Non so se sia proprio un caso che i Thegiornalisti, uno dei gruppi italiani di punta degli ultimi anni, arrivi proprio adesso a intitolare un album LOVE, cioè AMORE, cioè il termine più pop e più abusato da sempre nella storia della canzone.
Mi spiego meglio.
Tutti gli artisti, dal più becero esponente del tunz tunz al più ermetico rappresentante dell’indie, hanno parlato d’amore: ognuno a suo modo, ma l’hanno fatto tutti. Nessuno però, o quasi, lo ha dichiarato in modo così palese come fa ora il gruppo di Tommaso Paradiso, mettendo anche il titolo in capslock su texture arcobaleno.
Senza esagerare nell’attribuire a questa scelta chissà quale missione ideologica, sembra però significativo che uno degli album più attesi dell’anno – quello che dovrebbe dare alla band la consacrazione definitiva – arrivi portando un messaggio d’amore proprio nell’era del web-bullismo, e proprio quando uno dei temi più scottanti nell’attualità è quello dell’integrazione, mentre dall’altra parte dell’oceano si pensa ad alzare muri.
Ripeto, non voglio dare al titolo di un album pop un significato che forse non ha nelle intenzioni originali, ma la sensazione è che l’amore in questione non sia solo quello che ti fa palpitare il cuore e arrossire le guance. Un amore, questo, che trova tra l’altro una perfetta incarnazione nella titletrack del disco, cantata e raccontata con quello spirito innocente che di solito si perde dopo l’adolescenza. L’amore di cui c’è più bisogno e di cui Paradiso ha parlato nelle prime interviste per presentare il disco ha più a che fare con qualcosa di universale, fraterno, umano nel più ampio senso del termine.
Forse un disco non può fare molto, ma è almeno uno spunto in più per ragionarci sopra. E ben venga.
Dopo Ufficialmente sold out, i Thegiornalisti erano attesi al varco: a loro spettava solo decidere come arrivarci, e la scelta qualche piccola sorpresa l’ha riservata.
Nel nuovo album c’è – e questa è la più grande conferma – la scrittura di Paradiso, quella fin troppo chiara, quella che si sofferma sulle piccole cose di tutti i giorni, quella che riesce a essere un po’ scazzata (Felicità puttana) e un po’ gigiona e tenerona (Love). C’è l’ironia amara (Zero stare sereno) e la poesia spiazzante (il paragone incisivo con “la Nazionale del 2006” in Questa nostra stupida canzone d’amore è destinato a lasciare strascichi, e in chiusura con Dr. House arriva un’insapettata carrellata di celebrità ed eroi televisivi).
Musicalmente invece, l’apertura è affidata nientemenoche a un’epica sinfonia orchestrale, che lascia poi subito spazio alle sfaccettature del pop, da quello alla Coldplay dei primi tempi di New York a quello che ha il volto dell’indie o la scattante allegria elettronica (Milano Roma, L’ultimo giorno sulla terra).
Nel finale di Dr.House , dopo un inizio di solo pianoforte e un salto elettronico, si sconfina addirittura nel gospel, e funziona.
Questa è la definizione dell’amore, secondo i Thegiornalisti almeno.
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