.
Andrea: È un fatto di sensazione, non di velocità.
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Il disco si apre con C’hanno rubato l’inverno, un brano sui cambiamenti climatici. Un fenomeno sotto gli occhi di tutti, anche se uno degli uomini più potenti della Terra, Donald Trump, si ostina a negarlo. Come pensate sia possibile?
Andrea: È più facile credere a una falsa ideologia che alla realtà, perché si ha paura di perdere privilegi che derivano dallo sfruttamento delle energie del pianeta. Dal Dopoguerra è così, e sarebbe un paradosso se i potenti del mondo si mettessero a far guerra per quello in cui crediamo noi, se fossero cioè disposti a rallentare, a perdere dei privilegi.
Ilaria: Non si ha più voglia di attendere, non si vogliono più aspettare i tempi delle stagioni, rispettare i tempi della natura. Non ci si rende conto che il vero benessere non sta nella quantità, ma nella qualità.
Andrea: E negare che sia in atto un cambiamento climatico è l’unico modo che un politico ha per portare avanti le sue idee, solo così può legittimarsi agli occhi della gente, con il sorriso.

In Pellegrinaggio invece citate Byron.
Andrea: Amiamo molto la poesia, e questo testo in particolare ci piaceva perché descriveva un pellegrinaggio intimo, un modo di errare, e quindi anche di sbagliare, vagabondare.
Ilaria: Un modo di fare pellegrinaggio per portarsi sulla strada giusta.

Nel mondo di oggi, la possibilità di sbagliare e di adottare la lentezza come stile di vita è un lusso per pochi o tutti possono ancora permetterseli?
Andrea: L’errore è il primo inciampo per conoscere, e quindi anche per evolversi, mentre oggi non ci si vuole più evolvere, si preferisce fermarsi al dato di fatto: “noi siamo questo”, e da lì non ci si vuole spostare. Però mi auguro che sbagliare possa essere ancora una possibilità per tutti.

Con quali riferimenti artistici siete cresciuti?
Andrea: Ce ne sono talmente tanti… sarebbe una vera enciclopedia citarli tutti.
Ilaria: Si sono stratificati nel tempo, e ormai è difficile riconoscerli.
Andrea: Negli ultimi periodi abbiamo ascoltato un disco bellissimo di Josh Tillman, e tra gli ascolti recenti potrei citare The National, Glen Hansard, che amiamo molto anche con The Frames.
Ilaria: Poi ripeschiamo molto anche dal passato, per esempio Joni Mitchell, e spesso le influenze non sono neanche dirette, ma ci arrivano dal cinema o dall’ambiente stesso.

L’album si avvale della presenza di musicisti prestigiosi, da Leziero Recigno a Lucio Enrico Fasino, Raffaele Kohler: come li avete coinvolti?
Andrea: Li conoscevamo già, ma il meriti di averli coinvolti nel disco è del nostro produttore, Paolo Iafelice, che è riuscito a ricreare il mood adatto alla nostra musica.
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Pensate che la rivoluzione digitale sia stata dannosa per la musica?
Ilaria: Su di noi non ha avuto molto effetto, perché siamo due persone che ascoltano ancora i dischi e amano andare a cercarli in giro, però è un processo che ha indubbiamente accelerato i tempi, ed è paradossale che la velocità entri nel processo di ascolto e di ricerca della musica.
Andrea: Si elimina il gusto della ricerca, si ha a disposizione tutto e subito, e questo non permette di farsi le ossa con una cultura musicale approfondita, manca il sedimento. Torna un po’ il tema della lentezza. Mi ricordo che quando andavo nei negozi a cercare i dischi di De Andrè, a volte non c’erano e il negoziante doveva ordinarli, per cui dovevo aspettare per averli: anche questo è un modo in cui si crea affezione verso un artista.

Secondamarea: da dove arriva questo nome?
Ilaria: Da molto lontano (ride, ndr). La marea fa emergere cose, sensazioni, ed è un’immagine che ci piace, ed è la “seconda” perché i primi non piacciono.
Andrea: Poi ha anche un bel suono!

Per concludere, una domanda di rito di BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
Passano alcuni secondi di riflessione.
Andrea: Penso che dipenda molto dal contesto e dal momento storico, ma oggi la ribellione è fare un disco come Slow. Ogni artista dovrebbe potersi esprimere in totale libertà.

BITS-CHAT: Riaccendete il Marshall! Quattro chiacchiere con… Mike Sponza

MIKE SPONZA_Foto di Matteo Prodan b
Ogni decennio lascia dei segni indelebili nella memoria: se gli anni Ottanta sono stati il periodo del synth-pop e di qualche esperimento di discutibile valore e gli anni Settanta hanno rappresentato il momento più luccicante della disco music, gli anni Sessanta sono giustamente ricordati come il decennio del rock e del blues.

Ma sono anche gli anni che hanno visto una grande rivoluzione della società e del pensiero, con gli ideali di libertà della Summer of Love del ’67, le proteste giovanili del ’68 e il grande festival di Woodstock del ’69.

Agli anni Sessanta ha dedicato il suo ultimo album Mike Sponza, uno che il blues e il rock li ha ormai nelle vene: Made In The Sixties, questo il titolo del disco, è stato registrato agli Abbey Road Studios di Londra e ripercorre gli eventi di quel decennio in 10 pezzi, uno per ogni anno.
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Cosa significa essere “Made In The Sixties”? In altre parole, come è stato vivere in prima persona gli anni Sessanta e come ti sei trovato a raccontare oggi in un disco quel decennio?

In realtà ho vissuto per poco quel decennio, ma sono cresciuto circondato da quel feeling per tutti gli anni della mia infanzia, e quindi l’imprinting è stato forte. Essere “Made In The Sixties” significa per me volere fare le cose bene e con calma, rispettando chi ti sta vicino, puntando ad un continuo miglioramento, dare spazio alla creatività ed alla umanità, in empatia con gli altri. Quando ho avuto l’idea del concept per questo album, mi sono messo a fare subito un lungo lavoro di ricerca, per poi lasciare spazio alla pura creatività sia per i testi che per la musica, uscendo dal mio passato di “osservante” dei canoni del blues.

L’album vede la partecipazione di numerosi ospiti, protagonisti degli anni Sessanta: come è nato il loro coinvolgimento nel progetto?
Mi è sempre piaciuto avere ospiti nei miei progetti discografici, è un modo per arricchire l’album con sonorità diverse da quelle che propongo dal vivo. In Made In The Sixties, la presenza più importante è sicuramente quella di Pete Brown in veste di coautore dei brani: è un’icona del rock blues, ed è la penna dietro successi come Sunshine of your love, White Room, I Feel Free: Eric Clapton lo definisce il quarto membro dei Cream. La possibilità di lavorare con lui ha dato una forte spinta creativa ai brani. Con Dana Gillespie, protagonista importante della scena musicale londinese dei secondi anni Sessanta, siamo amici e collaboratori da anni, ed è uno dei miei link diretti a quel mondo della “swinging London” che è un po’ la mia ossessione.

Negli anni Sessanat il rock, e forse la musica in generale, avevano anche una valenza sociale e politica: un valore che forse oggi la musica non ha più, sei d’accordo? Cosa secondo te ha portato a questo cambiamento?
Penso che tutte le forme artistiche degli anni Sessanta avessero una forte valenza sociale e politica: si dicevano cose importanti attraverso le canzoni, ma anche attraverso la pittura, il teatro e i libri. La musica era sicuramente un medium per trasmettere forti messaggi. Oggi quasi tutto quell’approccio si è perso, sono d’accordo: penso in gran parte a causa dello schiacciamento che gli artisti oggi subiscono dalle logiche commerciali imposte dalle major, dai mass media, e dalle nuove forme di consumo della musica. È un processo irreversibile? Forse no. Credo che prima o poi arriverà un momento in cui una generazione si romperà le palle di ascoltare la spazzatura che ci viene imposta. Ci sarà una ribellione verso la musica vuota, come c’è stata verso la metà degli anni Sessanta. Qualche giovane band prima o poi deciderà di spegnere il computer e di accendere il Marshall.

Il disco racconta gli anni Sessanta in 10 pezzi, che sono anche 10 storie, una per ogni anno del decennio. Immaginando però di aggiungere un undicesimo tassello a questo quadro, cosa ti sarebbe ancora piaciuto raccontare degli anni Sessanta?
Avrei voluto avere lo spazio per parlare di tutto il movimento per i diritti civili, che ha attraversato tutta la decade: alcune cose le abbiamo raccontate in qualche verso, ma è un argomento troppo “corposo” per essere racchiuso in un’unica canzone.
MIKE SPONZA_Foto di Matteo Prodan 6 b
Quale credi che sia la più grande eredità o il più grande insegnamento che gli anni Sessanta hanno lasciato nella memoria e nella società? E cosa pensi invece che si sia perso soprattutto di quel decennio?
Vedo molto gli anni Sessanta come un’“età dell’oro”, che ha lasciato in tutti i campi dei grandi classici senza tempo, validi ancora oggi. Mi riferisco alla musica, ma anche al design, alla moda, alla cinematografia, alla letteratura. Credo che l’insegnamento principale sia quello di creare liberamente, osando di uscire dagli schemi, ma facendolo in modo da lasciare il segno con qualcosa di qualità indiscutibile. Penso che oggi sia perso questo: il gusto per la sperimentazione e la libera creatività, oggi è tutto soffocato dal marketing.

Pensi che oggi ci siano i presupposti per far risorgere lo spirito e gli ideali degli anni Sessanta?
Secondo me un crash down di internet aiuterebbe… Se parliamo di ideali di progresso e di pace, di uno stile di vita rispettoso delle scelte di chi ci sta accanto, di creatività e fuga dalla massificazione, secondo me parliamo di cose mai veramente scomparse anche a distanza di cinquant’anni. Penso che molti giovani le stiano ripescando, anche in modo inconsapevole, forse proprio perché se ne sente bisogno.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che definizione dai al concetto di ribellione?
Cercare di essere normali oggi è un forte atto di ribellione. Costruirsi uno stile di vita proprio e provare a vivere secondo i propri valori, è ribellione verso la lobotomia quotidiana. Tutti i gesti di ribellione classici, ormai sono stati anch’essi fagocitati dalle logiche di mercato. Vivere la propria vita è ribellione.