BITS-RECE: Lady Gaga, “Harlequin”. Elogio della follia
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Partiamo da un presupposto: se Lady Gaga non fosse stata coinvolta in Joker-Folie à Deux, molto probabilmente questo disco non avrebbe mai visto la luce.
Annunciato praticamente a sorpresa con solo qualche giorno di anticipo sull’uscita, Harlequin è da subito stato presentato dalla stessa Gaga come un “album di accompagnamento” all’arrivo nelle sale del film che la vede protagonista insieme a Joaquin Phoenix, pellicola in cui a lei spetta vestire i panni di Harley Quinn.
E che si tratti di un progetto speciale, e non di un vero e proprio capitolo della discografia di Mother Monster, ce lo dice anche il fatto che per indicare questo album è stata utilizzata la sigla “LG6.5”, in riferimento al fatto che il vero nuovo, attesissimo progetto, per ora noto solo come “LG7”, arriverà più avanti.
Sintetizzando, potremmo affermare che Harlequin è una sorta di capriccio che Gaga ha voluto togliersi, forte di una vena creativa che mai come in questo periodo sembra inesauribile. Un vezzo artistico, che ci ricorda che lei può permettersi di spaziare dalle hit da classifica agli standard jazz con una naturalezza e una disinvoltura eccezionali.
E infatti, con il pretesto di questo nuovo lavoro, Gaga ha potuto rituffarsi per la terza volta nel mondo del jazz, dopo i due album pubblicati insieme a Tony Bennett, e dopo aver concluso da pochi mesi la residency a Las Vegas con le serie di concerti “Jazz & Piano”.
Insomma, se il pop è il genere che ha dato a Gaga la grande notorietà, il jazz sembra essere la sua vera comfort zone, il rifugio sicuro in cui tornare.
Con l’obiettivo di esplorare fino in fondo l’anima di Harley Quinn, portandone in evidenza più sfumature possibili, con Harlequin – titolo che gioca tra il nome del personaggio e quello della celebre maschera bergamasca – Lady Gaga riprende alcuni grandi classici del repertorio jazz e soul come Good Morning, Oh, When the Saints, World on a String, That’s Entertainment, Smile, That’s Life, e la sensazione è che mai come in questo caso lo faccia in piena libertà, scegliendo le chiavi di lettura e le intenzioni senza timore di andare fuori strada o di allontanarsi troppo da quello che il pubblico potrebbe aspettarsi o gradire.
Celandosi dietro alla maschera folle e ai panni di Harley Quinn, Stefani Germanotta ci costringe a legittimare ogni sua scelta e brano dopo brano ci svela un’anima complessa, in cui ogni sentimento è come uno scampolo di un diverso colore.
Qui la questione non è se una traccia sia più bella o più riuscita dell’altra, o se ogni pezzo fosse davvero necessario all’interno del disco. Piuttosto, quello che Gaga-Quinn sembra volerci chiedere è se le canzoni che canta ci stanno davvero raccontando qualcosa e se nelle parole di questa o di quella canzone riusciamo a cogliere un significato che era sempre rimasto sotto la superficie. Perché è questo ciò che lei vuole fare, e questo è il vero obiettivo di Harleiquin, indagare ciò che si nasconde sotto la maschera, non avere paura di cercare a fondo nell’anima, anche a costo di scontrarsi con la follia.
Harlequin in fondo è un progetto “storto”, folle per il mercato, ma lucido nella sua costruzione; un disco anche ostico, che però solo Lady Gaga, oggi, tra i grandi nomi del mainstream potrebbe permettersi di realizzare.
Se per i precedenti Cheek to Cheek e Love for Sale Gaga poteva godere della presenza dell’amico Tony, che in qualche modo giustificava la sua scelta di aver realizzato un album jazz, qui la partita se la gioca da sola. E proprio per questo sceglie di andare fino in fondo, proponendo anche due pezzi inediti.
Il primo, Folie à Deux, è un numero sciantoso che sembra uscire da una notte nella Ville Lumière. Il secondo, Happy Mistake, è una di quelle meraviglie che Gaga sa tirare fuori dalla penna e sa interpretare come nessuna. Dentro c’è il dramma, la follia, il dolore, l’ossimoro delle lacrime che fanno sciogliere il trucco, mentre sul viso spunta un sorriso.
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