BITS-REPORT: Rihanna, Anti World Tour, Milano. Il diluvio, il freddo e la delusione

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di Manuel Cicuzza 

Il tornado Rihanna è passato sull’Italia portandosi via l’entusiasmo dei fan più accaniti e un mucchio di perplessità e dubbi.
La diva delle Barbados è arrivata allo Stadio San Siro di Milano mercoledì 13 luglio per la seconda data del suo Anti World Tour nel nostro paese: un tour molto chiacchierato sin dall’inizio, complici stadi semivuoti in giro per il mondo e le lamentele dei più.

Sono arrivato a San Siro molto sfiduciato, complice anche un acquazzone che si è abbattuto nel pomeriggio sulla città e che si è protratto fino a sera, contribuendo a smorzare ulteriormente gli animi. A scaldare il pubblico infreddolito ci pensa prima il dj Mustard e poi Big Sean.

Rihanna si presenta sul palco con un’ora di ritardo, intonando Stay singolo tratto dall’album Unapologetic del 2012. Il concerto prosegue con numerosi successi e una buona parte dei brani di Anti, l’ultimo album, pubblicato pochi mesi fa.
Le perplessità non tardano ad arrivare: canzoni tagliate in mini mashup, cambi d’abito con il palco lasciato vuoto e quattro ballerini venuti fuori per così poco tempo da non essermi neanche accorto di loro.
Lo show continua ma non si accende, non parte come dovrebbe e Rihanna passa la metà del tempo con il microfono diretto verso il pubblico nei punti alti delle canzoni. L’amara sorpresa arriva alla fine quando si gira verso i musicisti indicando il numero due con le dita e un’occhiata che non lascia spazio all’immaginazione: dalla scaletta vengono eliminate le ultime canzoni FourFiveSeconds e Kiss It Better e Rihanna saluta tutti sulle note di Love On The Brain, sparendo via.

Il pubblico è sconcertato, così tanto da aspettarsi un ritorno della diva per un’ulteriore canzone, ma niente.
Tutte le mie peggiori previsioni si sono realizzate dopo un’ora e un quarto del concerto pop più scarso che abbia mai visto in vita mia.

Raramente mi sono trovato a bocciare completamente uno spettacolo di un’artista che seguo con costanza e che aspetto da anni, ma qui c’è davvero poco da salvare.
Lei bellissima, a tratti incerta e a tratti coinvolta, persino spaventata.

Rihanna ha provato a fare il salto di qualità con questo album e questo tour, ma è difficile grattarsi via l’immagine da ragazzaccia del pop, trasformandosi improvvisamente in un prodotto minimal e di nicchia.
Il pubblico non ha gradito e forse lei se ne è un po’ accorta.

Alla prossima volta Riri. Forse.

BITS-RECE: Jean-Michel Jarre, Electronica 2: The Heart Of Noise

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Come aveva fatto lo scorso anno il Gran Maestro della dance Giorgio Moroder, per il suo ultimo progetto anche Jean-Michel Jarre, il sovrano dell’elettronica, si è avvalso di un vero e proprio esercito di ospiti che ha inserito in Electronica, un album spalmato in due volume pubblicati ad alcuni mesi di distanza uno dall’altro.

E se grande accoglienza era stata riservata a The Time Machine, con altrettante aspettative si attendeva la seconda parte del lavoro, The Heart Of Noise.
A far da guida all’album, la relazione tra l’uomo e la tecnologia.
The Heart of Noise è un tributo a Luigi Russolo, il compositore che già nel 1913 predisse l’avvento del sintetizzatore e intuì che l’elettronica e le altre tecnologie avrebbero consentito ai musicisti di “sostituire alla limitata varietà dei timbri degl’istrumenti che l’orchestra possiede oggi, l’infinita varietà di timbri dei rumori, riprodotti con appositi meccanismi”. 

Quello che Jarre ci offre, dopo la già ottima prova d Electronica 1, è un lungo viaggio sonoro zeppo di stimoli e sensazioni, magistralmente create dalle “macchine” elettriche, su cui appoggiano le loro voci ospiti più che illustri, tra cui i Pet Shop Boys, i Primal Scream, Gary Numan, Jeff Mills, Peaches, Hans Zimmer e Cyndi Lauper. Una parata di stelle che appaiono come comete nel cosmo lisergico e abbagliante modellato da Monsieur Jarre.

Tra gli episodi di più forte impatto, la melanconica Brick England, insieme ai Pet Shop Boys e Swipe To The Right con Cyndi Lauper.
Ma c’è poi un ospite che rende ancora più prezioso questo album e ancora più forte il suo messaggio: Edward Snowden, l’ex tecnico della CIA che con le sue rivelazioni ha dato il via al Datagate, lo scandalo sulla sorveglianza di massa messa in atto da alcuni governi all’insaputa dei cittadini, denunciando così l’abuso della tecnologia.
Jarre ha preso la sua voce l’ha piazzata sui veli elettronici di Exit.

Ecco il punto di snodo, la differenza tra un DJ qualunque e uno che dai synth sa tirare fuori musica che pulsa e che parla.

Electronica non è un album di musica elettronica.
Electronica
è un progetto di Jean Michel Jarre.
E c’è una bella differenza.

BITS-RECE: Daphne Guinness, Optimist In Black. Dal lutto alla vita

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Scelta spiazzante quella di Daphne Guinness.
Cosa succede infatti quando una delle più grandi fashion icon decide di buttarsi nella musica e incidere un disco? Nella maggior parte dei casi, succede poco o nulla, il più delle volte ne viene fuori una manciata di brani strambi zeppi di elettronica. Sì perché per fare le cose cool e trendy oggi ci si butta lì dentro, in quel magma indistinto di suoni prodotti dai synth.

Ma dimenticavo che questo succede se sei una qualunque fashion blogger, fashion trender, fashion quel-che-vuoi, non se sei una vera icona vivente dello stile, una delle più grandi, una a cui persino Karl Lagerfeld si sente in dovere di inchinarsi: una come Daphne Guinness. A quel punto, non potresti permetterti di buttare via tempo ed energia per pubblicare una dozzina di canzoni “tanto per”, ma puoi fare quello che davvero ti va, metterci anima e corpo e farlo al tuo meglio. Così ha fatto, più o meno, la Signora dai capelli bicolore. E anziché rifilarci un anonimo e scontato disco di elettropop/EDM, ha pensato di darsi al rock.

E’ nato così Optimist In Black.
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Certo, Daphne Guinness non è Patti Smith o Debbie Harry, non lo è e lo sa, così come è più che evidente che se nella vita avesse voluto fare la cantante probabilmente a quest’ora sarebbe a raccogliere spiccioli in qualche disgraziato locale di periferia.

Ma la fortuna ha voluto che nascesse in una delle più ricche famiglie irlandesi (proprio i Guinness della birra) e venisse assorbita dal fashion system, così che la musica è rimasta per lei solo una marginale passione, da coltivare quando e come le piace.

Quando si è trattato di dar vita al suo album – e non è affatto detto che rimanga l’unico – Daphne ha chiamato Pat Donne e Tony Visconti, lo stesso che per anni ha affiancato il caro Bowie alla produzione. Portare a termine il lavoro, ha dichiarato, non è stato facile, ci sono voluti tre anni, e sin dalla pubblicazione del singolo Evening In Space, nel 2014, si era capito che stava facendo sul serio: in quel brano infatti non si faticano a ritrovare le medesime atmosfere aliene di Life On Mars. Per il resto, i riferimenti sono da ricercare soprattutto negli ascolti degli anni ’60 e ’70

Con l’eccezione di un alcuni brani – Fatal Flow e No Nirvana Of Cooldom, per esempio – che effettivamente mostrano quei suoni fluidi di cui parlavo all’inizio, per il resto Optimist In Black è un lavoro di impronta cantautorale piuttosto malinconica, visto che dentro Daphne ha infilato i pezzi più dolorosi della propria vita, senza risparmiare stoccate all’ex marito (Bernard-Henry Lévy, il filosofo) o il ricordo degli amici scomparsi (la collega Isabella Blow e lo stilista Alexander McQueen, morti entrambi suicidi a pochi anni di distanza): Optimist In Black sembra un po’ la stanza privata di Daphne, un cantuccio in cui rifugiarsi dopo essersi tolta gli abiti di haute couture. Uno spazio suo, da arredare come meglio credeva, senza la pretesa di consegnarci una nuova Bibbia della musica, ma nemmeno senza scialacquare l’occasione.

Optimist In Black non è un disco da classifica, probabilmente non è un disco che lascerà segni nella memoria, ma è un lavoro che ha le gambe per stare in piedi. Un disco di una donna che, arrivata a lambire i 50 anni e restando quotidianamente immersa nel luccichìo del fashion biz ai massimi livelli, sa che la vita riserva anche brutti scherzi, tremendi a volte, e che arriverà per tutti un momento in cui dovremo vedercela da soli.

Dovremo affrontare dolori, ci butteremo addosso il nero del  lutto, e certi segreti ce li porteremo dentro in silenzio, certi di poter contare solo su di noi. 

Di tutto il resto, chi se ne frega: il mondo là fuori sarà fantasticamente luccicante.

 

BITS-RECE: Luce, Segni. Il tepore di una voce

BTS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Quanti dischi di “nuovi talenti” escono sul mercato ogni giorno? Una stima è probabilmente impossibile, tra chi si autoproduce e chi invece ha la fortuna di essere supportato da un discografico. Una cosa è però certa: ogni giorno di “nuovi fenomeni” della musica ne nascono tanti. Anzi, troppi.

E la disgrazia che per molti di questi prestanti giovani, cantare o suonare equivale pressappoco a guadagnarsi uno spicchio di notorietà, senza aver la benché minima idea di cosa voler raccontare al pubblico con la propria musica. Vi sarà capitato di sentirne di gente così, e penso possiate capire di cosa sto parlando.

Poi, per fortuna, esistono quelli che “giovani talenti” lo sono per davvero, quelli che hanno storie da raccontare, e sanno trovare il giusto modo per farlo, magari arrivando in silenzio, senza lo scintillio della TV.

Proprio tra di loro sta Lucia Montrone, o meglio, Luce, come ha scelto di farsi conoscere dal pubblico.
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Il suo primo album si intitola Segni, perché parla di tutti quei piccoli e grandi marchi che la vita ci lascia durante il cammino. Un titolo scelto non a caso, visto che lo scorso dicembre Luce è rimasta coinvolta in un incidente che le ha lasciato in ricordo – appunto – un segno sul viso.

Scorrendo le dieci tracce dell’album, si ha subito la sensazione che in questa ragazza ci sia qualcosa, quel “qualcosa in più” che molto spesso cerchiamo e poche volte riusciamo a intercettare in un artista. 

C’è, nella sua voce, un misto di limpidezza e sicurezza che ti fa capire che lei sa esattamente quello che canta, lo sa perché lo ha vissuto, lo ha scritto e poi lo ha messo nelle sue canzoni. Canzoni che sono proprio sue, e non potrebbero essere di nessun altro, perché se le è cucite addosso a sua misura. Che poi è esattamente quello che dovrebbe fare ogni cantautore che ambisca a meritarsi questo titolo.

Segni è fatto soprattutto di arpeggi di chitarra, tocchi di pianoforte e fruscii di percussioni, una musica leggera leggera, che anche quando scende a trattare i “segni” più dolorosi non perde la sua gentilezza. Ecco, gentile, la musica di Luce è gentile.

Un giovane talento.

BITS-RECE: Laura Mvula, The Dreaming Room. Pop, ma non troppo

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Laura Mvula - The Dreaming Room Artwork
Ci sono tante cose dentro a questo The Dreaming Room, secondo lavoro di Laura Mvula. C’è una buona dose di soul, una certa quantità di pop, dell’r’n’b, reminiscenze gospel, persino eco di afro music. E proprio per questo album sfugge a qualsiasi tipo di catalogazione, così come la sua interprete: non certo la più tipica “lady soul”, ma neppure una qualsiasi starletta del pop.

Senza essere un disco indimenticabile, The Dreaming Room è una piacevole dimostrazione di come si possa fare della buona musica fluttuando tra un genere e l’altro, e riuscendo a piazzare un paio di colpi vincenti come il singolo Overcome (guardatevi anche il video!), che vede l’intervento di Nile Rodgers, e la gaudente Let Me Fall.
In People fa capolino nientemeno che la London Symphony Orchestra, anche qui in un amalgama di stili spumoso che sì sale, ma non quanto si vorrebbe e ci si aspetterebbe.

Bene quindi nel complesso, ma la sensazione è che con questo “materiale di partenza” si potrebbe arrivare a tirare fuori qualcosa di molto più intrigante.

Seravezza Blues Festival: il 14 luglio la seconda edizione

Seravezza Blues Festival
Si svolgerà giovedì 14 luglio nella suggestiva cornice del Palazzo Mediceo la seconda edizione del Seravezza Blues Festival, uno degli appuntamenti dedicati al blues più prestigiosi non solo della Toscana, ma di tutta Italia.

Un evento che, dopo lo strepitoso successo della prima edizione, vuole coinvolgere un pubblico sempre più vasto, abbracciando non soltanto gli appassionati del blues, ma anche chi intende trascorrere una intensa ed emozionante serata in una magnifica location.

L’associazione “Alexandre Mattei”, organizzatrice del Seravezza Blues Festival, ha allestito una line-up di assoluto livello che comprende Marcos Coll, Tom Blacksmith e Jaime Dolce.

Marcos Coll è nato a Madrid nel 1976. Con la Tonky Blues Band, la più celebre blues band spagnola, a soli 21 anni ha avuto l’opportunità di esibirsi con Mike Taylor dei “Rolling Stones” e Tom Jones. Successivamente ha formato, con Adrian Costa, il gruppo “Los Reyes del Ko”, ottenendo premi e riconoscimenti e condividendo il palco con artisti del calibro di Buddy Guy, Johnny Winter, Chuck Berry, John Mayall e Solomon Burke. E’ recente la pubblicazione del suo ultimo album “Street Preachin'”, inciso assieme a Stefano Ronchi. Tom Blacksmith è un polistrumentista d’eccezione (suona chitarra, basso, armonica e batteria) e cantante dotato di una voce tanto grintosa quanto particolare. Appassionato sin dai tempi della gioventù alla musica black del delta del Mississippi, si è trasferito in varie città degli Stati Uniti per perfezionare il proprio stile. Attualmente è leader di alcuni tra i più apprezzati gruppi di Berlino con i quali si esibisce in tutta Europa. Jaime Dolce, newyorkese di nascita ma versiliese d’adozione, è il “duro” della chitarra. “Elevation Blues” è il nome del suo nuovo album. Nato a Brooklyn, ha intrapreso la carriera solista da giovanissimo, componendo brani sempre originali che danno libero sfogo alla sua vena creativa.

Il concerto sarà preceduto da una serie di iniziative che animeranno la centralissima Piazza Carducci e l’area del Duomo di Seravezza. Sin dal tardo pomeriggio, esibizioni di artisti locali e manifestazioni a tema per coinvolgere adulti e bambini.

Brooke Candy. La più cattiva delle popstar

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Per questione di sintesi, nel titolo di questo articolo ho scritto “popstar”, ma il mondo di Brooke Candy ruota in realtà attorno tanto al pop quanto all’hip hop, e non è raro leggere per lei la definizione di “rapper”. Resta comunque il fatto che il suo è il volto più perverso e più cattivo tra quelli attualmente in circolazione nel pop e nell’hip hop: un volto sfrontato, provocatorio e provocante, distorto, assolutamente affascinante.

Pensate alla Lady Gaga di qualche anno fa (diciamo il periodo Bad Romance/Alejandro), prima cioè che decidesse di vestire i panni di dama del jazz: outfit estremi, e un deciso gusto per il “non bello”, il blasfemo, persino il macabro (vi ricordate i teschi, i litri di sangue finto, l’abito di carne cruda?). Ecco, pensate a quella Lady Gaga e poi ripensatela al quadrato o al cubo, e avrete un’idea più o meno precisa di quello che è Brooke Candy.
Probabilmente, se non fosse arrivata Lady Gaga a buttare sul pop quella secchiata di vernice color petrolio, oggi non avremmo Brooke Candy (così come non avremmo mai avuto Gaga se non ci fosse stata prima Madonna, che a sua volta deve molto a icone come Debbie Harry, e via così all’indietro, con buona pace di tutti): questo non perché Lady Gaga abbia davvero inventato qualcosa, ma è stato il personaggio che è riuscito a dare enorme visibilità a certe scelte di stile.
Ecco, la giovane Brooke si è messa su questa strada: nonostante il confronto inevitabile, pare però che non ami essere accostata alla Germanotta, ma piuttosto ha dichiarato di ispirarsi a un’altra diva del music biz, Lil’ Kim.

Nata a Oxnard, in California, nel 1989, Brooke è figlia del direttore finanziario della rivista a tinte porno Hustler. I primi passi nella musica li ha mossi nel 2012, quando i suoi primi video sono apparsi su Youtube: fra questi c’era Das Me, che la vedeva in versione cyber con capelli fucsia e mega zatteroni. Sono arrivate le prime collaborazioni (Charlie XCX, Grimes), le prime citazioni su magazine di musica e di moda e il suo nome ha iniziato a girare.

Il primo punto di svolta è però arrivato nel 2014, quando Brooke ha fatto il colpaccio aggiudicandosi la regia dell’arcipatinato Steven Klein per il video di Opulence, il singolo – firmato anche da Sia e prodotto da Diplo – che avrebbe dato il titolo al primo EP: scenario violentissimo, atmosfere claustrofobiche, distopiche, visionarie, un’orgia di delirio e sesso. In poche hanno osato così tanto, Brooke Candy si è spinta ben al di là delle bistecche crude di Gaga, ci ha mostrato il lato più malato e perverso a cui può arrivare il pop.
Ad oggi il video conta solo 2 milioni di visualizzazioni, il disco non ha lasciato segno in classifica e il nome di Brooke Candy è rimasto nel limbo dell’underground o poco più.
Forse ci si aspettava un altro riscontro…

La ragazza non si è comunque fermata, ma anzi si è legata sempre di più al mondo del fashion, seguendo la stessa ricetta delle colleghe più celebri, ma facendo le cose a modo suo: come aveva fatto Lady Gaga nel periodo Born This Way, ha lavorato a stretto contatto con lo stylist Nicola Formichetti, un altro a cui piacciono molto le bizzarrie noir, e si è fatta splendidamente immortalare – tra gli altri – da Klein, Terry Richardson, Richard Burbridge, in servizi fotografici che difficilmente hanno lasciato indifferenti. Tra il 2015 e il 2016 ha collaborato con il colosso M.A.C. per lanciare sul mercato due linee di cosmetici.
Non bisogna certo essere Madonna per sapere quanto sia fondamentale per una popstar vendere bene la propria immagine: Brooke Candy lo fa portando il gioco all’estremo, con un’immagine potente e sfacciata, eppure bellissima. Restando perfettamente a metà strada tra pop e hip hop, Brooke li concentra anche nel suo universo visivo: più patinata di Lil’ Kim, più cattiva di Lady Gaga, molto più sporca di Nicki Minaj, ancora più eccessiva di Rihanna. 

Se volete fidanzarvi con lei, sappiate che si definisce “pansessuale”, mentre se entrerete a far parte della schiera dei suoi fan, sarete dei #FagMob.

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Nell’ultimo anno Brooke Candy ha pubblicato diversi singoli (quasi tutti accompagnati dai relativi video), molti dei quali quali finiranno probabilmente in The Daddy Issues, il suo primo album, che dovrebbe arrivare entro la fine del 2016: uscirà per la Sony e si parla di una produzione curatissima, in cui è stata coinvolta anche Sia.

Insomma, sembra arrivato anche per lei il momento del grande salto.
E io lo aspetto, con una certa impazienza.

Dweezil Zappa Plays Frank Zappa all’Auditorium di Milano

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Dweezil Zappa all’Auditorium di Milano

canta il mito intramontabile di Frank Zappa

 

50 Years of Frank: arriva in Italia Dweezil Zappa, insieme alla sua band, per far rivivere il mito intramontabile del padre, Frank Zappa. L’appuntamento è fissato per lunedì 18 luglio all’Auditorium di Milano; i biglietti sono disponibili su Ticketone (http://bit.ly/26wBVTC) e presso la biglietteria dell’Auditorium di Milano (http://www.laverdi.org/italian/biglietti.php) .

Dopo gli esordi come vj di MTV, Dweezil Zappa approda nel mondo della musica nel 1982 con il singolo My Mother is a Space Cadet. Da lì, la sua carriera si è arricchita di importanti collaborazioni – con Jeff Beck e Edward Van, tra gli altri – e partecipazioni a show televisivi. Il progetto Dweezil Zappa Plays Frank Zappa, vede la luce nel 2000 con l’obiettivo di suonare in tutto il mondo la musica del padre Frank, insieme ad altri musicisti di grande livello e ospiti famosi e assume oggi un particolare significato.

Il 1966, infatti, è stato l’anno in cui Frank Zappa ha pubblicato il suo iconico doppio album Freak Out, e non era che l’inizio per colui che è considerato uno dei più grandi geni musicali dello scorso secolo, capace di fondere in modo ineguagliato diversi generi tra loro ottenendo uno stile inconfondibile. Cinquant’anni dopo è il figlio Dweezil Zappa, in tour insieme alla sua band, a presentare il suo 50 Years of Frank al pubblico di tutto il mondo e ad incaricarsi del compito monumentale di eseguire le composizioni che abbracciano l’intera carriera del padre. Dweezil per l’occasione ha pensato ad uno show molto particolare: la scaletta sarà costruita sotto forma di medley che ripercorreranno la carriera di Zappa. “Una panoramica cronologica dal vivo” per conoscere l’intero universo musicale di Frank che, unita all’alta qualità dei musicisti, non può che segnare un momento cruciale per ogni appassionato e non della musica di Zappa.

 

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Lunedì 18 Luglio 2016

Auditorium di Milano – Largo Gustav Mahler

Doors: 20.00 / Inizio concerti: 21.00

Platea: € 35,00 + prev.

Galleria: € 25,00 + prev.

Ridotto: € 15,00 + prev. (abbonati, under 30, over 65)

 

La biglietteria dell’Auditorium di Milano è aperta nei seguenti orari: mar-dom 14.30 – 19.00 e un’ora prima dei concerti.

Info: 0283389401/402/403; info@auditoriumdimilano.org