BITS-CHAT: Una fotografia con Tiziano. Quattro chiacchiere con… Emanuele Dabbono
Con la musica ha iniziato ad averci a che fare molto prima, ma probabilmente la maggior parte di noi ha conosciuto Emanuele Dabbono nel 2008, quando ha partecipato alla prima edizione italiana di X Factor, quella di Giusy Ferreri per capirci, classificandosi terzo.
Poi in televisione lo abbiamo visto pochissimo, anche se lui la musica non l’ha mai lasciata. Da allora di cose ne sono successe tante: cinque album, due libri e una nuova esperienza, quella di autore, arrivata dall’invito di una persona molto speciale, che di nome fa Tiziano e di cognome Ferro.
Un sodalizio iniziato nel 2013 con un brano scritto per Michele Bravi, e proseguito con un contratto in esclusiva che ha portato a Incanto, fino a Valore assoluto, Il conforto e Lento/Veloce, tre brani di Il mestiere della vita, ultimo album dell’artista di Latina.
Un percorso incredibile insomma.
Quello che manca adesso è solo una cosa, una piccolissima cosa: una fotografia, che però va meritata.
Partiamo dall’inizio: come nasce la collaborazione con Tiziano Ferro?
È una storia abbastanza singolare, forse è la prima volta che la racconto: io e Tiziano ci conosciamo dal 1998, quando abbiamo partecipato entrambi al concorso dell’Accademia di Sanremo, che avrebbe poi portato al palco dell’Ariston tra le Nuove proposte del Festival. Siamo arrivati in finale, ma nessuno dei due è stato selezionato: siamo però stati contattati da Alberto Salerno (produttore discografico e marito di Mara Maionchi, ndr) e da quel momento abbiamo preso strade diverse. È capitato poi di incontrarci di nuovo qualche volta, come nel 2008, quando io arrivai in finale nella prima edizione di X Factor e presentai il mio inedito, Ci troveranno qui, mentre lui aveva scritto con Roberto Casalino l’inedito di Giusy Ferreri, Non ti scordar mai di me. Era già una superstar, io invece continuavo la mia gavetta nell’indie rock. Mi fece un sacco di complimenti e mi disse che non mi avrebbe perso di vista: al momento non ci ho dato troppo peso, mi sembrava una di quelle frasi di circostanza che si dicono, invece nel 2013 mi ha contattato per dirmi che gli avrebbe fatto piacere se avessi scritto un brano per Michele Bravi (vincitore della settima edizione di X Factor, ndr), perché gli piaceva la tenerezza che mettevo nella scrittura. Da lì è nata Non aver paura mai, e da quel momento lui ha deciso di mettermi sotto contratto come autore. Lo conosco da quasi vent’anni, e mi fa quasi sorridere pensare che non ho nemmeno una foto insieme a lui: non l’ho mai considerato come “vip”, ma ho sempre ammirato la sua dimensione umana. Credo sia anche per questo che mi apprezza e mi fa piacere che quando mi cita non mi definisce un suo autore, ma un suo amico.
Una storia davvero singolare, e molto bella!
Mi sembra un po’ una storia romanzesca di una volta, quando l’interprete aveva il suo autore di riferimento: un po’ come Vasco Rossi con Gaetano Curreri, io vorrei essere la sua firma. Se mai un giorno faremo una foto insieme, mi piace pensare che sarà lui a chiedermela, e allora vorrà dire che me la sono proprio meritata.
Di fatto, Tiziano Ferro è stata quindi la prima persona per cui hai scritto un brano.
Esatto: dopo il brano per Michele Bravi, Incanto è stata la seconda canzone che gli ho mandato ed è il mio primo vero successo, un po’ inaspettato tra l’altro, perché è un brano in tre quarti dalle atmosfere irlandesi. Il primo giorno di programmazione, su RTL dissero “Ecco il nuovo singolo di Tiziano Ferro, a metà strada tra i Tazenda e i Modena City Ramblers”, e in quel momento ho subito pensato che lo avrebbero tolto il giorno dopo dalla programmazione, invece il pubblico l’ha scelto e lo ha amato.
I tre brani che hai scritto per Il mestiere della vita sono stati composti pensandoli già per Tiziano?
Essendo il mio editore, devo fargli leggere tutto quello che scrivo: ogni volta che mi sembra di aver scritto qualcosa di buono glielo mando sperando che gli piaccia, ma finora non ho mai scritto pensando al destino della canzone, perché la strada che prende un brano è imprevedibile. Io so solo che devo fare del mio meglio, devo cercare qualcosa che abbia il germe della bellezza, che possa essere cantato in uno stadio e duri alle mode e al passare del tempo. La bellezza è l’unico diktat che ci siamo imposti, con la libertà di spaziare dal pop al rock, al soul al jazz. Dobbiamo schiacciare play e sentire noi per primi il brivido.
So che Il conforto non era stata pensata come un duetto.
È stato Tiziano a trasformarla: quando quest’estate ho sentito la versione finale del brano, in duetto con Carmen Consoli, è stata un’emozione indefinibile. Carmen è la prima artista femminile che canta qualcosa scritto da me: sono partito decisamente dall’alto!
Come nasce di solito un tuo brano? Da cosa parti quando scrivi?
Negli ultimi tre anni ho modificato drasticamente il mio modo di lavorare: sono un amanuense, scrivo tantissime canzoni, tutte catalogate in maniera forse un po’ maniacale, e oggi sono a quota 1571 brani. Una mole impressione, ma solo di una trentina vado davvero fiero. Da Capricorno, mi serve una “palestra enorme” per raggiungere un risultato minimo che mi soddisfi. Se agli altri bastano due o tre tentativi, a me ne servono almeno trenta. Scrivo da quando avevo 12 anni e mi piace mantenere la componente ludica: non ho orari o schemi prefissati, mi piace variare ogni volta, partendo dalle parole oppure da un giro di accordi di chitarra o basso, oppure usando Pro Tools, lo stimolo arriva sempre inaspettato. In genere, mi piace comunque avere un titolo da cui partire, come un chiodo a cui poter appendere un quadro.
Il conforto si chiude con troppo, troppo, troppo amore. Ma quand’è che l’amore diventa”troppo”?
L’amore è un’arma a doppio taglio, ci fa sentire migliori e in armonia con tutto ciò che ci circonda, ma è anche capace di toglierci il fiato e di farci sentire mancanti in qualcosa. Esiste un amore totalizzante e un amore destabilizzante, che diventa possesso, gelosia. Il conforto è anche una canzone sul coraggio di ammettere che una storia è finita, prendere in mano il proprio cuore significa prendere le distanze da una situazione che ci ha fatto soffrire.
A proposito del tuo lavoro, tu parli di “compito vitale” e il titolo del tuo ultimo libro è Musica per lottatori: come inquadri oggi la figura del cantautore all’interno della società?
Lottiamo sempre, fin dai primi istanti di vita, si viene al mondo tirando fuori i muscoli. Nel libro, la musica di cui parlo non è fatta di note, ma di parole. Penso che oggi il potere della musica non sia legato solo alle note, agli accordi, alla leggerezza o alla drammaticità che quelle note possono suscitare: oggi le canzoni devono trovare forza nelle parole, devono essere riscoperti i testi, perché se c’è una cosa che abbiamo ereditato dalla tradizione musicale e culturale italiana è proprio il bagaglio dei nostri cantautori, che sceglievano come spendere le proprie parole. Fossati ha detto che il futuro sarà di quella persona che un giorno userà una parola che nessuno ha ancora usato e la farà suonare come una cosa semplice per tutti. Credo molto nel potere curativo delle parole, unite alla musica possono fare del bene.
Negli ultimi anni hai suonato spesso all’estero, soprattutto in America, e hai anche inciso due album in inglese, Vonnegut, Andromeda & the tube heart geography e Songs For Claudia: mai avuta la voglia di tentare la strada fuori dall’Italia?
No, l’ho sognato, ma non ci ho mai davvero pensato. Sono abbastanza conscio dei miei limiti: suonare all’estero mi ha aiutato ad approcciarmi in maniera diversa alla scrittura e al pubblico e soprattutto mi ha fatto aprire la mente eliminando i paletti tra i generi, proprio come fa Tiziano, che passa dallo swing all’r’n’b al soul. Dovremmo imparare a farlo di più qui in Italia, perché spesso anche dai nostri grandi nomi arrivano tentativi un po’ provinciali di approcciarsi a generi diversi, si fatica ad uscire dal seminato. Per me suonare a Central Park o ad Harlem è servito soprattutto come esperienza personale, che ripeterei se ne capitasse l’occasione, ma senza cercare qualcosa di più.
In futuro su cosa vorresti concentrarti?
Sulla carriera da autore, senza per questo interrompere il lavoro da cantautore: come autore però sto provando un senso di libertà che prima raramente avevo vissuto. E poi veder arrivare nella vita delle persone qualcosa che hai scritto tu è una soddisfazione immensa: fa impressione sentire il pubblico di San Siro cantare qualcosa nato in una stanzina.
A questo punto, ho una curiosità da togliermi: che effetto fa sapere che il pubblico spesso non sa chi sia l’autore di un brano ma attribuisce le parole del testo solo all’interprete?
Io sono la persona sbagliata per rispondere, dovresti chiederlo a quegli autori che non vengono mai nominati dai loro interpreti. Posso dire di essere un privilegiato, perché Tiziano non perde occasione di fare il mio nome, addirittura lo ha fatto a Sanremo, roba che quando capita caschi dal divano. Mi sento totalmente appagato per quello che faccio.
Per chi ti piacerebbe scrivere?
Purtroppo quelli per cui vorrei scrivere lo sanno fare benissimo da soli! (ride, ndr) Se dovessi pensare a una collaborazione, mi piacerebbe moltissimo lavorare con Niccolò Fabi, persona che stimo molto, e Francesco Gazze, il fratello di Max e autore dei suoi testi. Mentre dormi è una delle canzoni più belle scritte negli ultimi anni, che non ha nulla da invidiare a Il cielo in una stanza.
Hai già fatto programmi con i Terrarossa, la tua band?
L’anno prossimo dovremmo tornare con un nuovo album, abbiamo già scelto le canzoni e mi piacerebbe che fosse un disco acustico: ho un sacco di influenze che arrivano da quel mondo, Damien Rice, Counting Crows, ho suonato per le strade in Irlanda e mi piacerebbe far sentire un po’ di quell’esperienza, lontano dai featuring e dai tentativi di avvicinarmi alle radio. Vorrei fare un disco onesto, un piccolo gioiellino, magari registrato tra la sala e la cucina con i microfoni aperti.
Cosa ti resta oggi di X Factor?
Un’esperienza che mi ha dato popolarità e la possibilità di far diventare lavoro una passione, ma anche un’esperienza violenta, lontana dal mio modo di essere e di vivere la musica, perché mi sono dovuto confrontare con le cover ed è stato un po’ limitante. Essendo la prima edizione, non sapevo bene cosa mi aspettava e dopo la prima puntata volevo venir via, invece sono arrivato in finale. Considerando tutto, oggi non so se lo rifarei.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
La ribellione più grande oggi è essere se stessi: può sembrare una frase fatta, ma il più grande anticonformista è chi non guarda tanto fuori per vedere come sono o cosa chiedono gli altri, ma scava molto di più dentro se stesso. In tutti gli ambienti, musica compresa, si resta incanalati in parecchi schemi, e solo quando si va alla ricerca della propria essenza si fanno cose veramente originali, vale a dire uguali a ciò che si è. E essere uguali a se stessi è il più grande atto di “fanculo” che si può gridare al mondo.
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[…] di darmi una definizione di ribellione, ma a questa domanda avevi già risposto in un’intervista precedente. Ti chiedo allora di scegliere una di queste parole e di spiegarmi che significato ha per te: […]